Cinque voci sulla venustas in architettura

PAOLA SCALA
Nel numero 136 di questa rivista Emanuele Carreri ha pubblicato un articolo dal titolo: Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia, un divertente dialogo, una sorta di taglia e cuci tratto dal blog che da marzo a maggio 2009 si è tenuto sul sito web www. eurau10.it.

Il dialogo tra Bellezza, Architettura, Mercato e Democrazia si svolge a New York, lungo la rampa che lega i sette livelli del Guggenheim (primo e ultimo edificio che ascolti le ragioni di architettura, mercato e democrazia, e sia anche bellissimo). Quel giorno il Guggenheim ospita – guarda caso – una mostra sull’architettura contemporanea: tante immagini, pochi e aforismatici commenti.
Alla Bellezza non piace la piega che stanno assumendo le cose nel mondo, e medita, arrivata in cima alla rampa, di buttare giù almeno uno dei suoi interlocutori. Ma neanche Architettura, Mercato e Democrazia sembrano tanto tranquilli.
Nei giorni 23, 24, 25 e 26 giugno 2010, è stato «messo in scena» un nuovo dialogo tra architettura mercato e democrazia, non sul palcoscenico del Guggenheim di New York, ma su quello del Centro Convegni Partenope di Napoli, dove si è svolta non una mostra di architettura ma «Eurau 10», 5° edizione delle giornate Europee sulla Ricerca Architettonica e Urbana, convegno dal titolo: Venustas, architettura/mercato/democrazia.
L’edizione napoletana, coordinata e diretta da Roberta Amirante della Facoltà di Architettura di Napoli, si proponeva dunque di indagare organizzare un confronto tra le tante, possibili interpretazioni del concetto di venustas in epoca contemporanea.
I circa centosettanta interventi dei relatori provenienti da tutta Europa, selezionati per partecipare alle quattro giornate di studio, costituiscono altrettante risposte alle domande poste dagli organizzatori del convegno nel call for paper lanciato nell’ottobre del 2009: è possibile ancora oggi parlare di una «bellezza» tutta interna all’architettura?
Il termine bellezza è effettivamente il più appropriato per raccontare la venustas dell’architettura nel tempo del mercato e nell’epoca della democrazia
moderna?
E comunque è ancora la «bellezza» una necessità per l’architettura di oggi, utile a spiegare il rapporto degli umani con il mondo e con il tempo?

E ancora: come coniugare necessità e «bellezza», qualità e «bellezza»? Questo compito spetta ancora a qualche «maestro»? O alle «scuole» pensate come luoghi dove si costruisce la circolarità del sapere? E in ogni caso, come coniugare creatività e regole, disciplina e immaginazione? O, nell’epoca della «rete», sono altri i luoghi e gli strumenti con cui si costruiscono e si trasmettono le tante, variate interpretazioni della «bellezza»?
Ed infine: come si costruisce la domanda di «bellezza»? E come si valuta la «bellezza»? Chi la valuta e su quali molteplici canoni? È possibile insomma indagare le modalità attraverso cui oggi la venustas viene colta, interpretata e messa in forma?
Nella giornata introduttiva del convegno Renato De Fusco, Gustavo Zagrebelsky, Marco Romano e Michele Salvati, hanno tracciato, ciascuno dal proprio specifico disciplinare, un quadro teorico di riferimento, costruendo, di fatto, lo scenario sul quale, nei giorni successivi, si sono confrontati le relazioni dei convegnisti.
Gli interventi dei centosettanta relatori sono stati sviluppati nell’ambito delle sessioni parallele, organizzate secondo le tre tematiche principali individuate dagli organizzatori del convegno – progettare la venustas, trasmettere la venustas, costruire la venustas .
In quest’articolo, dunque, si comincia a ragionare sulla voce «venustas» di un possibile dizionario di architettura contemporanea, provando ad inquadrare le diverse posizioni contenute negli interventi dei partecipanti al convegno, nell’ambito di un più ampio dibattito architettonico.
I cinque significati del termine venustas che seguono, sono dunque costruiti alla maniera di Op.cit, ovvero costruendo una struttura di relazioni tra citazioni tratte dagli articoli pubblicati nei pre-atti del convegno (attualmente disponibili sul sito www.eurau10.it) e posizioni teoriche espresse dalla critica architettonica contemporanea.
Venustas: 1. qualità propria dell’architettura sia intesa come disciplina che come opera, rinvenibile cioè nel carattere e nella forma dell’opera stessa e nel sistema di regole che ne definiscono la struttura.
Secondo Renato De Fusco, venustas e bellezza sono sostanzialmente la stessa cosa definita quasi per intero dalla symmetria vitruviana da lui stesso associata all’idea di standard : a qualcuno dispiace se associo l’idea dello standard alla symmetria vitruviana e se sostengo che questa definisce quasi per intero la bellezza in architettura?
La symmetria teorizzata da Vitruvio, da non confondere con la simmetria bilaterale, definisce la relazione tra le singole parti e il tutto dell’opera: la composizione del tempio si basa sulla simmetria i cui principi l’architetto deve rispettare scrupolosamente.
Essa del resto nasce dalla proporzione che in greco è detta άναλoγlα . La proporzione non è altro che la possibilità di commisurare, secondo un modulo fisso, le singole parti di un’opera e l’insieme nel suo complesso […] senza rispettare simmetria e proporzione nessun tempio può avere un equilibrio compositivo come è perfetta l’armonia di un uomo ben formato.
Nel terzo libro del De Architectura dunque, Vitruvio lega il concetto di symmetria alla parola greca άναλoγlα. Il termine ha una carica semantica che meglio racconta le implicazioni anche figurative di un sistema di regole «analogo» a quelle del corpo umano: un sistema di proporzioni che, in quanto tale, esprime un rapporto gradito alla vista, in quanto commensurabile si esprime in termini numerici.
Nella symmetria vitruviana, non è importante l’unità di misura, che nel corpo umano è il pollice, il palmo o il piede, nel tempio è la grossezza delle colonne o del triglifo e nelle navi è l’interscalmio, ma il sistema di regole che assicura l’armonia dell’opera.
Il modulo non è perciò un modulo-natura, ma un modulo-misura: in Vitruvio, il modulo è mero principio metrico: non pretende di riflettere una profonda legge di natura, ma mira soltanto ad assicurare un’armonia di effetti visivi.
In altre parole nell’idea di symmetria vitruviana, l’armonia dell’opera non dipende dai singoli elementi che compongono lo spazio riconoscibili come forme (colonna – pilastro – arco – etc.), come accade ad esempio nel Barocco, ma dalla commensurabilità della singola parte con il tutto.
Secondo Argan infatti nello spazio costruito da forme la bellezza non è l’ esito di un processo ripetibile e trasmissibile poiché il valore della forma non dipende solo dalla propria morfologia, ma dalla propria situazione; mentre l’oggetto è sempre ripetibile, né può mutare con il mutare della propria situazione spaziale; ecco dunque apparire in tutta evidenza quel fil rouge teorizzato da De Fusco, nel suo intervento introduttivo al convegno, tra il concetto di symmetria vitruviana e l’idea moderna di standard, che non è un tipo di forma, ma un tipo di oggetto […] e come tale prende il posto che aveva, nel processo della progettazione classica, il modulo: tanto da potersi affermare che la grande scoperta dell’architettura moderna è la sostituzione del modulo-oggetto al modulo misura.
La venustas come qualità intrinseca all’architettura, legata cioè alla sua struttura, non è riconducibile ad un determinato momento storico e dunque, anche in epoca contemporanea, il compito di coniugare necessità e bellezza, qualità e bellezza non può che essere affidato a quella scuola e segnatamente a quel maestro che si assume la responsabilità di suggerire precise norme […] a quei maestri che non si lasciano suggestionare da mode passeggere quali il postmodern o il riduzionismo, distinguendo la modernità dal modernismo e contando ancora sui fondamenti, magari mai studiati e approfonditi prima.
L’idea di una venustas intesa come continuo ri-fondamento della disciplina architettonica, esito di un processo compositivo che poggia su di una teoria e su di una tradizione disciplinare è uno dei temi trasversali che viene sviluppato da molti degli interventi discussi nelle quattro giornate del convegno.
La condizione per superare i fascini del tatuaggio e della grafomania che insidiano l’architettura è, come sempre, la riflessione sull’architettura stessa: l’osservazione e la comprensione dei manufatti che ne costituiscono il corpo disciplinare e la memoria materiale.
Questa idea di una venustas contenuta nella struttura stessa dell’opera, nell’ordine della sua composizione, nella disposizione dei suoi elementi sembra ancora oggi una possibile risposta alla domanda posta dal mercato e della democrazia su una possibile individuazione di «parametri di valutazione» della qualità estetica di un’opera, che non si esauriscano nella soggettiva sensibilità di chi valuta.
Gio Ponti sosteneva che nella nostra cultura tutto è simultaneo e che dunque non possono esistere fratture storiche e/o tecniche nel giudicare l’architettura antica e moderna dal momento che i termini di giudizio per giudicare l’architettura […] trascendono dall’epoca stessa e dai suoi materiali in un ricorso esclusivamente spirituale a perenni e immutabili termini di pensiero.
In molte delle relazioni presentate al convegno è evidente la volontà di non cedere alla tentazione di confinare la bellezza in architettura nell’ambito della sola sfera della percezione personale e del gusto soggettivo, – non più soltanto pulchritudo ma di nuovo venustas – richiamando invece gli architetti ad una tradizione disciplinare che insegna che la bellezza dell’opera di architettura non può prescindere dalla ricerca di un sistema di regole e dalla individuazione di una struttura che definisca un ordine chiaramente intellegibile, nella consapevolezza che lo spazio architettonico non può esistere senza struttura.
È nella ricerca di una bellezza trasmissibile in termini tutti interni alla disciplina che alcune di queste relazioni individuano un possibile rapporto tra venustas e democrazia, altrimenti negato dalla condizione limite della nostra epoca: venustas vs democrazia, dove la vera venustas è negata ad una collettività in-consapevole perché travolta dalla cultura dei media che ha come corollario il fatto che, a poco a poco, l’osservatore è diventato sempre più passivo.
Venustas: 2. qualità estetica ed etica dell’architettura, capace di coniugare cioè i caratteri formali dell’opera con esigenze di carattere funzionale, economico e di svolgere un ruolo attivo nell’ educazione e nella responsabilizzazione della collettività.
Alla venustas, viene dunque affidato il compito di superare una dimensione estetica tout-court dell’architettura e di recuperare una sua qualità etica che impone di non considerare il manufatto architettonico come un oggetto autonomo e autoreferenziale, ma come elemento di una struttura più ampia – città, territorio, paesaggio.
La venustas, come sintesi della qualità etica ed estetica dell’opera, costringe perciò l’architetto a riflettere sulla responsabilità del progetto con la sua capacità di ingombrare durevolmente il mondo e di influenzare in maniera diretta la nostra vita quotidiana.
Alla dimensione etica della venustas fanno riferimento anche tutti quegli articoli che ne danno una interpretazione più «oggettiva», valutabile in termini di sostenibilità ambientale e di rispondenza a precisi requisiti come quelli dell’abitare contemporaneo.
Senza voler, anche qui, soffermarci sugli aspetti morali, che dovrebbero appartenere in diversa misura alle singole coscienze, ciò che appare importante per la definizione della moderna «venustas» è la necessaria attenzione ad alcune implicazioni etiche del costruire sostenibile, intendendo questo termine nell’accezione più ampia possibile.
Dal momento che, nell’epoca della tecnica è stata definitivamente espulsa la dimensione estetica connessa a quella etica del progresso, facendone un elemento a se stante e autoreferenziale, è oggi più che mai necessario indagare su di un concetto di venustas che non produca una scissione tra l’immagine dell’opera e la sua sostenibilità tecnica ed economica «tradendone» la funzione.
Si tratta di recupera cioè, oltre ad un nuovo equilibrio tra firmitas , utilitas e venustas, il valore di altre componenti vitruviane come il decoro, inteso come appropriatezza della forma alla funzione e la distribuzione intesa come misura della giusta spesa moderata dalla ragione.
Il rapporto forma – funzione oggi, da binomio sostenibile legato a tecniche e a saperi locali, è divenuto antitesi, con soluzioni identiche per ogni contesto territoriale, basate su largo uso di tecnologie ed impianti come unica risposta ai criteri di comfort e vivibilità degli edifici.
All’idea di una architettura indifferente ai valori del contesto nel quale si inserisce, incapace di stabilire una relazione non solo con la storia e la geografia del luogo che interviene a modificare e a creare, si oppone la necessità di una risposta e(ste)tica alla crescente domanda di qualità proveniente dal mercato.
La nostra società infatti chiede proprio all’urbanistica e all’architettura di affrontare i grandi temi della contemporaneità che sono la domanda sociale, la qualità urbana, l’ambiente, la residenza, la mobilità, una produzione edilizia ecologicamente sostenibile … pertanto «Bello» nel senso che abbia grazia e armonia con il contesto, […] emerge il bisogno di far percepire i luoghi costruiti come luoghi sistemici, superandone la visione del funzionamento atomizzato che identifica ogni edificio come ambiente isolato.
Venustas: 3. Capacità del progetto di lavorare sulle differenze per strutturare nuove relazioni tra frammenti di paesaggi diversi costruendo una immagine «nuova» ma congruente con le tracce del passato.
Nel passaggio da un’interpretazione più interna al corpus disciplinare architettonico a quella di una sua maggiore aderenza alle richieste attuali del mercato, l’idea di venustas si apre dunque al luogo.
Questo spostamento dello sguardo ci impone di leggere il singolo manufatto come parte di un sistema di nessi più ampio, di una struttura nella quale la disposizione degli elementi non è più semplicemente legata alla ricerca di un’armonia interna dell’opera e ad un sistema di regole interno alla disciplina, ma ai caratteri del luogo, alla sua architettura fatta di forme che sono memoria e traccia della sua storia e della sua geografia.
L’ apparire dei luoghi obbliga il progetto ad abbandonare l’astrazione di un modello universale e a specificarsi rispetto al contesto nel quale si inserisce, una specificità che non è mimesi stilistica ma capacità di leggere interpretare e tradurre in forma le relazioni di uno specifico contesto.
Dalla composizione architettonica al progetto urbano, se i principi dell’architettura rimangono immutabili nel tempo sono i materiali del progetto che cambiano. L’analisi urbana negli anni 60 si è misurata con la città storica e con le sue regole, l’architettura contemporanea è oggi invece chiamata a lavorare con nuovi materiali, il vuoto, le aree di margine, i recinti delle aree industriali dismesse, materiali urbani spesso «vuoti» di significati o al contrario ridondanti di messaggi contraddittori.
Su questa realtà le categorie tradizionali dell’analisi urbana slittano ed è pertanto necessario ricorrere a nuovi strumenti e tecniche di descrizione. Non si tratta però, o soltanto, di mettere a punto uno strumentario capace di riconoscere la bellezza inusuale di questi luoghi, moderno gusto del pittoresco che si concretizza in atlanti nei quali materiali «eclettici» vengono assemblati attraverso un sistema di nessi insolito, restituendo nella struttura stessa dell’atlante la complessità della città contemporanea.
Piuttosto è necessario riconoscere il valore della bellezza [come] operatore progettuale imprescindibile, attraverso il quale l’architettura può riqualificare [anche] i contesti che definiamo di margine o residuali.
È questo il ruolo del progetto urbano inteso come progetto di modificazione, un progetto che non solo è misura – modus – della modificazione che il contesto induce sull’opera ma anche di quella che la stessa induce sul territorio traducendo in una nuova forma fisica il sistema di relazioni che costruisce un paesaggio.
Questo progetto quindi non può essere l’esito compositivo di una struttura di regole universali, al contrario esso non può che essere l’esito di un processo che prende le mosse dall’inventario delle differenze che costruiscono i luoghi e trasformano il territorio, dominio dell’urbanistica, in paesaggio, campo d’azione anche del progetto urbano.
Delle differenze il progetto si dovrebbe alimentare per restituire una interpretazione quanto più autentica del senso dei luoghi sui quali agisce. Ragionare sulle differenze dovrebbe essere quindi il presupposto imprescindibile per il perseguimento della venustas.
La riconfigurazione dei paesaggi urbani contemporanei dovrebbe partire dal riconoscere le differenze tra i luoghi, indagando i loro caratteri identitari, dettati dalla geografia, dalla storia, dalla vita di chi li abita o li attraversa.
Venustas: 4. Capacità del progetto di risignificare un luogo costruendo una struttura a dimensione umana da contrapporre allo spazio globale che la nostra epoca propone.
Alla bellezza si chiede dunque di restituire significato a queste aree trasformandole in luoghi urbani nei quali la collettività possa riconoscersi. E’ nella coppia oppositiva globale/locale che, nella società contemporanea, il dialogo tra venustas, architettura/mercato e democrazia conosce maggiori asprezze.
In realtà oggi al centro della vita degli individui che consumano non c’è solo la conquista di una concezione infinita dello spazio ma anche il suo contrario: la percezione del luogo e del suo territorio vissuti come controtendenze rispetto ai processi in atto.
Da una parte dunque i cambiamenti culturali della nostra epoca hanno riempito le nostre città di «non luoghi», il concetto inventato da Augè per indicare una categoria di spazi della città contemporanea, come stazioni, aeroporti ma anche centri commerciali e ipermercati, in cui l’individuo si muove indifferente alla loro qualità spaziale e attento solo al messaggio globale che questi spazi trasmettono; dall’altra è proprio qui che spesso si chiede all’architettura di intervenire per ritrovare un’identità locale capace di restituire una dimensione umana agli spazi in cui viviamo.
La bellezza di questi luoghi non può più essere la perfezione, non è la concinnitas, non è l’equilibrio di un attimo. E’ una bellezza di secondo piano, una bellezza meticcia diffusa come un benessere necessario, come una patina che può, senza inutili moralismi, restituire seduzione reale anche al più cafone mercato dell’Occidente o alla più impegnata organizzazione non governativa di una delle tante aree a rischio del pianeta.
La bellezza democratica è oggi la griffe falsa, la chirurgia plastica, la tecnologia a buon mercato, le utilitarie di lusso vendute a rate, insomma il simulacro della felicità offerta a tutti a tutti i costi. E tuttavia ciò che resta in qualche modo equivoco, rispetto a questa definizione di bellezza è proprio il ruolo della cultura architettonica nella loro trasformazione.
Se è vero cioè che buona parte di questi luoghi è costruita senza mediazioni come merce, prodotto di un vero e proprio mercato, che esprime il suo «desiderio di bello» e di autoaffermazione estetica attraverso il linguaggio del prodotto condiviso e compreso ma «tragicamente» lontano da ciò che chiamiamo cultura architettonica è altrettanto vero che proprio la cultura architettonica tende spesso ad arroccarsi su posizioni teoriche distanti dalla realtà, o al contrario, a cedere al fascino delle immagini mediatiche e alle lusinghe del mercato, aderendo incondizionatamente all’ idea dell’architettura come prodotto e della bellezza associata sostanzialmente alla componente rappresentativa dell’architettura.
Venustas: 5. Qualità estetica dell’architettura capace di concretizzarsi in una immagine portatrice di significati «aggiunti», come la poetica personale dell’architetto e la sua ricerca figurativa.
Nei casi più estremi questa idea di bellezza si traduce in un modo di fare ed intendere l’architettura come marchio d’autore, espressione massima di una cultura del «branding» che reinterpreta attraverso un nuovo equilibrio la relazione architettura – mercato e democrazia, sbilanciandola forse verso il mercato.
Non c’è dubbio che la nostra epoca sia caratterizzata, anche in architettura, dallo strapotere dell’immagine. I cambiamenti tecnologici hanno determinato da un lato, un enorme incremento nella produzione delle immagini, dall’altro la possibilità che le stesse, attraverso la rete, possano essere diffuse contemporaneamente in qualsiasi parte del mondo.
Cellulari, Iphone, Blackberry sono diventati accessori indispensabili che continuamente ci trasmettono informazioni. Che nell’architettura ci sia stata sempre una componente rappresentativa è indubbio; ancora Vitruvio nel De Architectura associa questa componente al decor che impone che un tempio sia costruito rispettando la statio o […] la consuetudine o natura : la forma del tempio, così come la scelta della sua localizzazione deve «raccontare» il carattere delle divinità cui è dedicato.
Ma anche la capacità dell’opera di comunicare la posizione economica del committente, ravvisabile nella distributio, è ascrivibile alla necessità di trasmettere, attraverso il manufatto architettonico, dei significati associativi come ad esempio la sua funzione.
L’architettura si è spesso tradotta in simboli dal significato concordato o convenzionale. Una facciata classica simboleggia un edificio pubblico, che si tratti di una banca, di una biblioteca o di una scuola.
Anche la sostituzione del simbolo come icona non è una novità dei nostri giorni, è sufficiente pensare all’architettura parlante di Ledoux, al limite tra simbolo e icona e soprattutto alle provocazioni di Robert Venturi che, negli anni ’60, teorizza che non è l’architettura a dominare lo spazio bensì il segno, con la sua forma scultorea e i suoi effetti di luce.
Sulla scia di queste considerazioni Venturi arriva provocatoriamente a sostenere che, nel caso di un chiosco per la vendita di piatti a base di pollame, è lecito considerare l’anatra (duck) una legittima forma dell’architettura moderna dal momento che la costruzione di natura commerciale è diventata una scultura e la forma simbolica si è letteralmente impossessata della’architettura.
Non sembrerebbe dunque esserci alcuna novità in una possibile interpretazione della venustas come carattere dell’architettura inerente alla sua componente rappresentativa, se non fosse per il fatto che, oggi, questa modalità di intendere la venustas non sembra essere l’esito di una riflessione teorica tesa a «spostare» in avanti i confini dell’architettura costruita ma piuttosto la stanca adesione di uno «stile tardo», un periodo in cui non vi è alcun nuovo paradigma.
L’uso del computer può produrre uno spostamento dalla forma notazionale a quella digitale, ma questo in sé, non costituisce ancora un nuovo paradigma.
Leudox apre a Boulée, Venturi scandalizza ma tutto sommato consente alla ricerca architettonica di aprirsi alla realtà di una città che cambia e che impone all’architettura stessa di trovare nuovi significati. Ciò che invece inquieta oggi le coscienze di molti è il fatto che le forme degli edifici diventano spesso icone dei processi che li hanno generati, o nella migliore delle ipotesi marchi in grado di «reclamizzare» un prodotto: «l’architettura di quell’architetto»
. Zaha Hadid ha raggiunto la fama dopo aver concepito il suo linguaggio fibroso, la sua idea di design, il suo brand, che ha poi applicato a molte delle sue opere rendendo il lavoro sempre riconoscibile e facendo in modo che le architetture stesse fossero in sè una forma di pubblicità.
Pubblicità sfruttata anche dalle amministrazioni comunali che ostentano gli edifici come fossero capi firmati. Il brand dell’architetto è adattabile alle stazioni e ai musei ma anche al design delle scarpe o alla homepage del sito dello studio.
Non c’è dubbio che questa idea di bellezza, legata ad un’immagine chiaramente riconoscibile è oggi una realtà «globale» che investe grandi metropoli e piccoli centri, ognuno alla ricerca di una o più opere firmate che consentano di costruire una nuova immagine della città da rivendere attraverso la rete. Dagli Stati Uniti – «Andate a Roma, c’è il Maxxi». L’invito rivolto ai lettori del New York Times. Non solo Colosseo, il New York Times: «Visitate Roma, c’è il Maxxi». […]
Roma è il ventesimo dei «44 posti dove andare nel 2009», consigliati sul sito del New York Times. Ma nella classifica stilata dai lettori del giornale, la Città eterna balza al terzo posto, seconda solo a Washington e all’India. E fra i luoghi da visitare nella Capitale, il quotidiano di New York consiglia, oltre ai “soliti” Colosseo e Vaticano, il Museo Maxxi, un «sito futuristico», disegnato da Zaha Hadid.
Altrettanto indubbio è il fatto che spesso gli «ingredienti» moderni a cui si fa riferimento per valutare l’attuale significato di bellezza sono: la «quantità» che, vinta la sua battaglia sulla qualità appiattisce ogni valore in nome dell’indifferenziazione e omologazione; il «gusto», dal momento che scartata ogni velleitaria pretesa di trovare un modo per rendere oggettiva la bellezza, ci si trova di fronte ad un relativismo generalizzato che porta a definire ciò che bello da ciò che non lo è, in base a ciò che piace o non piace ai più; il «mercato» e la «moda» dal momento che, spesso, la legittimazione del bello passa, attraverso questi due parametri e la bellezza è tale solo in quanto lusso; ed infine la «massa» ovvero l’entità a cui tutto si rivolge che ha una forma indistinta e nella quale ogni personalismo è azzerato.
È vero anche però che con l’ingombrante termine di archistar si omologa un mondo di figure e di architetture molto diverse fra di loro, consentendo ad una certa critica architettonica di rifiutare in blocco uno dei maggiori fenomeni delle nostra epoca.
La relazione tra venustas e immagine è infatti certamente una delle questioni più rappresentative del dibattito architettonico contemporaneo se è vero che, tra i centosettanta paper presentati ad Eurau, neppure uno sfugge alla tentazione di far riferimento a questa possibile interpretazione di venustas, per aderenza o per contrasto.
La partita fondamentale della venustas oggi, nonostante tutto, sembra dunque giocarsi tra che sostiene che la deriva formalista, dalla «lezione di Las Vegas» ad oggi, ha piegato l’Architettura da un lato alle roboanti, quando non arroganti, performance delle archi-star e dall’altro al «grottesco» dei repertori linguistici del neoeclettismo popolare e chi invece sostiene che l’esigenza di costruire nella città opere che rispondano alle esigenze di bellezza e creatività, innovazione estetica e singolarità viene soddisfatta solo se il progetto di queste opere viene affidato alle archistar, che sono i soli soggetti che hanno la forza, e talvolta il consenso, per potere affermare con forza un concetto.
tratto dal numero 139