Ricordo di Rogers

ALESSANDRO CASTAGNARO
In occasione del centenario della nascita di Ernesto N. Rogers (1909-’69) numerosi sono stati i convegni, gli scritti, le manifestazioni organizzate in Italia e all’estero che hanno ulteriormente rivalutato sul piano storiografico la figura del grande maestro.

A partire dal 1934 si collocano i suoi primi significativi scritti sulla rivista Quadrante; nel 1939 Rogers si rifugiò in Svizzera a causa delle leggi razziali fasciste. Intanto lo studio BBPR, proprio con l’emanazione di tali leggi nel 1938, e ancor più durante il periodo di occupazione nazifascista, divenne uno dei punti di riferimento per la Resistenza milanese e il movimento Giustizia e Libertà.
Sono di questo periodo, tra novembre 1938 e marzo 1939, le lettere che Rogers scrive e che rappresentano il senso di un accorato smarrimento: Credevamo di essere i primitivi di una nuova era, catecumeni usciti dalla Terra. E forse dovremo invece aggiungere i nostri petali appassiti al mucchio delle cose finite.
L’epoca passa su di noi come un rullo compressore: siamo tutti schiacciati dagli eventi. Dovrà la nostra generazione non servire ad altro che quale sottostrato per edificare le venture? Così come fosse solo una di quelle che ci hanno preceduto. Questo compito può servire alla collettività, ma pesa ancor più terribilmente sulla coscienza di quegli spiriti che presumevano di essere già pronti per la vendemmia.
A causa del loro impegno politico-sociale Banfi e Belgiojoso furono deportati durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale nel campo di concentramento di Mauthausen-Gusen, dove Banfi perse la vita.
Dopo la guerra Rogers si distingue per la collaborazione alla rivista Domus, che diresse nel breve periodo ‘46-‘47: per il rapporto con il CIAM e, soprattutto, per l’importanza dei suoi editoriali redatti quale direttore di «Casabella» (1954-1964). Mantenendo sempre una stretta coerenza tra i suoi scritti e la pratica militante di architetto, fondamentale fu il suo contributo innovativo, negli anni ‘50-‘60, al problema della storia sia dal punto di vista teorico, sia come elemento basilare per la progettazione.
Trattano tale tema, in maniera embrionale, già i suoi primi articoli pubblicati sulla rivista «Quadrante» nel 1934 dal titolo Significato della decorazione nell’architettura i quali – anche se «ufficialmente» meno importanti di quelli del «gruppo 7» – risultano ben più essenziali, incisivi e coerenti nell’uso operativo e disciplinare della storia.
Nello stesso anno sulla medesima rivista pubblica La formazione dell’architetto dove, com’è stato osservato, emergono non dogmi da impartire, ma vie da mostrare e da proporre alla coscienza dei giovani. Non maestri di cui farsi epigoni, ma opere da cui attingere col filtro della propria intelligenza.
Non manuali da proporre, ma testi che siano occasioni di un confronto sui diversi modi di rispondere a questa basilare esigenza dell’uomo che è l’architettura.
La formazione, la didattica, la sua pedagogia filtrata dalla lezione di Dewey, rappresentano quegli assunti perché la scuola è innanzitutto vita e la vita che lui ha prescelto è quella della convivenza democratica: dove si convince e non si vince, dove l’interlocutore può avere ragione anche se pensa il contrario di quel che pensiamo noi.
Al centro della sua didattica è sempre presente la figura di Walter Gropius, dal quale, talvolta, non teme di prendere le distanze, come in relazione al ruolo della conoscenza della storia nella formazione dell’architetto e nella sua attività successiva.
Il fatto che la critica suggerita da Gropius sia limitata al pensiero presente condiziona i dati dell’esperienza che dovrebbe solcare tutta la sezione della storia nella nostra civiltà occidentale (e, in senso più completo, anche delle civiltà di diverso carattere – come l’orientale – seppure la cultura occidentale non ne dia sempre consapevole informazione).
Secondo Gropius, l’esclusione della conoscenza della storia, all’inizio della formazione dell’architetto, lo pone su basi più larghe e lo struttura più solidamente. Nel programma teorico-pratico per gli studenti d’architettura, egli afferma che «gli studi storici dovrebbero essere iniziati al terzo anno piuttosto che al primo per evitare intimidazioni e imitazioni».
E’ evidente qui il segno di un complesso verso la storia […] il vero malinteso di questa impostazione è che è data da persone come Gropius (e gli altri maestri), i quali conoscono la storia da cui non hanno avuto certo intimidazioni né suggerimenti all’imitazione, ma bensì un beneficio tonificante per le loro idee progressiste. Perché togliere ai giovani un elemento necessario alla loro formazione?
Dal punto di vista della formazione e della didattica Rogers si appella a Gropius con forti riferimenti. Le Corbusier in primis e Wright sono le vie maestre delle nuove forme, les vies des formes del nostro tempo: ma accanto ad essi – per evitare equivoci stilistici – aggiunge per contrappunto Palladio.
Il tema della storia è uno dei capisaldi del contributo critico di Rogers, come già detto, indubbiamente ispirato dal pensiero filosofico di Dewey sulla legge di «continuità in quanto postulato fondamentale di una teoria naturalistica della logica».
Infatti, secondo il filosofo americano, ogni valutazione è possibile in base alla continuità delle attività umane personali ed associate, la portata delle valutazioni presenti non può essere validamente stabilita fino a che esse non sono inserite e viste nella prospettiva dei passati eventi di valutazione con i quali sono continue. Senza di ciò, la prospettiva futura, cioè le conseguenze delle presenti e nuove valutazioni, è indefinita.
Il fondamentale apporto di Rogers si ha proprio negli anni della direzione di «Casabella-continuità», quando – con il numero 199 del dicembre 1953-gennaio1954, il primo della nuova serie – viene aggiunto al titolo la parola continuità. Questo termine ha assunto chiaramente molteplici significati, primo fra tutti quello del legame con due figure essenziali della rivista e della cultura architettonica più avanzata, Giuseppe Pagano e Edoardo Persico, ai quali i riferimenti sono continui.
Ebbene, gli architetti italiani moderni, pur avendo tra loro reciproca dimestichezza per anni e anni, non diventarono veramente amici che quando l’uno poté svelare all’altro l’acquistata conoscenza del proprio antifascismo; così fu anche fra Pagano e me. Mi sia dunque concesso di rievocare l’amico con sincerità spregiudicata come piaceva a lui e di tracciarne il profilo forse incompleto (perché ignoro molti dati), ma, spero, non troppo lontano dal reale.
Altro significato del termine è continuità come coscienza storica; la vera essenza della tradizione, questa è la coscienza storica, nella precisa accettazione di una Tendenza che è nella eterna varietà dello spirito, avversa ad ogni formalismo passato o presente. Il riferimento è esplicito a Pagano. Il valore che il nostro conferisce alla tradizione è dimostrato chiaramente dai contenuti della rivista, oltre che dai suoi editoriali.
Proprio nel primo suo numero viene trattato, difatti, un esempio di architettura equatoriale: il Camerun. L’architettura della capanna, l’architettura primigenia, primordiale: Le capanne del Camerun. E ci sono architetti europei, che sono lì a lavorare in questo luogo e a capire come sono costruite queste capanne.
Ancora nello stesso numero vi è un articolo su Jean Prouvé, Un’officina per la prefabbricazione, cioè il massimo della più avanzata tecnologia che ci potesse essere al tempo.
«Casabella-continuità» viene inaugurata, dunque, in maniera anticonformista e rivoluzionaria con questo numero che, a parte i primi due articoli citati e l’editoriale di Rogers – intitolato La Casabella del passato e Gropius – ha da un lato come sostegno le capanne del Camerun e dall’altro la tecnologia di Jean Prouvé.
Tra i due estremi, tra storia e utopia, ci sono la figura di Le Corbusier, dell’uomo col braccio alzato, del Modulor – ripreso dall’Unité d’Habitation di Marsiglia –, un articolo sulla ricostruzione in Francia e due architetture italiane: la Casa per Impiegati della Borsalino ad Alessandria di Ignazio Gardella e le Case a Torre a Viale Etiopia a Roma di Mario Ridolfi – ossia opere di due autori che di lì a poco saranno riconosciuti dalla critica tra i migliori architetti italiani di quella generazione.
Ma questa impostazione rimane costante durante tutta la direzione di Rogers della rivista infatti. Se analizziamo il numero 200, del febbraio-marzo 1954, vi troviamo i trulli di Alberobello e, alla fine, il Pan System, che è un sistema di avanzata prefabbricazione inglese per le scuole. In mezzo c’è il villaggio La Martella di Matera, altro significativo esempio di architettura neorealista realizzato da Ludovico Quaroni.
Ulteriore significato del termine continuità che si associa a un «modo di sentire» è la consapevolezza di avere accettato modestamente un’eredità, assumendo la responsabilità di amministrarla con prudenza e serenità.
Continuità significa, nel nostro contesto, tanto la necessità di assimilare il passato – che a quell’epoca già includeva le opere esemplari degli anni ’20 – come l’impegno ad agire da protagonisti nel presente superando ogni dogmatismo ereditato.
Si tratta, in realtà, di un’attitudine simile a quella della rivista diretta da Pagano (dal 1933 alla sua chiusura forzata del 1943) e alla posizione di Edoardo Persico, redattore e condirettore dal 1935 alla sua morte, l’anno seguente.
Già da allora era viva un’idea di continuità associata all’intolleranza per il conformismo della passività che si identificava con un’idea di libertà creativa mai sentita come arbitraria e garanzia di questo, per Rogers era l’utilizzo del «metodo moderno».
Prendendo a caso un altro numero, il 202, basta leggere il titolo dell’editoriale, La responsabilità verso la tradizione, per calarci nella realtà e nell’attualità del nostro autore. Nel 204, Le preesistenze ambientali e temi pratici contemporanei è un testo che tratta in modo inedito il binomio che lo intitola alla luce dell’architettura contemporanea.
Rogers affronta il problema urbano dal punto di vista delle tradizioni autoctone, rielaborando temi e idee già affrontate da Pagano prima e durante la guerra. Chi si appella, oggi, alla cultura nazionale – quando non sia un nazionalista reazionario o un demagogo, sollecitato dai richiami del folklore o, comunque, dagli stili scolastici – intende che l’architettura debba radicarsi negli strati profondi della tradizione per succhiare l’alimento e qualificarsi; è una necessaria integrazione della realtà contemporanea, complessa e varia, con l’immenso patrimonio dell’esperienza ereditata.
Ma soprattutto, nel numero 206, c’è un dibattito sulla tradizione in architettura scaturito da un episodio accaduto nella Facoltà di Architettura di Milano all’inizio del ’55. Ad una seduta di laurea alcuni giovani presentano architetture con le colonne. Tale progetto provoca nel numero 204 la reazione di Giancarlo De Carlo sui Problemi concreti per i giovani delle colonne. Fuori dalla rivista e all’interno della Facoltà nasce un dibattito – riportato poi nella rivista – per cui si decide di organizzare una giornata di discussione presieduta da Franco Albini.
Che cosa aveva scritto De Carlo? Aveva detto che in realtà questi giovani fanno le colonne per assumere una posizione di violenta polemica, una rivolta contro un razionalismo orecchiato e dogmatico, un razionalismo che addirittura nasconde un nascente nuovo eclettismo. Quindi De Carlo non difende i giovani, ma cerca di tirar fuori da essi il senso delle loro posizioni e dà origine ad un conflitto all’interno di «Casabella».
Va tenuto conto che una delle persone vicine ai «giovani delle colonne» è Guido Canella, che poi entrerà nella redazione e porterà avanti, insieme ad altri, una diversa linea di pensiero . Un altro tema molto importante, che viene trattato nei primi numeri della nuova direzione fino al 215, è il tema dei musei, con conseguente rapporto fra architettura e museo. Già nel 202 ci sono articoli di Argan, Architettura del museo, sul PAC di Gardella e sui Problemi di museografia.
Samonà scrive un contributo sulla museografia presentando il Museo al Castello Sforzesco dei BBPR. Albini presenta il Museo del Tesoro di San Lorenzo. Gardella, Michelucci e Scarpa insieme collaborano per alcune sale della Galleria degli Uffizi. Questo tema rientra perfettamente nel filone culturale di Rogers e in quello che possiamo definire il «laboratorio Casabella», nel quale si tratta ancora di Carlo Scarpa a Palazzo Abatellis e al Museo di Castelvecchio, del Castello Sforzesco dei BBPR, del Tesoro di San Lorenzo a Palazzo Bianco di Albini.
Per comprendere la poetica di Rogers espressa sulla rivista durante la sua direzione non si può trascurare. l’editoriale del numero 215, nel marzo-aprile 1957: Continuità o crisi?
Il termine crisi non è una novità per il nostro, essendo infatti già utilizzato nel primo editoriale Continuità e spesso ricorrente. Va rilevato che all’atto della pubblicazione del numero 215, De Carlo aveva abbandonato da pochi mesi la co-redazione della rivista, svolta con Gregotti e Zanuso, e questo «strappo» provoca conseguenze rilevanti.
Gregotti con l’uscita di De Carlo diventerà il redattore capo – ruolo molto importante nella costruzione della rivista – mentre nella redazione entrano a far parte personaggi di grande rilievo come Argan, Ricucci, Nervi, Paci, Quaroni, Samonà, Sacchi e Zanuso. La vecchia struttura è completamente rivoluzionata.
Continuità o crisi? Dice Rogers: Continuità indica mutazione nell’ordine di una tradizione. Crisi invece è rottura, rivoluzione. Momento di discontinuità dovuta a fattori nuovi. Il Movimento Moderno ormai è uno stile che non ha più metodo, si affacciano il Liberty e il Neoliberty che entrano all’interno del dibattito. Tra le riflessioni più significative sul binomio continuità-crisi è proprio quella di Rogers espressa nell’articolo citato.
Egli infatti scrive: «Considerando la storia come processo, si potrebbe dire che è sempre continuità o sempre crisi a seconda che si vogliano accentuare le permanenze piuttosto che le emergenze […]. Il concetto di continuità implica quello di mutazione nell’ordine di una tradizione. Crisi è la rottura-rivoluzione, cioè il momento di discontinuità dovuto all’influenza di fattori nuovi non reperibili nei momenti precedenti se non come contrari a quelli che scaturiscono, per opposizione, dall’impellente esigenza di novità sostanziali».
Indubbiamente lo scritto con questo titolo è tra i più roblematici concepiti da Rogers. Infatti, quando egli parla specificatamente della crisi, si esprime in questi termini: a mio parere questa crisi non c’è, perché se si considerano le opere migliori degli artisti più sensibili e si pone attenzione alle loro critiche, le più valide e le più profonde dipendono, più o meno consapevolmente, dalle istanze del Movimento Moderno stesso e pretendono, per essere giudicate, che si usi un criterio simile a quello che è stato adoperato finora.
Relativamente a questo editoriale rimandiamo alla seguente osservazione: Se resta vero che all’insegna della continuità Rogers fu tra i primi a teorizzare la necessità per la giovane architettura di guardare alla storia, dando inizio al dibattito sull’uso della stessa ai fini progettuali è altresì vero che quell’interrogativo contenuto nel titolo del saggio esaminato, non ebbe una convincente risposta. Per cui, paradossalmente, l’alternativa si risolse in una coesistenza dei due termini che conteneva lasciando la questione sostanzialmente aperta.
Nell’ottobre del 1959 Rogers intitola il suo editoriale I CIAM al museo, scaturito dalla chiusura del CIAM e da una discussione polemica che vede coinvolti gli italiani. Nell’ultima edizione del congresso gli italiani presenti, con i propri progetti, sono quattro: lo stesso Rogers, che presenta la Torre Velasca, polemicamente contro gli attacchi da parte degli inglesi; Giancarlo De Carlo, che porta le Residenze a Matera, da poco terminate, un complesso architettonico particolarmente difficile; Ignazio Gardella con la Mensa Olivetti e, infine, Vico Magistretti con la Casa Arosio ad Arenano.
Nonostante le quattro opere presentate sono – come dice e sottolinea chiaramente Rogers nel suo editoriale – a titolo personale, i quattro italiani vengono accomunati, con il loro consenso e «ritenuti dei traditori veri e propri» , alla volontà di «uccidere» il Movimento Moderno. Quel dibattito così ferreo, così interessante, in Italia viene negato, tanto da portare anche alla chiusura dei CIAM.
Quindi finisce quel lungo periodo, quel noioso periodo dei CIAM che Rogers ricorda in questo suo editoriale. I CIAM oramai vanno al museo, i CIAM non servono più a niente, i CIAM non ci sono più […]. Anche se dichiara che i CIAM hanno rappresentato il momento di maggiore impegno e solidarietà all’architettura moderna.
Altro periodo significativo è segnato dalla polemica scaturita a seguito dell’articolo di Reyner Banham del 1959 Neoliberty:the italian retreat from modern architecture, pubblicato sulla rivista «Architectural Review» da lui diretta, nel quale critica aspramente certe manifestazioni dell’architettura italiana di quegli anni e inoltre arriva a sostenere che la rivoluzione nella casa cominciò con le cucine elettriche, gli aspirapolvere, il telefono, il grammofono e tutti quegli altri ausili meccanici che favoriscono il vivere bene e che tuttora invadono le pareti domestiche ed hanno definitivamente mutato la natura stessa della vita della casa e il significato dell’architettura delle abitazioni.
Rogers risponde con un un suo scritto dal significativo titolo L’evoluzione dell’architettura. Risposta al custode dei frigidaire pubblicato sulla sua rivista. Dalla polemica tra i due emergono posizioni radicalmente diverse. Per Banham, la degenerazione stilistica subita dall’architettura moderna intorno al 1930 non giustificava la ricerca nel passato di soluzioni a problemi già risolti.
Banham si oppone esplicitamente al recupero dell’ Art Nouveau fatto da certi architetti italiani sostenuti da Rogers sulla sua rivista. E’ convinto che il recupero del passato nell’ambito delle arti può essere giustificato solo se si ripete una situazione analoga a quella del tempo che si pretende di far rivivere: ma, a suo giudizio, questo non accade mai.
Nuovi fattori culturali deformano le condizioni alla base del fenomeno originale: era successo così nel Rinascimento, con la forte influenza del cristianesimo; e nel Neoclassicismo, dove la referenza al mondo classico conviveva perfettamente con l’industrializzazione.
Rogers invece sostiene l’importanza della conoscenza del passato e fu tra i primi a teorizzare la necessità per la giovane architettura di guardare alla storia dando inizio al dibattito sull’uso della stessa ai fini progettuali. Con il suo articolo, oltre a dare una vera e propria lezione di storia dell’architettura. egli tendeva a sostenere i suoi allievi impegnati a mettere in pratica quanto la rivista teorizzava.
Concordiamo con un giudizio recentemente espresso: Come che fosse la polemica, personalmente ritengo che […] il fenomeno del Neoliberty costituì – insieme con Casabella-continuità, che resta la maggiore rivista d’architettura dal dopoguerra ad oggi – dalla seconda metà del secolo scorso il fatto più importante, almeno sul piano dell’evoluzione del gusto, sia nel campo dell’architettura che in quello del design.
Sono gli anni, fino al numero 294-295 del dicembre-gennaio 1965, che è l’ultimo della «Casabella» di Rogers, in cui è in atto una mutazione molto importante. L’uscita è dedicata all’architettura americana e l’editoriale presenta ancora una volta un titolo interrogativo: Discontinuità o continuità?
Il direttore pone degli interrogativi sul futuro della rivista e, con essa, anche su un momento di intenso e proficuo dibattito teorico e architettonico che ha almeno in piccola parte influito sullo sviluppo del paese. Egli si chiede: Il gruppo che succederà, che è stato chiamato, avrà un programma simile? E risponde: Se sarà un programma simile ci sarà continuità, se no ci sarà una discontinuità. Per poi tendere a rimarcare la fine di un’era.
Come è stato notato da Ciucci: è come un nuovo inizio in cui Casabella non giocherà più quel ruolo che aveva giocato negli anni precedenti, non sarà più un centro così forte del dibattito, non avrà più quest’apertura conflittuale ma molto positiva.
Però i germi sono lanciati, il rinnovamento è lanciato, una nuova discussione è aperta, i temi nuovi sono quelli di una nuova maniera di vedere il rapporto con le preesistenze ambientali ma anche un nuovo rapporto con ciò che esiste o si sta trasformando sotto gli occhi nel territorio delle città.
Molti […] che hanno collaborato alla rivista e tra questi Tafuri, che è l’ultimo arrivato ma collabora anche lui inizialmente con Casabella, si ritroveranno qui a Venezia, anzi l’articolo di Tafuri, Per una critica dell’ideologia architettonica, nasce proprio nell’ambito veneziano, nei rapporti veneziani nuovi che si sono instaurati.
Quindi in qualche maniera si ha conto di questa complessità, anche qui, nasce proprio a partire da quella Casabella, da quei dibattiti, fino alla conclusione del ’65 che però è anche una apertura, perché le persone che hanno lavorato dentro la rivista «Casabella-continuità» hanno continuato poi la loro azione.
Rogers ha rappresentato con i suoi interrogativi, con la sua critica militante, con le sue stesse architetture una parte critica e operativa intermedia fra il Movimento Moderno e la presente condizione post-moderna, fornendo un contributo «atemporale» un pensiero di grande attualità ed essenzialità sia per la critica, sia per la storia che per la progettazione.
Egli rappresenta in sostanza una presenza ancora viva, che va ricordata nella stessa maniera in cui aveva precedentemente fatto con van de Velde: Credo che nessuna commemorazione sarebbe stata più gradita a Henry van de Velde quanto quella di farlo sentire come una presenza: non come qualcosa che si è chiuso, ma come qualcosa che continua e si perpetua trasformandosi in noi. Come ciò che accettiamo e rifiutiamo per favorire le mutazioni della nostra vita e produrre, con le energie acquisite, nuovo lavoro.
tratto dal numero 137