Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanera

PAOLA GREGORY
La drammatica iconoclastia di Libeskind, “l’architettura della morte improvvisa” di Coop Himmelblau, la “visione rovesciata” di Eisenman, l’engagement dégagé di tante architetture di Gehry, ma anche la perturbante semplicità di Zumthor, il muto silenzio del Vietnam Veterans Memorial di Maya Lin, la “estetica del miracolo” di Nouvel, il “nulla” o “quasi nulla” del Blur Building di Diller & Scofidio: diverse sono le espressioni che sembrano richiamare, in tempi recenti, una dimensione che potremmo definire “sublime” in architettura, quel nescio quid che fin dai tempi antichi eccedeva la validità normativa dei canoni di gusto, rifiutando di lasciarsi cristallizzare nella chiusura della forma in sé stessa e costringersi nel conformismo di regole e costrutti mentali.

Quando la grandezza o l’assenza di limiti minaccia di mandare in frantumi la comprensione della forma; quando l’idea del bello si vede brutalmente esclusa da particolari dissonanze, sproporzioni, deformità, che suscitano tuttavia un’impressione struggente; quando i punti di riferimento stabiliti per dar senso e ordine al mondo sensibile ci vengono a mancare, appare difficile comprendere ciò che stupendoci ci attrae, perché è proprio del sublime colpire e destituire l’immaginazione e l’intelligenza con l’acutezza dolorosa di un piacere fugace, inimmaginabile e impensabile.
Effetto di un’esperienza che investe il soggetto, folgorandolo e sospendendolo nelle sue acquisizioni abituali, e allo stesso tempo veicolo privilegiato di tale esperienza, il sublime mette in moto uno scambio continuo fra il soggetto e l’oggetto, l’io e l’altro, il dentro e il fuori, il finito e l’infinito, il sensibile e l’intellegibile.
È l’evento che accade e il suo accadimento – sottolinea Baldine Saint Girons – richiede la metamorfosi o la “sublimazione” almeno provvisoria di tutto ciò con cui entra in contatto.
Si tratta dunque di una “causalità circolare” in cui i termini piuttosto che definirsi in una reciproca opposizione dialettica si aprono a una dipendenza differenziata, a una dinamica interrelazionale che si sviluppa – è
essenziale ricordarlo – “in una lotta ingaggiata contro la paura e in una meditazione sulle origine e sulle ragioni di uno smarrimento”.
Non a caso, dunque, il sublime sorge sempre in periodi di crisi: così fu tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. quando il passaggio dal politeismo al monoteismo e dal regime repubblicano all’Impero costrinsero a esercitare la libertà nella solitudine; così fu alla fine del XVII e nel XVIII secolo, quando il crollo dell’ordine geocentrico e antropocentrico con la rivoluzione copernicana e galileiana propagò l’angoscia dell’infinito e la trasposizione nel mondo fisico di valori fino ad allora attribuiti al mondo soprannaturale; così fu ancora nella seconda metà del XX secolo quando gli orrori della guerra con le tragedie dell’Olocausto e della bomba atomica indussero a un ripensamento radicale delle verità e convinzioni che avevano nutrito l’esperienza del moderno.
Perché il sublime possa emergere occorre infatti che qualcosa minacci le certezze del nostro io: destabilizzando il mondo circostante e spezzando la dimensione quotidiana, ci dissocia dal punto di vista abituale e, rendendoci sensibili a una causalità superiore, spinge l’io a interrogarsi. Ciò produce un’esultanza la cui energia dipende dall’intensità del nostro turbamento: lo stupore fa vacillare il soggetto innescando la molla più efficace delle ricerca e dell’azione. Di qui si genera quel movimento che porta l’io a elevarsi, superarsi, “sublimizzarsi”.
Come si evince dall’etimologia originaria del latino sublimis, da sub-limis o limus (obliquo) “che porta trasversalmente verso l’alto”, o in alcune varianti da non trascurare da sub-limen (limite, soglia), propriamente ciò “che giunge fin sotto la soglia più alta”, ma anche da sub-limo (fango) a indicare qualcosa di profondo, nascosto, rimosso dalla banalità della superficie, il sublime sin dalle origini longiniane, presenta nella polarità irrisolta fra hýpsos (altezza) e báthos (profondità) il suo aspetto dinamico, piuttosto che la posizione acquisita: situandosi sull’asse di una verticalità in cui il punto più alto e quello più basso si congiungono, suggerisce il movimento (sempre obliquo) che consente di uscire dal sé, premessa indispensabile all’incrocio di mondi diversi, in cui è possibile pensare l’abisso insormontabile che separa il sensibile dal soprasensibile, lasciando apparire, nel frammento visibile che si apre, l’inappropriabile alla nostra portata.
Dal sublime longiniano al perturbante della contemporaneità
L’“inafferrabile che ci afferra” fu la felice locuzione usata dallo Pseudo-Longino per rappresentare l’esperienza folgorante del sublime: distaccandosi dalla tradizione retorica greco-romana, il suo Perì hýpsous definisce sublime un discorso non tanto perché possegga la qualità stilistica della sublimità (l’ardita sobrietà) ma perché mostra, attraverso la sua intensità e subitaneità, il sublime in statu nascendi.
Sono l’immaginazione visionaria (la phantasía) del poeta tragico (o dell’oratore) – ovvero la sua audacia e l’ardimento del linguaggio accanto alla magnanimità, “eco della grandezza d’animo” (IX, 2-3) – e, insieme, l’esperienza del pathós proprio del testimone – cioè l’urto, lo shock, la “presa” che si genera ad opera della parola – a divenire cruciali. “Davanti a ciò che è veramente sublime – afferma Longino (VII, 2) – la nostra anima si solleva e, presa da un’orgogliosa esaltazione, si riempie di una gioia superba, come se essa stessa avesse generato ciò che ha ascoltato”.
In qualità di testimone, l’io oltrepassa la propria posizione, si appropria dell’inappropriabile e si identifica con la fonte; ma di nuovo, questa appropriazione presuppone un’espropriazione, una destituzione dell’io che partecipa, con un processo di autosuperamento, alla rifondazione di nuovi possibili modelli.
Ecco perché – sebbene resti fondamentale l’interesse stilistico (il sublime, dichiara Longino “è l’apice e la dignità dell’arte del dire”, I, 3), il suo hýpsos anticipa una transizione dal semplice genus dicendi (o scribendi) verso un genus vivendi, ovvero verso una caratterizzazione anche psicologica del sublime.
È questa a contrassegnare l’interpretazione di Boileau che, con la sua traduzione francese del trattato longiniano, sposta l’accento dal produttore al fruitore, generando nel’700 quell’idea del sublime come teoria del sentimento e dell’emozione: un’estetica del pathein, quale “psicologia delle passioni”, che soprattutto Edmund Burke affermerà nel suo più elevato grado di destabilizzazione, essendo l’essere umano non più ‘semplicemente’ trasportato in un altrove sublime, ma ghermito e trascinato dalle sue passioni, “ferito e inciso nel vivo dalla presa di coscienza del terribile”.
Rispetto a Longino, Burke pone quindi l’accento piuttosto che sulla “grandezza della concezione” – ciò che è stato definito come sublime ideale – sulla “grandiloquenza del pathos”, da cui quel sublime patetico che rende possibile la trasmutazione e l’avvicinamento estetico al dolore e alla morte: “più che a un colpo di fulmine, l’esperienza del sublime somiglia – come sottolinea Saint Girons – a una catastrofe che sospende l’identità del soggetto e del mondo”.
“La passione causata da ciò che è grande in natura – dichiara infatti Burke nella parte seconda del suo Enquiry – è lo stupore [ovvero] quello stato d’animo in cui, ogni moto sospeso, regna un certo grado di orrore. […] Di qui nasce il grande potere del sublime, che, lungi dall’essere prodotto dei nostri ragionamenti, li previene e ci spinge innanzi con una forza irresistibile”.
Non più interessato alla forza espressiva di un oratore, ma al “sublime naturale” – che affonda le sue origini, ricordiamolo, nella rivoluzione scientifica seicentesca e nei viaggi che consentono l’esperienza di una natura illimitata e informe che “eccita la mente” – Burke, coagulando spunti della riflessione precedente, introduce formalmente la distinzione fra il bello (ormai privato del suo tradizionale rapporto al buono e al vero) e il sublime, collegando quest’ultimo al terrore, la “passione per eccellenza” che espropriandoci dei nostri riferimenti ci espone a una radicale insicurezza.
È dunque l’ignoranza e non la luce della ragione a renderci ammirati dello spettacolo del mondo: con il sublime si sottolinea l’elemento di sopraffazione e depotenziamento dell’io, la minaccia alla autoconservazione.
Se il bello, stabilito dall’estetica classica attraverso i canoni della proporzione e dell’armonia, seduce e si lega all’amore e al piacere (pleasure) rendendo gli uomini propensi alla socialità, il sublime provoca al contrario uno shock, un piacere misto a dolore, ciò che Burke definisce “diletto” (delight), un “piacere relativo”, un “dilettoso orrore” (delightful horror), che mette l’uomo dinanzi e “in solitudine – come sottolinea Remo Bodei – al pensiero tormentoso dell’irrecuperabilità della vita che scorre via e della propria ineluttabile morte”,“regina di tutti i terrori”.
Sublime è dunque “Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ovvero tutto ciò che è terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore [ossia] ciò che produce la più forte emozione che l’animo può sentire”, come la potenza “terribile maestà” e la vastità, insieme a tutto ciò che – in forma derivata e allegorica – indica il prodotto irrappresentabile dell’assenza e della privazione: l’oscurità, in quanto privazione della luce, sacrificio del mondo chiaro delle forme e della visione sensibile; il silenzio, in quanto privazione del suono; il vuoto, in quanto privazione di materia e di oggetti; la solitudine, in quanto privazione di socialità; l’infinità in quanto privazione di limiti e soprattutto la morte, in quanto privazione di tutto.
Se dunque il terrore è il “principio dominante”, perché evoca una minaccia alla conservazione del soggetto, il diletto può nascere solo a patto di mantenere una distanza di sicurezza: sublime è perciò il “brivido di tale annientamento”, “la paura del nulla appena tenuta a freno, l’agghiacciante dissimmetria – scrive Bodei – tra i poteri dell’individuo e quelli del mondo”.
Burke dunque, a differenza del Longino, orienta il sublime non al potenziamento dell’io, bensì verso il momento della sua perdita e, in questo trasporto, la stessa arte “sarà ciò che, posta fra gli estremi del bello e del sublime, ‘gioca’ il depotenziamento dell’io fino a quel limite di sopravvivenza della soggettività che è il limite stesso della sua possibilità di esistenza”.
Alla fine del secolo, la Critica del Giudizio di Immanuel Kant sarà la risposta più rigorosa a questo esito del sublime: la sua esperienza diviene infatti quella di “un momentaneo impedimento, seguito da una più forte effusione”.
I due poli di oscillazione della riflessione sul sublime diventano, perciò, tempi di un unico movimento in cui alla vertigine dell’io fa seguito una sua riaffermazione: il “piacere negativo” (vicino al “piacere relativo” di Burke) che l’animo avverte davanti all’infinito è, da un lato, il senso di inadeguatezza dell’immaginazione a rappresentarlo, dall’altro è “la voce della ragione” che sola può comprenderlo.
Sublime è allora questa tensione: non un oggetto ma uno “stato d’animo”, essendo la sublimità non nella natura, ma nell’animo nostro. Sia il bello che il sublime sono infatti per Kant espressioni del “giudizio riflettente” che implica, davanti a un dato sensibile, un’affettività e un coinvolgimento dell’interiorità del soggetto che “sente” se stesso:
ma dove il bello, connesso a una contemplazione statica, indica l’accordo fra le facoltà dell’immaginazione e quelle dell’intelletto, il sublime – sia “matematico” (legato all’estensione infinita della natura) che “dinamico” (suscitato dalla sua potenza virtualmente distruttiva) – segna al contrario un conflitto insanabile fra immaginazione e ragione, inducendo quel movimento dell’animo che, trascesa “ogni misura dei sensi” e dunque ogni limite dell’immaginazione, tende verso la ragione e le sue idee.
Ciò che interessa Kant è dunque la scoperta, attraverso il sublime, della nostra natura soprasensibile: “Il vero sublime – scrive nella CdG – non può essere contenuto in alcuna forma sensibile, ma riguarda solo le idee della ragione [che abbiamo in noi, come le idee di Dio o della libertà] le quali, sebbene nessuna esibizione possa essere loro adeguata […] sono svegliate ed evocate nell’animo nostro.”
Ridestando la nostra interiorità e mettendola in contatto con il soprasensibile, il sublime kantiano ricongiunge il “sentimento morale” al giudizio estetico (disgiunti invece nel gradevole e nel bello) per cui “il cielo stellato sopra di noi” diviene simbolo della “legge morale che è in noi”.
Per questo Kant, sottolinea Giuseppe Sertoli, torna, al di là di Burke, alle “nobili passioni” di Longino, “offrendo un recupero dell’umanesimo primosettecentesco dopo e contro quello che vorremmo chiamare l’antiumanesimo di Burke e di tante forme della cultura e dell’arte del secondo settecento” e dei secoli successivi.
Tuttavia una recente rilettura, soprattutto francese, della terza Critica kantiana ad opera di Derrida, di Lacoue-Labarthe, di Nancy e di Lyotard ha inteso, al contrario, sottolineare nell’estetica del sublime la forza dirompente della problematizzazione del luogo canonico del pensiero: “il luogo cioè della rappresentazione e di una messa in crisi, insieme, della soggettività, attraverso il disastro dell’immaginazione, il disastro cioè della “messa in forma”.
L’informale dell’avanguardia pittorica non sarebbe per Lyotard che l’esplicitazione artistica di ciò che egli chiama la presentazione non dell’impresentabile – che in alcun modo può essere presentato – ma del fatto che ci sia dell’impresentabile”. Il sublime kantiano, scrive infatti Jean-François Lyotard, “non accoglie l’oggetto secondo la sua forma, secondo la sua finalità interna soggettiva [poiché] il suo ambito autentico consiste in una finalità propria dello spirito, che è indifferente a quello delle forme.
[…] È in seguito alla sua assenza di forma, o meglio è in quanto considerato senza le sue forme (posto che ne possegga) che l’oggetto […] dà occasione alla ragione pratica di rafforzare il suo ascendente sul soggetto, di estendere il suo potere”. La ragione, infatti, “la facoltà delle Idee pure, sembra avere tutto l’interesse alla disorganicità del dato e allo scacco dell’intelletto e dell’immaginazione.
Nella lacuna che si apre, essa può in effetti rendere quasi intuibile al soggetto l’Idea della sua vera destinazione, che è morale. Una “estetica del peggio” – la definisce Lyotard – che punta non sul brutto ma sull’amorfo, poiché è nell’eccedenza di ogni messa in forma – in quella che definisce la logica del sacrificio – che “la legge della ragione pratica soverchia con tutto il suo peso quella dell’immaginazione produttiva”.
In questo consiste la superiorità del sublime sul bello: portando l’accento sulle basi emotive dei nostri conflitti e sul valore dei nostri limiti, che continuamente si riproducono, il sublime rende evidente lo scarto e il contenzioso incomponibile fra ragione e immaginazione che non ha soluzione, ma che – scrive Lyotard nelle sue Leçons sur l’Analytique du sublime – «può essere sentito come tale, come contenzioso. Questo è il sentimento sublime.
E questo sentimento fa della “grandezza bruta della natura” un segno della ragione, nello stesso tempo in cui resta un fenomeno dell’esperienza». Con il suo dissidio, il suo aspetto perturbante e il suo richiamo all’amorfo, “il sublime – sottolinea Bodei – può tuttavia aiutarci a capire aspetti del nostro conflittuale e ambiguo rapporto con il mondo [perché], rifiutando la perfezione delle forme, tende a rendere visibile l’invisibile e presente l’impossibile, ciò che si sottrae alla rappresentazione, quel che eccede la sensibilità, ma che non può mostrarsi se non in forme sensibili”.
Così Lyotard – come gli altri intellettuali francesi menzionati – tende a riallineare Kant a una tradizione del sublime che lo pensa come “eccesso”, a differenza dell’estetica di Hegel che lo pensa come difetto del bello. Ed è proprio questa dimensione a costituire la caratteristica più significativa del sublime: «Il sublime non solo si situa sul versante dell’eccesso, è l’eccesso e “ovunque rifugge dalla mediocrità”, come aveva già sottolineato con forza Burke».
Relativamente al mondo dell’architettura, perciò, il costrutto appare sempre orientarsi verso un carattere extra-dimensionale, attraverso un processo di metaforizzazione in atto che rende l’architettura scena di altri contenuti.
Una ricerca del più che tende ad affrancare l’architettura dalle “luminose ragioni” dell’armonia, dai rigori tecnici, statici e funzionali: ora basandosi su una linea di pensiero risalente a Burke e agli ambigui rapporti del sublime con il pittoresco e con “l’estetica del brutto”, che, attraverso gli sviluppi del Romanticismo e della teoria dell’Einfühlung, giungono all’espressionismo e all’organicismo, sino all’informale, al deforme o all’informe attuale;
ora, al contrario, orientandosi verso l’interpretazione kantiana di un’assenza di forma – dall’astrazione del suprematismo all’espressionismo astratto, sino al minimalismo e alla “estetica della sparizione” – per operare, attraverso l’eliminazione di ogni repertorio di natura esplicitamente iconografico, verso una estrema concisione espressiva, verso una riduzione costruttiva tesa a raggiungere, nella ricerca di una “sensazione pura” scaturita dalla “semplice presentazione”, uno stato di sospensione che, nella “sublimazione” della materia, sorprende la nostra immaginazione sul limite della sua dissoluzione.
Si tratta in ogni caso di esprimere l’inesprimibile, la “crisi”, se non lo scacco, della ragione davanti all’irrappresentabile, facendo affiorare – senza mai poterlo afferrare – un substrato che non si lascia “mettere in forma”: quell’elemento latente, quel fondo oscuro e ineffabile presente in alcune “figure” del sublime moderno – come nel “dionisiaco” di Nietzsche, nel “perturbante” di Freud, nello “shock metropolitano” di Benjamin, nel “negativo” di Adorno – a indicare non più la ricerca di una conciliazione degli opposti, bensì (nel superamento della logica dell’identità aristotelica e della dialettica hegeliana) l’esperienza di una alterità, di una negatività non addomesticata, di un altrove, rimosso ed escluso, che riappare improvviso nell’esteriorità – come frattura-divisione o raddoppio-pluralità – annidata ormai nella medesima soggettività.
Impossibile sarebbe ripercorrere la portata di tali pensieri che hanno sottolineato alcuni aspetti della modernità particolarmente vicini alla nostra attuale sensibilità.
Basti qui, solo, ricordare che i luoghi del sublime subiscono una delocalizzazione e un mutamento spazio-temporale: il senso di inquietudine, spaesamento, alienazione e angoscia dell’uomo moderno, sempre più smarrito in un’eccitazione cosmica di cui gli sfuggono le cause, non si lega più agli spazi naturali, ma alla realtà metamorfica e mondana delle nuove metropoli, caratterizzate dalle folle brulicanti e dalle inedite proporzioni degli spazi urbani (Benjamin), dove in luogo dell’aspirazione all’infinito (in una accezione qui prevalente di assoluto ed eterno) subentra – come scriveva Baudelaire – l’esigenza di “estrarre l’eterno dall’effimero”, liberando la forza inaudita del presente, la sua profonda poesia.
Tratto del sublime diviene allora la capacità di “innalzare al livello di un’apparizione iconica ciò che nel cuore stesso della notte rimane silenzioso e segreto: è il conflitto dell’essere umano espropriato da se stesso, lacerato fra due esperienze contraddittorie e animato da un desiderio di avventura appassionato e tale da devastare il desiderio di salvezza”.
Traslato nell’architettura, si tratta di un sentimento che, sorto dall’insicurezza di fondo della nuova classe borghese che “ancora non si sentiva al sicuro a casa propria”, dischiude una diversa concezione dell’abitare e dimorare, tesa fra la ricerca di una sicurezza materiale e il “diletto dell’orrore”, in una polarità mai pacificata tra necessità del nomadismo e nostalgia della stabilità.
Cosciente di non poter più contare sull’abitudine e sulla permanenza del mondo, nella raggiunta consapevolezza della natura transitoria di ogni certezza ottocentesca, l’individuo si lascia trasportare in un andamento oscillante che diviene “eterno ritorno [inteso] non come tornare indietro – ma ripetersi oltrepassando”.
È questo, senza dubbio, il senso del perturbante (unheimlich) di Sigmund Freud, radicato per etimologia e utilizzo nella sfera domestica (dello heimlich, da heim, casa) e collegato al desiderio di morte, al desiderio impossibile di far ritorno all’utero materno.
Definito, infatti, come “un che di familiare alla vita psichica […] estraniatosi soltanto a causa del processo di rimozione”, “qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è invece affiorato”, il perturbante diviene, nell’analisi di Anthony Vidler motivo di riflessione trasversale su molte ricerche dell’architettura contemporanea “che pongono, implicitamente o esplicitamente, la questione dello spaesamento nella cultura moderna”.
Attraverso illuminanti incursioni nell’architettura di Coop Himmelblau (Wolf D.Prix e Helmut Swiczinsky), James Stirling, Bernard Tschumi, Peter Eisenman, Rem Koolhaas/OMA, John. Hejduk, fino al “bio-perturbante” o “tecno-perturbante” di Elisabeth Diller e Ricardo Scofidio, lo unheimlich, come ritorno non intenzionale del rimosso, condensa “il tentativo di destabilizzare le convenzioni dell’architettura tradizionale, facendo riferimento alle teorie critiche dello straniamento, dell’indeterminazione linguistica e della rappresentazione usate come veicoli della sperimentazione architettonica di avanguardia”.
Riconsiderando alcuni contributi dell’architettura “moderna” e utilizzando con ironia gli stessi strumenti del razionalismo (quali la trasparenza dell’edificio o la griglia urbana) questi architetti, ci dice Vidler, ne hanno svelato l’irrazionalità delle viscere o l’incoerenza della matrice, giungendo verso una forma di post-urbanesimo tutt’altro che acquietante, articolato su spazi frammentari-disgiunti-dislocati-sovrapposti-stratificati e per questo potenzialmente più inclusivi verso i molti soggetti-oggetti tradizionalmente esclusi dal nostro orizzonte sociale e culturale.
Esito, per molti degli architetti richiamati, della svolta post-strutturalista, si delinea di fatto un perturbante postmoderno, prodotto della rilettura di Freud a opera di Jacques Lacan e Jacques Derrida al cui nome, soprattutto, si lega gran parte della forza innovatrice della riflessione architettonica degli anni Ottanta del XX secolo caratterizzata, nella destabilizzazione della purezza formale e nella rigorosa iconoclastia, dal tema della differenza – propriamente différance – come differimento del significato e disseminazione del senso nelle diverse interpretazioni-fruizioni dell’opera pensata come testo.
Si tratta, evidentemente, di inserire nell’architettura livelli multipli di significazione per svelare, attraverso pause inespresse, labilità-assenze-mancanze, i conflitti, gli scarti e le deviazioni rispetto a una tradizione dominante che, nella pretesa di attingere a un unico centro e principio, aveva impedito di scorgere lo spazio della dispersione, della discontinuità, delle autonomie, delle dipendenze differenziate.
Di qui l’importanza di tecniche progettuali particolari tese a smentire codici e significati condivisi per generare, attraverso “il pensiero della differenza” – a partire da Georges Bataille fino a Derrida e a Gilles Deleuze – relazioni mai oppositive, piuttosto di tipo trasformazionale, ambivalenti, eccessive, insolite e perturbanti.
Relazioni che caratterizzano tanto il decostruzionismo/ decostruttivismo quanto le ricerche, precedentemente richiamate, sul deforme e l’informe attuale dove a divenire centrale è il tema della piega deleuziana, quale campo fluido, denso, disomogeneo, continuamente diversificato: “campo verso l’infinito” in cui non c’è l’Essere in sé ma una pluralità di forze in relazione fra loro.
In tutti i casi “il pensiero della differenza” permette di istituire immediati paralleli con l’estetica del sublime, anche nelle sue interpretazioni storiche fin qui delineate.
Nella deformazioni-distorsioni-interruzioni che alterano la regolarità delle forme, nelle spirali e labirinti tesi a provocare straniamento e instabilità, nelle piegature e capovolgimenti che impediscono una lettura orizzontale dello spazio, nelle oscillazioni e vibrazioni atte a introdurre il passaggio di un movimento, tornano alcuni dei caratteri fondamentali del sublime naturale: la destabilizzazione provocata dalla radicale perdita di riferimenti agisce come l’oscurità che ci espropria dei nostri poteri visivi, esponendoci a una totale insicurezza; la componente di indeterminatezza, sfuggendo a qualsiasi rappresentazione esauriente, evoca qualcosa di assente, mancante, oscuro, inquietante, che sfida continuamente i confini, mentre la struttura della percezione va in frantumi sprofondando il soggetto nel caos.
Ma è proprio da questo caos che può – in alcuni casi – emergere alla fine il piacere, grazie a quell’incipiente nuovo ordine che Joyce chiamava chaosmos: elementi che sembravano rifiutare qualsiasi coesistenza finiscono per mettersi insieme. “Ciò che […] ci sarebbe apparso inesperibile, inimmaginabile, ingodibile, il sublime ce lo rende presente, trascinando il nostro pensiero verso il suo limite o il suo punto estremo: quel punto in cui tutto si disgela e in cui però tutto potrebbe anche stringersi in altri modi”.
Riflessioni transitorie
Se lo specifico del sublime consiste nello “squarciare il velame protettivo delle nostre certezze, nell’aprire una finestra sul caos e nel destabilizzare ogni specie d’identità” ; ovvero, se in campo artistico, lo si può leggere come il tentativo di neutralizzare, in un confronto sempre più serrato dal’700 in poi, “l’ipoteca metafisica imposta dal bello alla cultura occidentale”, appare evidente la sua sintonizzazione con molte esperienze artistiche e architettoniche contemporanee, sostenute – nella crisi dei modelli astratti e totalizzanti – da un orientamento verso l’interrogazione e la messa in discussione della forma, con la ripresa di aspetti a lungo emarginati dall’estetica tradizionale: dalla dismisura/sproporzione/disarmonia/dissonanza, sino alle sperimentazioni più radicali dell’informe, della non-forma, dell’assenza di forma.
Nella mancanza di certezze, che è innanzitutto perdita di una visione antropocentrica, il sublime opera infatti come “forza eversiva” delle norme codificate in una disseminazione del soggetto che, ripensato nella sua inerenza al mondo, si trasforma sino alla soglia del limite dell’altro da sé:
l’altro può essere la natura, come nel sublime naturale di Burke e Kant, oggi dilatata allo spazio siderale aperto dalle sonde spaziali o dai primi passi dell’uomo sulla Luna; la realtà “intramondana” del metamorfico e agitato mare dell’attualità, ma anche lo “spazio globale” postmoderno o multinazionale, l’iperspazio della “grande rete comunicazionale […] nella quale – scrive Fredric Jameson – ci troviamo impigliati in quanto soggetti individuali”.
È questo perdersi nei recessi dell’universo, nelle reti globali complesse, come nell’angosciosa voragine dell’esistenza, a costituire un potente viatico al sublime oggi. Privilegiando, nel superamento dell’esattezza e chiusura della forma in sé stessa, ora la poetica dell’assenza, della mancanza e persino del dissidio, ora la ricerca dell’indistinto, del vago e dell’indefinito, ora l’esaltazione di una forma-senza-forma, il sublime evidenzia sempre la nostra implicazione nella vertigine di un infinito dispiegarsi del mondo, il movimento inafferrabile che ci afferra” tale che “all’esperienza del sentirsi ghermiti s’accompagni sempre l’esperienza del sentirsi smarriti”.
Come scriveva Barnett Newman, esponente di spicco dell’espressionismo astratto, in The Sublime is Now, si tratta di riaffermare, attraverso il sublime, “il desiderio dell’uomo […] per tutto ciò che riguarda le emozioni assolute”, in un confronto con lo spettatore che non è più frontale e meramente visivo, ma fisiopsicologico e pulsionale, che investe la sua motilità e la sua scala corporea.
Da questa “impregnazione” si dischiude quel processo di sublimazione a indicare la “logica del passaggio” che il sublime mette in atto: quell’ “accoppiamento sconvolgente che fa sorgere il significante nel reale e inversamente il reale nel significante”; quella “fusione provvisoria” o folgorazione – non a caso richiamata dal Longino – dell’istantaneo che irrompe per infrangere le maglie del discorso.
Si tratterà allora, nell’arte come nell’architettura, di superare tutte le concezioni convenzionali, passive e puramente ricettive dell’opera, lavorando nell’ottica di uno s-fondamento dei limiti (non solo fisici, ma anche metaforici) di ogni espressione artistica, sino a modificare le strutture stesse necessarie alla sua comprensione, poiché “l’elemento nuovo sconvolge [sempre] la struttura, l’ordine e finanche il tenore di ciò che credevamo acquisito”.
“Né il sublime, né la sublimazione – sottolinea infatti Saint Girons – potrebbero appartenere a un mondo di valori definiti o definibili una volta per tutte. La posta che essi mettono in gioco è una metamorfosi del soggetto pronta a estrarre da significanti d’elezione un vigore inventivo e un eroismo del tutto inediti.
Ma, affinché tali significanti possano emergere, [occorre] stabilire un vuoto nel luogo del sublime […] da cui la catena dei significanti prende ad articolarsi e a disarticolarsi”, facendo risuonare nell’immanenza del hic et nunc l’indeterminabile, il soprasensibile, l’escluso: quell’impresentabile in statu nascendi che tuttavia si presenta, mostrando il carattere situante ma mai situabile del sublime.
tratto dal numero 142