Prima e dopo il Post-Modernism

MARIA LUISA SCALVINI
«Se le radici formali del Post-Modernism sono da qualche parte, è nel Manierismo che stanno»; questo giudizio di Paul Goldberger esprime in modo estremamente sintetico un concetto (appunto la ‘derivazione’ del Post-Modernism dal linguaggio del Movimento Moderno in maniera analoga a quella in cui l’architettura manierista ‘derivò’ dal linguaggio del Quattro- e del primo Cinquecento), che con varie formulazioni è tesi ricorrente nella letteratura critica dedicata alle contemporanee tendenze di punta dell’architettura.

Queste tuttavia, proprio per la loro proclamata eterogeneità, non potevano non far riproporre, altresì, il termine «eclettismo»: beninteso capovolgendone più o meno esplicitamente, in senso positivo, le connotazioni negative di cui lo aveva caricato la prima storiografia del Movimento Moderno.
Ne sono scaturiti ulteriori, variamente suggestivi ‘paralleli’, ed è venuta così a delinearsi una sorta di ‘genealogia sincronica’ del Post-Modernism — da una fase «manierista» ad una di «radical eclecticism» (ovvero, come vedremo più oltre, da una fase Late Modern ad una Post-Modern, che sarebbero compresenti nella situazione attuale).
In senso molto generale, può dirsi che la teorizzazione e la pratica della deroga caratterizzino sia il Manierismo che il Post-Modernism; sotto un profilo più specifico, è stato invece chiamato in causa un altro fattore: il prevalere, cioè, dell’immagine sulla forma. Per il Manierismo, tale aspetto era stato già osservato a suo tempo da Tafuri; per il Post-Modernism, l’ha recentemente ribadito Goldberger, ponendo in evidenza di questa linea, come tratto distintivo, «la dominanza dell’immagine in sé, la tendenza a far si che sia questa a determinare la forma, e non viceversa».
Tuttavia, alla luce della definizione di Classicismo maturata dalla contemporanea storiografia architettonica, la presente situazione disciplinare non sembra tanto accostabile a quella tardo-cinquecentesca, quanto piuttosto — ma come vedremo, si tratta di un’analogia ‘di superficie’ — a quella del lungo periodo («the vaste gulf of Revivalism», lo ha chiamato Collins) che va dalla crisi del
linguaggio classico, intorno alla metà del Settecento, fino agli ultimi decenni del secolo successivo.
E quindi l’analogia più complessa — e sconcertante — che viene a delinearsi è quella fra i ruoli storici dei linguaggi del Classicismo e del Movimento Moderno; analogia che naturalmente non implica affatto meccaniche equivalenze, che anzi si articola attraverso sostanziali diversità e talora ‘opposizioni’, ma che comunque porta a considerare in un’ottica per certi versi inedita la cosiddetta «tradizione del nuovo».
Classicismo e Movimento Moderno presentano indubbiamente al loro interno articolazioni multiple, che nell’ambito dell’uno si organizzano prevalentemente in maniera diacronica (Rinascimento, Manierismo, Barocco e Rococò sono le ben note, principali periodizzazioni storiografiche), mentre in quello dell’altro, viceversa, si correlano secondo modi prevalentemente sincronici.
Nel caso del Movimento Moderno, infatti, l’arco temporale relativamente ristretto accentua il carattere di intreccio e di interazione tra le diverse componenti, e le contraddizioni interne — come altrove abbiamo cercato di mostrare — non vanno certo correlate alla ricorrente opposizione razionalismo/architettura organica, bensi a fattori di ordine strutturale, e ancora una volta storico.
Ciò posto, ci sembra però in effetti che, per il Movimento Moderno, sia del tutto lecito trasporre in termini analoghi (e taluni, beninteso, ‘ribaltati’) il concetto a nostro parere fondamentale secondo cui «l’autentico parametro unificatore delle vicende dell’architettura dal ‘400 ai primi decenni dell’ ‘800 è il Classicismo, con tutta la sua carica ideologica di razionalità e di laicismo, con tutte le istanze di unificazione della scena delle azioni umane attraverso la visione prospettica, con tutte le sue istanze etiche, riflesse, fra l’altro, nella ricerca di un concreto rapporto con l’antico».
Classicismo e Movimento Moderno possono cioè, a nostro parere, essere considerati come parametri unificatori di esperienze che tengono il campo architettonico in archi temporali di durata storica diversissima (ma di equivalente “densità”) svolgendo un ruolo analogo in quanto termini generalizzanti in senso concettuale e teorico, e capaci come tali di “assorbire” le articolazioni formali che si manifestano al loro interno.
Entrambi, da parametri unificatori di ordine prevalentemente concettuale, incardinati ciascuno attorno ad una specifica “idea di architettura”, sono destinati a subire — l’uno nell’arco di secoli, l’altro in quello di decenni — un progressivo processo di riduzione ai significanti e di svuotamento teorico e ideologico, a divenire puri sistemi formali “vuoti”, disponibili a veicolare significati eteronomi e talvolta contraddittori, in ogni caso indipendenti dagli originari; a perdere il proprio valore universale, “obiettivo” e “logico”, la propria «aura», per ridursi a sistemi di clichés ripetitivi, a formule. Questa disponibilità ad una eterosemantizzazione, già notata per il linguaggio del Neoclassicismo, vale anche — e forse a maggior ragione — per l’International Style: entrambi sbocchi “vuoti” di linguaggi originariamente quanto mai “pieni” in senso semantico.
Potrebbe apparire contraddittorio accostare Classicismo e Movimento Moderno in questa prospettiva, anche perché i termini «classico» e «moderno» sono stati, anche di recente, assunti a sigle definitorie di antitetici atteggiamenti linguistici e sintattici; ma poiché non è su questo piano che intendiamo porre il nostro parallelo, è il caso di delineare — al di là delle evidenti e non contestabili diversificazioni — le analogie di struttura, che sussistono pur nella contrapposizione di “nodi” concettuali comunque rispondentisi, “termine a termine”, con valore oppositivo.
Classicismo e Movimento Moderno condividono una concezione laica e razionale dell’architettura come sistema/metodo in grado di “rappresentare”/trasformare la struttura sociale, ed al cui interno l’uomo (individuo/massa) giuoca un ruolo determinante. Nell’un ciclo culturale si postula la priorità del modello formale, nell’altro quella del modello funzionale; ma in entrambi, i termini “funzione” e “forma” sono legati da una correlazione di reciproca derivabilità — oppostamente direzionata — che li connette, sancendone la non indipendenza.
Conseguentemente, nel primo sembra instaurarsi il predominio di un “ideale estetico” (dovuto appunto al privilegio accordato al modello formale), nel secondo quello di un “ideale etico”. Ma in effetti, se l’ideale estetico del Classicismo è carico di connotazioni “etiche” (quanto meno virtuali, intese cioè come valenze aperte da saturare), a sua volta l’ideale etico del Movimento Moderno è carico di implicazioni estetiche, che vanno ben al di là di quelle usualmente citate — come la “trasparenza” all’uso, il gusto machiniste, il rifiuto dell’ornamento, e così via.
Dove però l’analogia risulta più sconcertante, e ciò al di là delle apparenti contrapposizioni, è nel rapporto con la storia. Il Classicismo postula un “modello” di valore assoluto, identificandone, in un momento particolare della storia, la ideale fase di esplicitazione in un sistema di regole, e in un gruppo di opere altrettanto paradigmi formali e tipologici.
Con ciò, viene di fatto ad essere operata, nella diacronia della vicenda architettonica, una specifica sezione sincronica, effettuandosi per così dire il “prelievo”, dalla continuità degli svolgimenti appunto storici, di un particolare ‘strato’, da ipostatizzare nella formalina dell’assolutezza e universalità del modello.
A questo punto, il passato perde la sua concreta natura di svolgimento; quel particolare momento, assunto a norma assoluta, potrebbe essere un puro costrutto teorico senza riscontri reali — e di fatto, come sappiamo, tale si rivelerà in seguito. Di conseguenza, proprio l’origine storica del modello universale, ossia il postulato rapporto con il passato, da fattore primario diviene per così dire carattere secondario, con il trapasso da struttura storica a costrutto teorico.
Il Movimento Moderno — pur partendo da una posizione antitetica, di rigetto del passato — compie un’operazione che, contro le apparenze, finisce col risultare analoga. A conferma, basti ricordare cos’abbia realmente significato il «rifiuto della storia» da parte del Movimento Moderno, in particolare nella didattica del Bauhaus.
Altrove abbiamo cercato di analizzare questo “nodo” del Movimento Moderno, sul quale qui non ci soffermeremo limitandoci a rilevare come l’espulsione della storia dall’orizzonte teorico del Movimento Moderno costituisca operazione simmetrica e “ribaltata” del prelievo dalla storia, postulato dal Classicismo, di una norma di valore assoluto.
Possiamo quindi qualificare l’operazione condotta dal Movimento Moderno in termini analoghi a quelli delineati per il Classicismo: al “modello” di quest’ultimo si contrappone (e corrisponde) un metodo operativo progettuale “esemplare”, di validità “obiettiva” (ossia appunto metastorica ed universale): un metodo applicabile a tutte le scale, «dal cucchiaio alla città», e in tutti i contesti.
Naturalmente questo metodo è centrato sugli aspetti etici, funzionali ecc., del “sostantivo” architettura, e deliberatamente espunge («puritanamente», si dirà poi) il problema degli “aggettivi” stilistici che a tale sostantivo possono accompagnarsi. Con ciò il Movimento Moderno si colloca in una prospettiva apparentemente antitetica a quella del Classicismo.
Ma se riflettiamo alla doppia, e inversa, relazione di dipendenza funzione forma prima delineata, ci rendiamo conto del fatto che in realtà il proposito è — in entrambi i casi, del Classicismo e del Movimento Moderno — quello di ritrovare un «device» ossia un meccanismo (sistema formale nell’un caso, metodo operativo progettuale nell’altro), valido “sempre”, definito una volta per tutte: in altri termini, un quadro di riferimento metastorico e universale, obiettivo e logico, frutto di “ragione”.
Beninteso quest’ultima, per motivi appunto storici, non è — non può essere — nei due casi “la stessa”; ma equivalenti risultano le posizioni che, nei confronti dell’architettura, ne scaturiscono: così che per il Movimento Moderno si è potuto parlare di «un nuovo classicismo, dunque, o piuttosto un anticlassicismo totale, ma proprio perciò altrettanto assoluto e apodittico…».
Se ora consideriamo i due cicli, Classicismo e Movimento Moderno, per così dire in parallelo, e avendo chiaro come nel secondo, come già si è accennato, si verifichi una sorta di “compattazione sincronica” di articolazioni che per il primo sono distese in un arco temporale assai più ampio, possiamo cercare di ritrovare, ancora, delle analogie/diversità sia nei fattori caratterizzanti, sia in quelli che dei due cicli hanno determinato, o accelerato, l’entrata in crisi. Citiamone alcuni fra i più significativi, nell’un senso e nell’altro.
Comune ai due cicli è l’impegno per la definizione di una cultura razionalmente strutturata e trasmissibile, in cui la norma — e rispettivamente il metodo — giuocano il ruolo di fattore “obiettivo”.
Comune è altresi la ricerca di principi compositivi semanticamente fondati (la «antisimmetria» del Movimento Moderno è altrettanto saldamente strutturata, in senso teorico, quanto la speculare o assiale equivalenza postulata dal Classicismo), e soprattutto esplicitamente codificati (difficile ad esempio non ritrovare, nella lecorbusiana enunciazione dei «cinque punti», una palese intenzionalità “trattatistica”, se pure trasposta nei termini di una cultura storicamente diversa).
Ancora, comune a Classicismo e Movimento Moderno è la tendenza ad individuare aree di ricerca in senso tipologico — ovviamente non le medesime — con il fine, ed il risultato, di una specifica caratterizzazione dell’un ciclo culturale, e dell’altro, in un senso che potremmo definire tematico.
Comune, infine, è la linea di fondo, tendenzialmente “esclusivista”, ma al cui interno sono rintracciabili varianti e “sgarri” intenzionali; questi tuttavia, proprio) in quanto “licenze”, non fanno che ribadire la struttura programmaticamente coerente e unitaria di un sistema/metodo où tout se tient (o almeno dovrebbe).
Se quanto sopra vale per un cenno, evidentemente sommario, ai fattori caratterizzanti ed emblematici, vediamo ora di converso quegli aspetti, anch’essi omologhi, che dei due cicli marcano l’entrata in crisi sul piano specificamente disciplinare, al di là cioè dei motivi di ordine storico-strutturale.
Comune è anzitutto il processo di graduale distacco del piano dei significanti da quello dei significati, con la progressiva autonomizzazione di entrambi, e il prevalere graduale del primo sul secondo. Fenomeno questo che si verifica, per il Movimento Moderno, nonostante l’iniziale asserita predominanza in esso del piano dei contenuti, e che è del resto tipico dei processi di riduzione di un sistema architettonico a mero repertorio stilistico-formale.
Infatti, con l’affermarsi dell’International Style la relazione funzione forma postulata dal primo Movimento Moderno si inverte in una relazione forma funzione singolarmente analoga a quella presente nel Classicismo — e non importa che il processo venga “attualizzato” con l’ideologia della mutevolezza della funzione stessa, con la mitizzazione della “flessibilità” e con la correlata fortuna critica e pratica del “contenitore”.
A riprova, del resto, del formalismo in cui si ribalta l’iniziale funzionalismo, si consideri come il rifiuto della simmetria intesa quale speculare eguaglianza (che nel primo Movimento Moderno si era strettamente legato al metodo dell’analisi funzionale) si riduca ora — quando pure sussiste — a mero espediente formale ovvero, più spesso, venga di fatto negato, come avviene nella più sostanzialmente “simmetrica” delle collaudate formule dell’International Style: il curtain-wall.
Ma naturalmente, è sul terreno teorico che vengono poste più radicalmente in discussione le basi concettuali, e del Classicismo e del Movimento Moderno.
Anche se l’estetica classica e quella della «tradizione del nuovo» hanno utilizzato parametri completamente diversi, è rintracciabile in entrambe l’idea di un «bello» — rispettivamente naturale/artificiale — da raggiungere con mezzi diversi e con diverse finalità, al fine di dimostrare, nell’un caso e nell’altro, la validità degli assunti teorici di partenza.
In altri termini, il raggiungimento del risultato estetico è visto come l’ovvio riscontro dell’applicazione del sistema teorico, o rispettivamente del metodo operativo teorizzato; ed il suo mancato ottenimento può solo essere interpretato come “scacco”, come non-corretta applicazione dell’indicazione fornita dal precetto, che si tratti di norma o di metodologia.
Naturalmente, l’obiettivo estetico si qualifica, nei due casi, in maniera diversa e per molti aspetti antitetica.
Non solo, infatti, Natura e Macchina rappresentano, rispettivamente, i punti di partenza per l’elaborazione di estetiche divergenti quanto ai canoni ed ai parametri; ma soprattutto, com’è ben noto, l’unicità nell’un caso, la serialità nell’altro, costituiscono i contrapposti correlati della nozione di qualità estetica. Questa tuttavia è espressa, in entrambi i casi, “in positivo”: o come sintesi dei concetti di armonia, corrette proporzioni ecc., riassunti nel termine di «venustas»; o viceversa come espressione di quei caratteri di fitness, rispondenza all’uso, “trasparenza alla funzione”, ecc., che fanno capo alla nozione del nutzlich, e quindi ai concetti di Sachlich, o meglio ancora di Zweckmässigkeit.
Le estetiche “in positivo” del Classicismo e del Movimento Moderno entrano in crisi a due secoli circa di distanza l’una dall’altra. Alla metà del Settecento, attraverso l’enunciazione della dicotomia bello/sublime nella sua Philosophical Inquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful (1756), Edmund Burke opera quella che probabilmente è la prima contestazione esplicita del concetto di «venustas», con tutto il complesso delle sue ormai codificate connotazioni.
La bellezza non sta nell’ordine, nella regolarità, nell’armonia, nelle proporzioni, bensi nella «smallness, smoothness and delicacy» del sublime, e nelle reazioni ed associazioni che tale valore estetico è in grado di suscitare. Ciò comporta una virtuale estensione, al campo architettonico, di concetti che già precedentemente (con la serie degli articoli apparsi nello «Spectator» nel 1712, e intitolati The Pleasures of Imagination) John Addison aveva espresso con riferimento ad altri campi artistici.
Il discorso di Addison, includendo «delightful scenes, whether in nature, painting or poetry», mescola come si vede i due piani del reale («nature») e del fantastico («painting or poetry»); ma ciò che più importa, è il fatto che egli includa fra i «piaceri dell’immaginazione» non solo la visione del bello, ma anche quelle dell’imponente, dell’inconsueto, dell’orrido al limite: poiché addirittura «novelty bestows charms on a monster, and makes even the imperfections of nature please». Bellezza dunque non è (più) “armonia”, visto che «all beauty is romantic beauty».
Queste posizioni in campo estetico precorrono com’è noto, in termini teorici, tutta una nuova poetica architettonica. Ma soprattutto, esse costituiscono, in nuce, la formula di un’estetica “in negativo” contrapposta a quella, tutta “in positivo”, della «venustas».
Analoga — fatte evidentemente tutte le debite differenze — è l’operazione di rottura che Robert Venturi compirà rivendicando, contro la «univalence and consistency» del Movimento Moderno, la necessaria «complexity and contradiction» dell’architettura, e teorizzando il valore dell’«ugly and ordinary» contro lo «heroic and original», del «decorated shed» contro il «duck».
L’accostamento non deve apparire improprio: è evidente che, in contesti culturali diversi, differenti sono i livelli e gli strumenti; ciò che importa nel nostro caso è il comune proposito della messa in crisi di un sistema estetico ed etico “in positivo”, l’inizio cioè della trasformazione di una struttura stabile in una che si vuole deliberatamente labile.
«Complessità e contraddizione vs semplificazione; ambiguità e tensione anziché chiarezza; “e-e” anziché “o-o”; elementi con ruolo duplice anziché unico, elementi ibridi anziché puri, e vitalità caotica (ovvero “il difficile tutto”) anziché una scontata unitarietà»; così Jencks sintetizza le opposizioni enunciate da Venturi in Complexity and Contradiction in Architecture (1966), sottolineando però come, a suo parere, ancora ci si muova a livello di gusto («taste») anziché di significazione, e soprattutto in termini di contrapposizione al Movimento Moderno, mentre l’atteggiamento Post-Modern sarà tipicamente inclusivo anche nei confronti della «tradizione del nuovo».
Peraltro, i segni di insofferenza verso l’estetica “puritana” del Movimento Moderno, si erano in parte già andati manifestando, ed erano destinati a proliferare. Italia e Stati Uniti, com’è noto, sono fra le aree culturali in cui il neo-storicismo degli anni cinquanta muove i suoi primi passi.
Se infatti del ‘55 è il saggio di Philip Johnson The Seven Crutches of Modern Architecture (nel ‘62 gli farà seguito The Processional Element in Architecture), dei primi anni cinquanta sono altresì le opere di architetti italiani (Gabetti-Isola, Albini-Helg, ecc.) che, etichettate di neo-liberty, suscitano le ben note, violente reazioni critiche dei Pevsner e dei Banham sulla «Italian Retreat from Modem Architecture».
Siamo alle prime avvisaglie di un neo-storicismo in fieri, che peraltro nei futuri sviluppi divergerà non poco dai propositi degli esordi.
Del resto, gli antecedenti immediati del Post-Modernism sono alquanto complessi. Per un verso, è stato messo in luce il ruolo di Eero Saarinen, fra i primi a volere un’architettura «richer and prouder», ed a passare dalla coerenza linguistica del Movimento Moderno ad una pluralità stilistica (legata ai vari temi progettuali) che negli anni cinquanta è neo-eclettica avant la lettre.
Per l’altro, è stata anche analizzata — e beninteso si tratta solo di alcuni esempi — la “doppia parte” giuocata da Louis Kahn, esclusivista da un lato, ma che per il suo ricollegarsi ai principi Beaux-Arts, per la storicità delle fonti, per il gusto di una forma ricca e “classica”, densa anche di valori di texture, si contrappone al linguaggio di forme “pure” del Movimento Moderno, ed esercita una spinta decisiva verso nuovi sviluppi.
Benché i tramiti siano mediati e non lineari, dietro progetti come la Guild House di Venturi & C., è anche Kahn che si ritrova; pur se, naturalmente, il ruolo esplicato sia dall’uno che dall’altro risulterà più complesso di quanto di per sé una tale “derivazione” non comporti, e se per Venturi, sotto il profilo che ci interessa, ciò dipenderà anche dall’influenza esercitata attraverso scritti come quelli di Learning from Las Vegas.
Tuttavia, non è certo solo per il ruolo dei ‘pionieri’ qui sopra citati, che la cultura architettonica americana può essere definita come un incrocio decisivo per i sentieri del Post-Modernism. Si pensi all’influenza esercitata dai cosiddetti ‘Five’ e da una contrapposizione come quella tra “White” e “Grays”, al ruolo di un Robert Stern e di un Charles Moore, ma anche di uno Stanley Tigerman, all’azione condotta dagli “immigrati” (Agrest, Ambasz, Gandelsonas, Machado e gli altri): non vi sono dubbi sul buon diritto della cultura americana contemporanea a rivendicare una posizione di punta nell’elaborazione delle molte sfaccettature del Post-Modernism.
Ma quest’ultimo, naturalmente, nasce anche dall’intreccio di tante altre voci, ciascuna con una propria specificità di intonazione e di accenti: dalla diversificata produzione dei “catalani” e di altri europei, fino a quella di molta parte dell’architettura giapponese contemporanea.
Anche i brevissimi cenni qui svolti sono sufficienti a richiamare la pluralità delle tendenze rintracciabili nel Post-Modernism. Ciò che però mette conto di sottolineare, è la circostanza per cui tutte le varie componenti — il neostoricismo, il recupero della contestualità e del vernacolare, il gusto dell’ambiguità e della sorpresa, la ricerca di un nuovo monumentalismo (e tutte le altre che si potrebbero citare) — non costituiscono affatto, ciascuna per sé sola, elemento davvero significativo né tanto meno determinante. Ciò che conta è viceversa il loro interagire — tutte, e contemporaneamente — in una civiltà
culturale complessa e mass-mediologicamente dominata. Il parallelo con i revivals storicistici e con l’Eclettismo va dunque “filtrato” con una serie di fattori correttivi di ordine culturale e sociologico oltre che specificamente linguistico, e solo con tali cautele può risultare utile e non fuorviante.
Con queste premesse, l’analogia Eclettismo/Post-Modernism può essere delineata dicendo che — come dal relativismo illuminista, dalla nuova estetica fondata sull’associazionismo, dal gusto della remoteness spaziale e temporale, dall’influenza delle esperienze figurative della pittura di paesaggio e dalla fortuna letteraria del gothic novel nascono il pittoresco, i revivals e quindi l’eclettismo storicistico — così dall’insofferenza verso il dogmatismo “puritano” del Movimento Moderno e la frigidità asettica dell’International Style; dalla teorizzazione della “ugliness” come valore; da una volontà di sperimentalismo linguistico che risulta alimentata anche dalle contemporanee ricerche semiologiche; dal gusto dell’ambiguo e del contraddittorio (dell’“e-e” piuttosto che dell’“o-o”), è nata quella tendenza che chiamiamo Post-Modern tutto sommato soltanto per mancanza di un’espressione migliore, in realtà ben consci della sua inadeguatezza di “drab, negative and erroneus moniker”.
Ma sia l’interpretazione del Post-Modemism in chiave di eclettismo, sia gli assunti dichiarati di tale tendenza, meritano qualche precisazione ulteriore.
In effetti, se da un lato non si perde occasione, da parte di molti critici, per sottolineare come l’inclusivismo differenzi il Post-Modernism in rapporto al Movimento Moderno ed al suo esclusivismo, dall’altro poi si cerca di delimitare una ristretta area di preteso Post-Modernism “autentico”, cui contrapporre altre posizioni (ad esempio quelle etichettabili come Late Modern).
Questa distinzione, sul cui merito ritorneremo, non convince anzitutto perché in contraddizione con il tipico, asserito inclusivismo del Post-Modernism, volto a “riassorbire” lo stesso Movimento Moderno (e in ciò, naturalmente, nulla di particolarmente nuovo, visto che anche l’eclettismo ottocentesco aveva seguito la medesima linea rispetto ai propri antecedenti).
Dunque il Late Modernism non può caratterizzarsi in senso autonomo come tendenza corrispondente ad una posizione “manierista” nei confronti del linguaggio del Movimento Moderno, giacché per definizione il Post-Modernism include anche la “tradizione del nuovo” tra le possibili fonti del proprio eterogeneo lessico, assieme al pittoresco e al vernacolare, allo Shingle Style e agli ordini classici, al recupero dell’ornamentalismo e di certi simbolismi planimetrici da “architecture parlante”; così come, a parte la spiccata predilezione per il layering, parrebbe includere nella propria ‘disponibilità’ sintattica sia i tradizionali costrutti gerarchizzati, sia quelli paratattici (Bonfanti).(E a questo punto, sembrerebbe proprio di dover dare ragione a Charles Moore quando propone come etichetta complessiva il termine generico di “nostalgie”, o meglio ancora di “nostalgesque”).
Quale sarebbe dunque l’assunto teorico sul quale incardinare la distinzione tra Late Modernism e Post-Modernism?
Com’è noto, secondo Jencks tale distinzione si fonderebbe sulla consapevolezza, nell’ambito del secondo, del ruolo eminentemente comunicativo dell’architettura, sul rifiuto dell’asserito elitarismo semantico del Movimento Moderno, e quindi sul deliberato ricorso ad un double-coding come tratto distintivo del Post-Modernism. L’adozione di un procedimento di codificazione su due livelli risponderebbe ad una finalizzazione semantica “doppia”: l’una elitaria, riservata agli specialisti disciplinari, in altre parole agli addetti ai lavori; l’altra di massa, rivolta all’uninformed beholder, e come tale in sintonia con le forme culturali più tipiche del nostro tempo e della cultura mass-mediologica.
Proprio su questo punto anticipiamo — e cercheremo più oltre di dimostrare — il nostro dissenso. Infatti, nello spinto sperimentalismo che contrassegna il Post-Modernism predomina una componente di giuoco intellettualistico (discutibile in quanto tale, ma senza dubbio caratterizzante) che ne rende gli esiti attuali assai lontani dalle prime proposte (nonché dai propositi) di chi difendeva il decorated shed e la ugly and ordinary architecture della Guild House nei confronti del linguaggio heroic and original di Crawford Manor.
Quelle posizioni teoriche, e i contemporanei progetti, riflettevano — magari un po’ semplicisticamente — una dichiarata volontà di comunicazione a livello di massa. Ma nell’ambito del Post-Modernism la tendenza al “simbolismo esplicito” è stata rapidamente messa da parte (e d’altronde lo stesso Venturi è approdato a ben più sofisticati allusio-nismi, ad esempio in una Franklin Court); cosicché proprio da questo punto di vista, il neoeclettismo contemporaneo risulta assai lontano dai suoi antecedenti ottocenteschi.
Il revivalismo del secolo scorso, infatti, era caratterizzato da un sistema di rispondenze semantiche relativamente univoche e notevolmente stabili. È ben vero che, rispetto alla codificazione connotativa classica di matrice vitruviana, molte variazioni si erano instaurate proprio in forza del fatto che, ovviamente (e Gombrich lo ha chiarito benissimo), non esiste alcun legame ‘intrinseco’ fra un dato sistema stilistico-formale, e il complesso delle significazioni ad esso associate.
Tuttavia, una volta ribadito come il significato di un qualsiasi sistema architettonico sia un dato storico e come tale relativo e non assoluto, va altresì riconosciuto come, nell’uso degli stili da parte degli architetti revivalisti, fosse identificabile una volontà comunicativa — in termini sia di convenzione codificata che associazionistici (anche in rapporto, quindi, alle teorie estetiche prima richiamate) — palesemente indirizzata verso l’esplicito, pur nel giuoco delle allusioni e nella predilezione per quel gusto della contestualizzazione anomala che è sintetizzato nel termine remoteness.
Di contro, l’eclettismo Post-Modem sembra, o puntare molto banalmente da un uso asemantico di singoli elementi additivi (come fra tutti quelli decorativi e ornamentali) di incerta derivazione pseudo-storica e/o vernacolare, ovvero — nei casi più sofisticati — mirare ad un uso talmente polisenso, eterodosso ed ambiguo, dei frammenti che preleva da molteplici ‘altrove’, da renderne irrintracciabile o quasi — vero labirinto semantico — il complesso delle significazioni e il percorso del senso.
Nel primo caso, il giuoco risulta scopertamente formalistico: gli elementi ‘ornamentali’ sono giustapposti on the surface, l’impiego e il mixaggio di stili diversi hanno una mera finalizzazione commerciale, di cosmesi della scatola edilizia , e siamo cioè nell’ambito di un gusto inteso nel senso più deteriore del termine.
Nel secondo caso, all’opposto, il giuoco dei rimandi è così deliberatamente complesso, gli apparenti simbolismi tanto deliberatamente fuorvianti, il sistema linguistico di partenza così ambiguamente deformato che in realtà, ben lungi dal trovarsi in presenza di una doppia codificazione nel senso prima precisato, si è di fronte a testi architettonici la cui analisi è quanto mai ardua e aperta: al punto che pochi sono i “lettori” in grado di penetrare nel meccanismo della fabula.
Il problema sembra stare nel fatto che il rapporto con l’architettura è assai meno libero di quello con la letteratura; l’ uninformed beholder, cioè, non è solo tale ma è anche, volente o nolente, user. E come sappiamo, l’esperienza dell’architettura non si risolve solo sul piano della funzione, della fruizione pratica, ma implica viceversa un rapporto più complesso. Ciòsignifica che una scelta evasiva o elitaria, sul piano della significazione, non è irrilevante.
Ora, è vero che il Movimento Moderno ha potuto essere, non a torto, accusato di insufficiente attenzione ai problemi della significazione (anche in rapporto al privilegio accordato alla funzione); è vero che si è contrapposto il suo silenzio alla eloquenza del linguaggio classico e che, ancora assai di recente, si è voluto ribadire come il razionalismo abbia comportato una riduzione semantica.
Ma parlare per il Post-Modernism, come fanno i suoi fautori, del recupero di una dimensione di significazione popolare e collettiva, di massa, in contrapposizione all’asserito elitario e puritano sistema di significazione del Movimento Moderno — appare in verità difficilmente sostenibile.
Né vale, sotto questo aspetto, l’asserita dicotomia tra Late Modernism e Post-Modernism. Non sembra infatti rilevabile una sostanziale differenza, che vada cioè al di là del grado di sofisticazione delle allusioni più o meno implicite/esplicite, fra episodi come il grattacielo di Johnson per l’AT & T, o il Pavillon Soixante-Dix di Righter, Rose e Lankin, o il portico aggiunto da Kijima al tempio Matsuo di Kamimuta, o i progetti di case di un Thomas Gordon Smith, o ancora il Culture Bridge tra Fargo e Moorhead di Michael Graves.
Certamente, — e almeno a giudicare dai rendered drawings disponibili — al pari del successivo progetto per i PPG Headquarters a Pittsburgh, il grattacielo newyorkese per l’AT & T si inquadra nell’eclettismo storicistico di Johnson secondo livelli allusionistici plurimi (il che sembrerebbe avvalorare il giudizio di Goldberger che lo accredita come il “Post-Modernism’s major monument”), mentre ben più complessi risultano i procedimenti di doppia estraniazione adottati da Kijima allorché ha aggiunto un portico classico e occidentale al Matsuo Shrine, adottando però, per i prescelti elementi di una sorta di ordine dorico, un tipico finishing industriale.
Senza dubbio, i meccanismi associativi stimolati dal Pavillon Soixante-Dix — al di là delle pretese ascendenze palladiane — sono ad un livello che con terminologia degli anni sessanta si definirebbe middlebrow; mentre di tutt’altro ordine risultano i procedimenti messi in atto da Graves nell’elaborare il progetto del Culture Bridge, e richiamati negli schizzi che accompagnano il disegno finale, chiarendone la genesi formale: Ledoux e il Vanbrugh di Castle Howard, il timpano spezzato e la serliana, il tema manierista della “faccia” e (capovolta) la lanterna borrominiana del San Carlino, la pietra caduta dalla chiave dell’arco, e l’acqua che fuoriesce da un semicilindro.
Ma ribadita la distanza e la pluralità dei livelli associativi e delle citazioni, e la possibilità quindi di operare tutta una serie di distinzioni “del secondo ordine”, ciò che sembra di poter confermare è il fatto che la dimensione più tipica del Post-Modernism — contro talune apparenze, e contro le dichiarazioni della maggior parte di protagonisti e fautori — resta quella di un’elitaria e sofisticata rarefazione intellettualistica (del resto da alcuni espressamente rivendicata), dalla quale restano fuori solo gli episodi di più scontata compiacenza pseudo-stilistica.
Se non ci sentiamo, cioè, di sottoscrivere l’asserto per cui “i Post-Modernists… si abbandonano ad un confuso eclettismo per mascherare la circostanza di non aver quasi niente da dire” è perché pensiamo, piuttosto, che lo sperimentalismo linguistico nato dallo storicismo degli anni cinquanta sia andato oltre il segno.
Ben al di là, cioè, delle intenzioni di coloro che, all’inizio, si proponevano di contrapporre alla difficoltà del linguaggio “heroic and original” del Movimento Moderno, il simbolismo esplicito e facile della ugly and ordinary architecture; tanto al di là, da divenire campo di lavoro progettuale e critico decisamente elitario: tematiche architettoniche da un lato, ed esegesi interpretative dall’altro, sono li a dimostrarlo.
Un ulteriore carattere che — se pure implicitamente — conferma la destinazione elitaria del Post-Modernism (ma anche di altre tendenze contemporanee di punta) è costituito dal peso assunto dal disegno di architettura come strumento in sé, o in altri termini e in senso più generale dalla cosiddetta “architettura di carta”, intenzionalmente riservata cioè ad una fruizione atipica.
Fra i tanti accostamenti che una tale posizione può suscitare, non manca naturalmente il richiamo alla Glàserne Kette di Taut e dei suoi corrispondenti. Solo che, nell’attuale condizione, la capacità del sistema di “digerire” atteggiamenti protestatari di questo tipo, anzi di alimentarsene, rende sospetti come “finti naufraghi” anche i superstiti del Radeau de la Meduse di Koolhaas & C.
Ma non sembra, questo, il più preoccupante degli aspetti negativi. Piuttosto, va rilevato che il carattere così pervicacemente intellettualistico, elitario e/o evasivo, di questo tipo di sperimentalismo architettonico; la sua inevitabile finalizzazione a pochi, particolari temi di marca “aristocratica” (la grande residenza privata, il negozio raffinato e così via), lontanissimi dai maggiori problemi (quelli sì di massa) dell’architettura contemporanea; il distacco, in altri termini, dalle più flagranti aree di ricerca attuali per una cultura architettonica veramente diffusa e collettiva, hanno conseguenze assai pesanti.
Non solo infatti i fattori sopra citati concorrono a scavare un solco sempre più profondo fra intellettuali e pubblico dell’architettura, ma altresì, e più specificamente, ciò significa che, “raggiunti alti livelli di integrazione complessiva nei settori determinanti, ci si può permettere di alimentare spazi ben ritagliati per la cultura, affidando loro il compito di intrattenere piacevolmente un pubblico selezionato”.
A questo punto i “settori determinanti” possono tranquillamente essere delegati alle iniziative ed alla capacità di elaborazione progettuale del più corrente e routinier dei professionismi (e non è nemmeno, questo, il peggiore dei casi): tutto quel vasto campo tematico e tipologico — che comincia con la residenza di massa, ma che non si esaurisce certo con questa — che il Movimento Moderno aveva annesso al territorio dell’architettura, rischia di essere di nuovo disertato dalla ricerca disciplinare, e abbandonato ad iniziative che con l’architettura poco hanno a che fare.
In conclusione dunque, e anche ammessa nel Post-Modernism una valenza di Radical Eclecticism che lo accosterebbe (ma a nostro parere ‘per differenza’ almeno nella stessa misura che “per analogia”) al revivalismo ottocentesco, allora lungi dal mitizzarlo occorre piuttosto coglierne il senso autentico — ossia lo scollamento fra i due piani della significazione, con il correlato affermarsi di uno sperimentalismo architettonico ridotto a livello di pure immagini — e aver chiaro come esso non possa in alcun modo costituire né una trionfale uscita né una modesta sortie de secours dalla tuttora persistente crisi dell’architettura.
In effetti, se qualcosa le parabole del Classicismo prima e del Movimento Moderno poi hanno definitivamente chiarito, questo è proprio il fatto — che anche recentemente abbiamo cercato di analizzare, su questa stessa rivista — che non è rimuovendo i motivi di una crisi, che se ne esce.
A nostro vantaggio, sta la consapevolezza del fatto che non è un ulteriore “sistema di certezze” che occorre costruire, in alternativa ai precedenti sistemi del Classicismo e del Movimento Moderno, bensì una razionale attitudine al “dubbio metodico”. Attitudine, è appena il caso di dirlo, dalla quale il brillante funambolismo del Post-Modernism, e la sua disinvolta certezza di riuscire a comunicare (che cosa poi?) “con tutti”, ci sembrano in verità lontanissimi.
tratto dal numero 48