Architetto e ingegnere

ANNA GIANNETTI
Il termine architetto deriva etimologicamente dal greco, ἄρχω, comando, e τέκτον, costruttore, quindi letteralmente vuol dire capocostruttore ; mentre ingegnere deriva dalla voce del latino volgare ingenium, macchina e particolarmente macchina bellica, per cui l’ingeniarius sarebbe stato in origine l’ingegnere militare.

Ovviamente le interpretazioni dei due termini e le loro attribuzioni sono state diverse nei secoli, ma mentre il significato etimologico primario della parola architetto è rimasto immutato dal ‘400 in poi, sulla natura dell’ingenium latino si è ampiamente dibattuto, soprattutto durante il secolo scorso, legandolo variamente all’ingegno o talento necessario per esercitare la professione, alla meccanica e ai meccanismi in generale, o addirittura ad un verbo incingere del latino medievale e quindi alla recinzione delle città con palizzate o mura.
Il termine greco ἄρχιτέκτον con il suo significato di progettista, chiaramente distinto dai comuni operai, comincia solo con l’epoca classica a prevalere sul più antico τέκτονες, costruttore di legname, usato da Omero.
Pur circondato dal disprezzo per la propria attività manuale, come tutti gli artisti, l’architetto greco è un libero professionista che presta la sua opera allo stato, unico grande committente dei tempo, e che opera in un vasto campo disciplinare che va dal Partenone di Ictino, ai Propilei di Mnesicle, all’intervento urbanistico di Ippodamo di Mileto, abbracciando ugualmente l’idraulica e le opere militari, la creazione di macchine e l’invenzione di ordigni di uso civile e bellico.
L’ampiezza della sua attività professionale e la scarsissima considerazione in cui sono tenute in Grecia tutte le forme di specializzazione e di abilità particolare, limitative della παιδεία platonica, escludono la presenza di ingegneri nel mondo greco, mentre fanno sì che pittori come Bupalo di Chio e Mandrode di Samo, o scultori come Fidia siano anche architetti. Sono invece per ora i matematici e i filosofi ad occuparsi di alcuni settori divenuti poi tradizionali dell’ingegneria: l’agrimensura, la livellazione e la topografia sono per loro oggetto di studio come branche della
geometria applicata, mentre la meccanica e le leggi del movimento fanno parte della φυσική.
Nella Roma di Catone l’accettazione delle arti dei vinti è controversa e combattuta, eccezion fatta per l’architettura alla quale fin dall’epoca di Tarquinio era stato riservato un posto d’onore. Soltanto l’Architettura ha diritto di cittadinanza: ma soprattutto come tecnica utile ai fini del governo della cosa pubblica e, come ingegneria militare, delle operazioni belliche.
Su tale qualità civile dell’architettura romana, data per certa la grandezza delle opere realizzate, si è trascinata dalla metà del ‘700 agli inizi di questo secolo una vivace querelle intorno alla natura di tali opere e dei loro artefici.
Dalla disputa di Piranesi con i francesi Manette e LeRoy intorno alla maggiore grandezza dei Romani o dei Greci, a lungo i critici si sono interrogati sulla questione se i cittadini dell’Urbe siano stati architetti o ingegneri, artisti o tecnici, e se, quindi, la loro produzione appartenga alla storia dell’Architettura o dell’Ingegneria e, nel primo caso, se gli autori di tali opere siano stati quegli stessi dominatori del mondo o piuttosto i molto più civili e artisticamente dotati abitanti della Grecia, condotti schiavi dopo la conquista del loro paese.
I primi architetti romani, secondo alcuni, erano stati sacerdoti etruschi chiamati da Tarquinio a costrurre i templi più antichi.., sul monte capitolino e dove più tardi a fianco dei cittadini romani come Colluzio e C. Muzio.. vidersi numerosi architetti greci, condotti schiavi dopo la conquista della Grecia, dirigere le più notevoli costruzioni della Roma imperiale.
Secondo altri invece gli architetti Romani tali (cioè artisti) non furono mai, ma essenzialmente ufficiali della pubblica amministrazione e costrutori nella più nobil significazione… (poiché) L’antica e vera architettura di Roma non fu mai un’arte, sempre adoprata essendo quale instrumento di governo ad agevolare le operazioni di guerra, a munire e far accessibili le frontiere, a render più comoda, sana e sicura la vita urbana.
Al contrario, per l’allievo di Viollet-le-Duc, Choisy e quanti pensavano che la tecnica non fosse il contrario dell’arte, anche presso i Romani (come i Greci) il campo dell’Architettura abbraccerà le scienze meccaniche tutte intere, la costruzione delle macchine e come la decorazione dei templi: gli antichi giudicavano necessaria una sorta dl universalità del sapere per la conduzione dei lavori dove intervengono tutte le branche dell’industria e dell’arte.
La disputa ha trovato nell’esistenza di due termini romani per indicare gli architetti e nella tarda e lenta adozione del termine greco ἄρχιτέκτων uno dei suoi punti di forza. L’antico termine di origine latina magister indica infatti il capo degli operai, sia nelle opere civili che in quelle militari, nonché il direttore dei lavori, senza avere quella implicazione artistica e creativa che è propria del vocabolo greco.
Inoltre l’architectus o architector compare solo intorno al 200 a. C. nei testi latini, in Plauto e poi in Seneca, il quale in una delle sue lettere (90,9) ancora usa la scrittura Greca quando compara il lusso dei suoi giorni con la sobrietà del passato che era stato «sine ἄρχιτέκτονες» Il che dimostra che il periodo di adozione del termine non è ancora finito alla metà del primo secolo d. C. e conserva un valore negativo, su cui pesa, è evidente, la radicata ostilità contro i fenomeni artistici corrotti e corruttori, anche in Marziale che consiglia ai genitori di far diventare i figli di durum ingenium architetti o sovraintendenti.
Secondo alcuni inoltre lo stesso termine ingeniarius comparirebbe intorno al II secolo d.C., ma fino al Mille non se ne hanno prove storicamente accettabili.
Nello stesso De re aedificatoria vitruviano è stato letto tanto il tipo ideale dell’ingegnere che dell’architetto romano: il celebre passaggio iniziale in cui si richiede che l’architectus sia esperto in ratiocinatio e fabrica e che conosca in maniera più che sufficiente le lettere, la storia, la filosofia, la musica, la medicina e l’astrologia si è prestato a tale duplice interpretazione, facendo nascere la leggendaria figura dell’ingegnere romano, archetipo di quello ottocentesco.
Sta di fatto che l’architetto romano gode di un notevole prestigio e rispetto, molto maggiore degli altri artisti e che la sua qualità di tecnico e l’importanza delle sue prestazioni assicurano all’architetto, nella società romana, una posizione di privilegio rispetto a quella degli scultori e dei pittori, la cui attività era considerata servile: su sessanta architetti romani, di cui si conosce il nome, venticinque erano cittadini romani, ventitré liberti e solo dieci schiavi.
Con la fine dell’Impero, solo una attenta indagine filologica ci consente di seguire le tracce dell’architetto-artista greco-romano e di individuare che tipo di personaggio e di professionista si sia venuto a formare dietro la parola ingeniarius al suo comparire intorno alla fine del XII secolo.
Il termine latino architectus entra rapidamente a far parte della cultura cristiana, conservando il significato originario e anzi accentuandone il valore creativo e intellettuale, così da essere utilizzato nella Volgata e negli scritti dei Padri della Chiesa, e da diventare con la I epistola di San Paolo ai Corinzi un attributo di Dio e, col De Civitate Dei agostiniano, di Cristo, chiamato appunto architectus ecclesiae.
Vero è che per tutto l’Alto Medioevo, l’architectus compare frequentemente e con l’antico valore teorico e pratico: Cassiodoro lo usa infatti sia in una lettera inviata da Teodorico a «Aloisio archltecto» sul restauro di alcuni edifici… sia in una formula per lettera al «Praefectus Urbis» sulla assunzione di un architetto per sovraintendere agli edifici pubblici a Roma.
Un secolo divide Teodorico da Isidoro da Siviglia che nel suo Etimologiarum Libri XX – composto intorno al VII sec. – dedica due paragrafi all’architetto e al suo lavoro, Architecti autem caementarli stint qui disposunt in fundamentis. Unde et Apostolus de semetipso: Quasi sapiens, Inquit, architectus fundamentwn posui.
Tale definizione, come tutta la sua opera del resto, segna il passaggio dal mondo tardo-romano al pieno Medioevo: l’architetto infatti pur essendo già simile al muratore è ancora un particolare caementarius, avente il compito preciso di disegnare le fondamenta, come attività distinta dal lavoro pratico e ornamentale.
Dall’VIII al XIII secolo il termine greco-latino scompare, soprattutto nell’Europa del Nord, per essere sostituito da un gran numero di espressioni come artifex, magister, lapicida, magister operis, etc: da ciò prese origine un’altra tradizionale polemica che accompagnò nel secolo scorso il rinnovato interesse storiografico e disciplinare per l’architettura di questi secoli. Non solo critici e storici, ma anche scrittori e letterati tentarono di risolvere l’apparente contraddizione tra la novità e l’altissima qualità tecnica delle opere e la scarsissima documentazione sui loro artefici.
La molteplicità dei termini usati, la confusione continua tra il committente e l’esecutore e il poco interesse di quei tempi per la personalità creatrice fecero nascere le ipotesi più disparate su chi erano stati, se mai erano esistiti, gli artefici delle architetture romaniche e soprattutto gotiche: a monaci architetti, a vescovi o abati menzionati negli atti del tempo, ad anonimi artefici presi dai ranghi stessi della popolazione civile di cui traducevano lo spirito e le tendenze, allo stesso epos popolare autore di queste opere collettive di tutto un popolo, ai grandi architetti… nati per la maggior parte nei domini reali e più particolarmente usciti dall’Ile-de-France, di cui si è persa in molti casi la memoria, si attribuì di volta in volta il ruolo di architetto medievale.
Vale la pena di ricordare, però, come durante la cosiddetta Rinascenza Carolingia il termine architetto e le sue attribuzioni tradizionali ricompaiano, unitamente alla più antica edizione medievale del testo vitruviano, pubblicata probabilmente a Colonia nell’850.
Così come è sulla scia della rinascita intellettuale del XIII secolo che il confuso magister si riavvicina dopo quattro secoli all’architetto vitruviano: la Chiesa con la Summa contra gentiles di S. Tommaso d’Aquino riscopre per mezzo di Aristotele l’antico valore speculativo del termine usato da S. Paolo, mentre da un documento della metà del secolo, di Nicolas de Biard, apprendiamo che anche nel campo professionale qualcosa si sta trasformando: nei grandi cantieri, a differenza dei minori, «c’è di abitudine, un maestro che li guida e regola solo con la parola, senza entrarci altro che raramente, e senza metterci mai mano, e tuttavia riceve salari più alti degli altri».
Così pur restando tipico l’architetto che lavora da sé nella loggia e si sente artigiano proprio come gli altri capi artigiani, è ormai altrettanto diffusa la nuova figura dell’architetto medievale che viaggia per l’Europa, prestando la sua opera o la sua consulenza, e che si fa rappresentare come Peter Parler accanto ai suoi predecessori e donatori principeschi nella cattedrale da lui realizzata.
Molteplici erano state, e tali continuano ad essere, le competenze dell’artefice gotico, non soltanto ingegnere o tecnico, ma anche autore del disegno delle modanature, della decorazione, e anche delle opere scultoriche, e pittoriche e di molti, nonostante tutto, conosciamo i nomi e le opere.
Anche se volendo, come alcuni critici del Ventennio hanno fatto, si può definire l’architetto medievale come ingegnere, è solo con la fine del XII secolo che compare con certezza tale termine in Italia e in Francia nella forma di incignerius o encignerius. Tale titolo è riferito ad ingegneri militari incaricati di provvedere alla difesa di città con mura e con palizzate, di costruire macchine militari e di dirigere i lavori relativi alle costruzioni idrauliche e stradali… Le persone che attendono a questi e simili lavori.. sono dapprima chiamate semplicemente “magistri”.
L’antica parola, che già i classici Romani usarono per designare l’ingegnere e che nel latino medievale si presta a tanti e così vari significati…Ne sono esempio.., le carte di alcuni fondi dell’Archivio di Stato bolognese, in particolar modo quelli dell’Ufficio del Giudice delle Acque, Strade, Ponti, Calanchi, Selciati, Fango, Corone ed Arme, una specie di Ufficio di Polizia, alle dipendenze del Podestà. Fino a mezzo il trecento vi troviamo registrati assai spesso i “magistri ingegneri”, di cui si specifica sovente la dipendenza dal comune o dal signore.
In Italia però fin dall’XI secolo qualcosa era già mutato nella condizione degli architetti, manifestandosi una tendenza simile a quella registrata per i paesi del Nord. Contrariamente a quanto avvenuto finora, compare un sorprendente numero di iscrizioni su edifici che lodano il muratore responsabile della loro erezione e lo scultore che li ha decorati, In termini di “Magistri doctissimi”, “nobilis et doctus” …Ed è anche difficilmente per caso che così spesso nelle iscrizioni italiane si distingua il “fecit”, riferito all’artista, e il “fieri fecit” dove i committenti dell’edificio o dell’opera sono menzionati .
Basti per tutti il caso di Lanfrancus architector, autore delle nuove opere intraprese intorno al 1099 nella cattedrale di Modena, di cui nella Relatio Traslactionis Corporis Sancti Geminiani del 1200 si descrivono minuziosamente tutte le numerose mansioni, definendolo sempre in termini di mirabilis artifex e mirificus aedificator.
Siamo così giunti alle soglie del Rinascimento che, dapprima in Italia e poi in tutt’Europa, segna la riscoperta dei valori dell’antico termine vitruviano e l’ingresso dell’Architettura tra le Artes Liberales.
La nuova era nella storia della condizione sociale degli artisti e in quella professionale degli architetti si apre con l’incoronazione di Petrarca e la nomina di Giotto a capomastro della cattedrale e della città di Firenze da parte delle autorità civiche «perché erano persuasi che l’architetto civico dovesse essere sopratutto un “uomo illustre”. E quindi per la sola ragione che essi “ritenevano” che in tutto il mondo non si potesse trovare uno migliore di Giotto in questa e molte altre cose’, essi lo prescelsero benché non fosse un capomastro.
Ed è particolarmente sintomatico… che le nazioni straniere comincino a far rivivere l’uso di “architector” e “architectus” esattamente nel momento in cui diventano coscienti dell’umanesimo e Rinascimento italiani… In Francia il termine rimane… inusuale durante il XV secolo ed entra nel favore generale solo quando i re francesi cominciano a chiamare gli artisti italiani nel paese. Domenico da Cortona è chiamato “architecte” nel 1533 e “architectur” nel 1545, e a Serlio nelle Lettres Patentes del 1504 è dato lo stesso titolo.
Ugualmente in Spagna la parola comincia ad essere usata dal 1537 in poi con la nomina di Alonso de Covanubias ad arquitecto major di Carlo V e lo stesso fenomeno si verifica in Germania e in Inghilterra dalla metà del ‘500 in poi.
L’architetto riscoperto in Italia gode di una posizione sociale prestigiosa fin qui ignota e vede accentuarsi quella interdisciplinarità che dall’Antichità al Medioevo aveva caratterizzato la sua professione: I grandi architetti non passano generalmente attraverso un addestramento specifico. E d’ora innanzi i grandi artisti furono onorati, ed ammessi a posti che non rientravano nella loro specialità, soltanto perché erano grandi artisti.
La diversità sostanziale rispetto all’architetto gotico è che alla base di ciò c’è ora la fondamentale novità della concezione artistica del Rinascimento…, l’idea del genio e la concezione dell’opera d’arte come creazione dell’autonoma personalità: questa è superiore alla tradizione, alla scuola, alla regola, alla opera stessa, che anzi da essa trae la propria legge.
Che cosa sia o che cosa debba essere esattamente l’architetto rinascimentale è la stessa fiorente letteratura teorica del tempo a dircelo e principalmente il prologo del celeberrimo trattato di Alberti, il De re aedificatoria, pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1485.
«Credo utile – dice l’autore – chiarire che cosa, secondo me, si debba intendere per architetto. Giacché non prenderò certo In considerazione un carpentiere, per paragonarlo ai più qualificati esponenti delle altre discipline: il lavoro del carpentiere infatti non è che strumentale rispetto a quello dell’architetto. Architetto chiamerò colui che con metodo sicuro e perfetto sappia progettare razionalmente e realizzare» praticamente, attraverso lo spostamento dei pesi e mediante la riunione e la congiunzione dei corpi, opere che nel modo migliore sì adattino ai più importanti bisogni dell’uomo.
Infiniti sono i compiti e le discipline abbracciate da tale architetto, non solo scultore come Brunelleschi, o pittore come Giotto, ma ideatore di «ingegni» di pubblica e privata utilità: «utili al singolo e alla salute come viali, piscine, terme; alla vita quotidiana come i mezzi di trasporto, I forni, gli orologi… E ancora i mezzi per condurre in superficie le acque sotterranee… così pure i monumenti commemorativi, i santuari, i templi, i luoghi santi in genere.
Utili alla civiltà e al commercio come il taglio delle rupi, il traforo delle montagne, il livellamento delle valli, il contenimento delle acque marine e lacustri, lo svuotamento delle paludi, la costruzione delle navi, la retlflcazione del corso del fiumi, lo scavo degli sbocchi delle acque, la costruzione dl ponti e porti e infine utili alla patria e alla comunità come le armi da lancio, gli ordigni bellici, le fortezze, e tutti gli strumenti utili a conservare e a rafforzare la libertà della patria.., e ad estenderne e consolidarne i domini.
Molto più sinteticamente, questo campo sterminato di attività si ridurrà per i trattatisti successivi alle quattro branche, divenute poi tradizionali, dell’architettura civile, militare, idraulica e navale.
Di queste, l’architettura militare è quella che, oltre alla civile, assume maggior importanza per tutto il secolo, non solo per l’urgenza politica del problema delle fortificazioni, ma anche per lo stesso principio innovatore esposto da Francesco di Giorgio Martini nel suo trattato del 1482, ossia per la scoperta della dipendenza della resistenza delle mura, non dal loro spessore, ma dalla forma della pianta su cui sono costruite.
Abbiamo così numerosi ingegneri-artisti o architetti militari che dir si voglia, come lo stesso Francesco di Giorgio Martini a Urbino, Giuliano da Sangallo a Firenze, Bramante e Leonardo alla corte di Ludovico il Moro.
Mentre nessun trattato d’Architettura tralascia d’ora in poi di dedicare almeno un capitolo alle fortificazioni e all’architettura militare, compare il primo libro d’ingegneria pubblicato per le stampe, il De militari di Roberto Valturio del 1472.
A dire il vero gli ingegneri fra il Tre e il Quattrocento hanno in parte mutato e in certo senso allargato il loro campo professionale: progetto e costruzione di strade, lavori di restauro ad opere civili e militari e loro progetto, costruzione e riattamento di ponti di legno e murari… costruzione di argini, regolazione di torrenti e di fiumi, costruzione di mulini e soprattutto cominciano ad occuparsi di perizie e stime.
Questa attività tecnico-legale, fonte cospicua di reddito e sovente l’unica possibile, sarà oggetto di contese furibonde con le altre categorie professionali a questa patentate, i vari tipi di estimatori presenti negli stati italiani e gli architetti, per tutto il secolo successivo, protrattesi fino alla metà del ‘700. Un decreto di Lodovico il Moro (22 dicembre 1479) definisce il campo di attività degli ingegneri con queste parole: «architectores seu agrimensores et livellatores acquarum qui omnes vulgo ingeniarii appellantur».
Per tutto il ‘500 sono ancora numerosi gli architetti militari o ingegneri-artisti, come Antonio da Sangallo il Vecchio e suo nipote Antonio da Sangallo il Giovane, mentre gli ingegneri militari italiani prestano la loro opera negli altri paesi europei e nascono vere e proprie dinastie di celebri ingegneri, come i Martinengo o i Savorgnan del Friuli.
Nel 1540 viene pubblicato il trattato di Vannoccio Biringuccio De la Pirotecnia, dove per la prima volta i problemi tecnici sono distinti da quelli dell’arte militare, e numerosi sono gli autori tecnici italiani fino ai primi decenni del ‘600, come Agostino Ramelli, Bonaiuto Lorini e Fausto Venanzio, per citarne solo alcuni.
Gli architetti intanto per tutto il Cinquecento continuano la loro escalation sociale, al seguito dei pittori, ormai giunti al sommo della gloria e della potenza. Nonostante la fiorente letteratura teorica del secolo, la figura dell’architetto definita dall’Alberti non subisce trasformazioni sostanziali, se non nel suo raffinarsi culturalmente e socialmente: Palladio si forma in un clima di severi studi umanistici, è allievo di Falconetto e lo protegge e dirige Gian Giorgio Trissino, dilettante architetto e letterato.
Il sempre più stretto rapporto con l’Antichità e le sue virtù non solo accentua quelle caratteristiche di nobiltà di animo e di modi richieste da Vitruvio, ma porta all’elevarsi del livello medio delle conoscenze non specificatamente tecniche di questi architetti-gentiluomini.
Non c’è soluzione di continuità tra questi professionisti e quelli del secolo successivo, tutt’al più si può registrare il maggior numero di onori che ricevono accademici e artisti affermati: Bernini è architetto, scultore, pittore, autore di teatro, scenografo e universalmente riconosciuto e osannato come genio del secolo.
Interessante è invece il rinnovarsi all’inizio del ‘600 di quei legami, risalenti a San Paolo, tra Architettura e rivelazione cristiana. All’inizio del secolo un gesuita spagnolo, Juan Bautista Villapanda aveva pubblicato, nel suo ampio commento a Ezechiele, la ricostruzione dell’ordine che era stato usato nel Tempio di Gerusalemme e che si asseriva basato direttamente sul precetto divino.., esso attirò l’interesse di molti architetti.
Nel corso del Seicento ci furono vari tentativi di ricreare l’ordine del Tempio, stabilendo così la diretta discendenza del lessico architettonico dal verbo dell’Architetto del mondo.
Ma la querelle des anciens et des modernes, che in campo architettonico vede contrapposti intorno all’esemplarità della storia, i fautori di una rigida imitazione a quelli di una maggiore libertà espressiva dei moderni, non muta per ora le qualità, né il ruolo professionale e sociale dell’architetto.
Molto più carica di conseguenze è invece la fondazione a Parigi, nel 1671, ad opera di Colbert, dell’Académie Royale d’Architecture, che assorbe all’interno dell’amministrazione statale i membri di tale organismo e crea la nuova figura dell’architetto di stato, esperto e consulente reale per le questioni pratiche e teoriche della disciplina.
Altrettanto determinante per gli sviluppi futuri è l’accentuarsi del predominio delle arti grafiche all’interno della pratica architettonica, si avvia infatti inavvertitamente una profonda trasformazione che esploderà nella seconda metà del secolo successivo: la radicale frattura che si crea da questo momento in poi tra l’architetto e l’ingegnere provocherà, infatti, una crisi disciplinare i cui effetti non sono stati ancora completamente assorbiti ai giorni nostri.
Nonostante il disprezzo del secolo per la loro professione, gli ingegneri, che si nascondono volentieri, come i grandi idraulici toscani e emiliani, sotto il nome di matematici, e che quantunque vengano detti Architetti e in italiano con “speciosissimo” nome ingegneri, di nessuna cosa… fan meno uso che dell’ingegno e sono nelle scienze del tutto rozzi e Inesperti e non salutarono neanche dalla soglie le buone arti e son tutti intenti nel delineare e rappresentare graficamente le cose, pure vengono ad assumere un valore teorico fondamentale come deuteragonisti dell’architetto.
Nel suo diffusissimo trattato per i collegi, del 1714, Girolamo Fonda scrive Tutte e due (architettura civile e militare) benché discordanti nei fine, convergono ne’ materiali, ed hanno molti principj, e regole comuni, onde siccome chi della Civile ne sapesse solamente i precetti, direbbesi con ragione Architetto per metà: così sarebbe Ingegnere imperfetto chi dalla Civile non ricavasse de’ lumi nella costruzione dei diversi pezzi di una piazza fortificata.
Sostituendo ai termini Civile e Militare quelli di teoria e pratica, si hanno esattamente definiti i legami che alla fine del Seicento in poi intercorrono tra gli artisti-architetti, sempre più vicini alle arti grafiche, e gli ingegneri-tecnici, ormai unici depositari delle componenti scientifiche della disciplina.
Con la metà del ‘700 la frattura tra queste due figure si formalizza: nel 1747 viene fondata a Parigi l’Ecole des Ponts et Chaussées per preparare il personale dell’omonimo Corps, istituito nel 1716, e nel 1748 viene creata l’Ecole des Ingénieurs de Mézières. Sebbene la risonanza storica di tali scuole sia stata senz’altro maggiore e la loro vita più felice, vale la pena di ricordare come analoghe scuole o accademie vengano create un po’ in tutt’Europa, sancendo in maniera inequivocabile la separazione delle due professioni, o piuttosto, la nascita di quella di ingegnere.
Si pubblicano anche trattati per gli ingegneri, come le Istituzioni pratiche per l’Ingegnere Civile di Giuseppe Antonio Alberti, la cui edizione veneziana è del 1761, o i testi molto diffusi in Francia e in Italia di M. Bélidor, come La Science des Ingénieurs dans la conduite des travaux de fortification et de Architecture Civile, del 1729.
Al contrario gli ambiti professionali degli architetti subiscono una notevole riduzione: Architettura – dice d’Aviler nel suo Dictionnaire d’Architecture et Hydraulique del 1755 – l’arte del costruire, questa definizione è forse troppo generale… defluiamo l’Architettura l’arte del costruire edifici di abitazione e di magnificenza e le branche della disciplina, con la scomparsa dell’Architettura Militare e dei Ponti e Strade, ormai appannaggio esclusivo degli ingegneri, si riducono all’architecture de treillage, ossia dei giardini e dei portici; a quella en perspective, ossia dei teatri; a quella feinte, ossia dipinta e infine, a quella hydraulique, ossia dell’acqua, per gentile concessione dell’autore.
L’architetto si limita ad essere colui che, sapendo la teoria e la pratica dell’Architettura, disegna i progetti di tutti i tipi di edifici, ne conduce la esecuzione, comanda a tutti gli operai e ne regola le spese.
Ancor più significativamente nell’Encyclopédie si legge, sempre alla voce architetto: Si intende con questo nome un uomo le cui capacità, l’esperienza e la onestà meritano la fiducia delle persone che fanno costruire, preannunciando la violenta polemica che di lì a poco si accenderà sulle qualità morali, ossia sull’onestà, degli architetti e sulla loro pericolosità per le finanze di nazioni e privati.
La generalizzata esigenza della formazione professionale di stato porta alla nascita in tutt’Europa di scuole o accademie che, ricollegandosi alla vecchia tradizione accademica cinque-seicentesca, si occupano, per delega statale, dell’educazione e della istruzione dei futuri architetti.
L’architetto membro della Accademia è però nel ‘700 ancora una delle tre categorie di professionisti che si possono incontrare in Francia come in Italia: la seconda è quella degli Architetti Esperti-Borghesi, che hanno il titolo di Esperti, attraverso l’acquisizione di un incarico di periti e la terza è quella degli Architetti che non appartengono né all’Accademia, né alla Comunità degli Esperti, e esercitano l’Architettura liberamente, come Arte libera.
Anche gli ingegneri, come ci informa l’Encyclopédie, sono di tre tipi: gli uni per la guerra; essi devono sapere tutto quanto concerne la costruzione, l’attacco e la difesa delle postazioni. I secondi per la marina; che sono versati in ciò che ha rapporto con la guerra e il servizio del mare;  i terzi per i ponti e strade, che sono eternamente occupati al perfezionamento delle grandi strade, alla costruzione dei ponti, all’abbellimento delle strade, alla conduzione e  iparazione dei canali et. Tutti questi uomini sono educati nelle scuole, da cui passano al loro servizio.
La Rivoluzione segna quella fondamentale svolta nella storia dell’ingegneria e del pensiero tecnico europeo che è legata alla fondazione dell’Ecole Polytechnique di Parigi. Creata nel 1795 al posto delle istituzioni dell’ancien régime, questa scuola è destinata alla formazione teorica degli allievi ingegneri che, dopo un biennio unitario, passano a specializzarsi nelle varie écoles spéciales. Sotto la guida di uomini come Monge, l’Ecole rivoluziona il vecchio insegnamento tecnico, fornendo una strumentazione scientifica e matematica valida per ogni singola disciplina.
Al suo interno nasce con L. M. H. Navier la moderna scienza delle costruzioni: Navier, entrato come allievo nel 1802, vi svolge dal 1821 al 1836, anno della sua morte, la sua attività didattica, prima come supplente e poi come titolare della cattedra di Meccanica presso la sezione des Ponts et Chaussées.
Le sue lezioni pubblicate nel 1826 diventeranno in breve tempo la Bibbia dell’ingegnere moderno, mentre l’Ecole stessa viene assunta a modello da tutte le successive scuole europee di ingegneria, che ne ricalcano fedelmente l’organizzazione didattica e l’impostazione teorica degli studi.
L’avvento di Napoleone al potere, contrastato vivacemente dai polytechniciens, trasforma l’Ecole in caserma e gli ingegneri in ufficiali, ma la loro fortuna professionale non ne risente minimamente: quel processo di espansione dell’ingegneria, che tende ad inglobare nel suo ambito anche i settori tradizionali dell’architettura, avviatosi nei primi decenni del ‘700, trova ora il suo compimento e si apre la felice stagione dell’ingegneria ottocentesca.
Per gli architetti al contrario la Rivoluzione segna l’inizio di un lungo periodo di gravissime difficoltà professionali e disciplinari. Gli anni della Francia repubblicana sono anni di enormi incertezze anche personali per questa categoria professionale troppo legata al passato regime.
La scomparsa della classe sociale ai cui si erano venute legando le sorti della loro attività, la diffidenza che li circonda, di cui le parole dell’Encyclopédie erano state un avvertimento, per l’alto costo delle loro opere e per il superfluo che le caratterizza, decretano la fine di quella figura di architetto, artista e genio, che si era mantenuta costante, pur con le dovute differenze, dal ‘400 in poi.
Gli sforzi compiuti dal pensiero neoclassico per adeguare l’Architettura alle mutate esigenze sociali, creando una sorta di architetto-tecnico, che fosse privo di tutti i difetti legati alla libertà creativa e che rispondesse ai requisiti di qualità ed economia del prodotto universalmente richiesti, portano ad una rivalutazione teorica della disciplina nell’ambito delle Belle Arti.
Ma, diversamente da quanto abbiamo fin qui registrato, alla carica ideale di tali proposte, agli sforzi di mettere l’Architettura al servizio dei governi repubblicani, e poi napoleonici, corrisponde il sospetto, la diffidenza generale e la abolizione degli ordinamenti e degli antichi privilegi da parte della Convenzione in Francia e dei governi rivoluzionari in Italia.
Nel 1795 viene riaperta la scuola della soppressa Académie, col nome di Ecole Spéciale d’Architecture e a distanza di pochi anni anche le accademie italiane riaprono i battenti, ma per tutto il periodo napoleonico la condizione degli architetti europei non registra grosse novità, perdurando lo stesso atteggiamento ostile dei tempi della repubblica.
La concezione «scientifica» della progettazione architettonica che si instaura nelle riaperte accademie avvicina in un modo nuovo gli architetti e gli ingegneri, una similitudine metodologica lega le ricerche neoclassiche a quelle che conduce Durand nell’Ecole Polytechnique: la ricerca comune di un metodo scientifico, appunto, per controllare il prodotto architettonico favorisce la nascita dell’ingegnere-architetto, figura professionale ufficialmente riconosciuta, che sopravvive fino agli inizi del ‘900.
Tuttavia ancora per tutta l’età della Restaurazione, architetti e ingegneri costituiscono due figure professionalmente distinte e separate: in Francia, l’Ecole Spéciale d’Architecture assume nel 1816 ii nome di Ecole Royale des Beaux-Arts e recupera, almeno sul piano teorico, l’antico potere, sotto la guida dell’onnipotente Quatremère de Quincy.
Gli architetti che escono dalla scuola conoscono i principi e sanno applicarli agli edifici che sono di loro invenzione. Ma non hanno nessun riconoscimento ufficiale dei loro studi, tranne il primo classificato nei concorsi finali, subendo così la concorrenza di chiunque voglia acquistare il titolo di architetto, liberalizzato durante la Rivoluzione.
Ugualmente gli ingegneri continuano a uscire dall’Ecole Polytechnique. I loro prodotti di questi anni, in Francia, in America e in Inghilterra, attirano l’interesse dei critici, anche contemporanei, per la novità formale di cui sono l’inconscia espressione, facendo nascere il mito dell’architettura degli ingegneri.
Da quel tempo in poi l’ingegnere invade uno dopo l’altro i campi dell’architetto. Con assoluta inconsapevolezza il costruttore, durante l’Ottocento, fece la parte del pioniere per conto dell’architetto… Egli infranse i formalismi rituali e artificiosi dell’architetto, bussò con forza alla porta della sua torre d’avorio.
In Italia invece la condizione di tale categoria professionale è per ora ancora essenzialmente arretrata, ci si limita infatti a mantenere faticosamente in vita le istituzioni di origine napoleonica: i corsi per ingegneri e architetti creati presso la Università di Pavia, la scuola di Napoli, quella di Applicazione di Roma rifondata da Pio VII nel 1817. Tra tutte, la scuola napoletana è quella che gode di maggiore vitalità e trova più ampi consensi da parte del sovrano restaurato, tanto che intorno agli anni venti dà i suoi frutti migliori con l’opera di uomini come Carlo Alfan de Rivera.
Gli architetti italiani vivono come i loro colleghi d’oltralpe una ultima stagione di relativa tranquillità teorica e professionale all’interno delle napoleoniche accademie di Belle Arti. La più totale indifferenza dei governi circonda, però, per tutta la Restaurazione il mondo artistico: gli statuti e i privilegi corporativi, ovunque sospesi al loro ritorno dai sovrani, vengono mantenuti in forma provvisoria generalmente fino al terzo decennio del secolo, quando un nuovo interesse per le «arti applicate» si risveglia soprattutto nel Lombardo-Veneto.
Dal 1830 in poi, inoltre, con la rottura del residuo equilibrio e internazionalismo accademico, il panorama italiano e europeo si frantuma in una serie di singole situazioni particolari: in Francia, sebbene l’organizzazione didattica dell’Ecole des Beaux-Arts permanga immutata fino al 1863, la scuola e il mondo artistico sono scossi dalla violenta polemica che per più di trent’anni vede contrapposti, dentro e fuori l’Ecole, goticisti e classicisti.
L’eclettismo modifica, anche se non direttamente, la figura dell’architetto, moltiplicandone le immagini professionali e culturali, anche se di fatto, oltre alla ormai sclerotizzata riflessione accademica sulla figura professionale, nessuno si pone direttamente tale tipo di problemi.
E l’effetto delle varie figure di architetto del passato a cui ci si rivolge, a trasformare il professionista ottocentesco, accentuando in maniera abnorme le diverse componenti tradizionali: è la pratica di certi principi attinti dalla natura… e secondo certe regole che divengono l’espressione del bisogno e del piacere che I nostri occhi e lo spirito nostro attendono dall’architetto, che consentono all’architetto accademico di essere tale, specchiandosi nell’Antichità.
Mentre sono la condizione etico-sociale e le qualità architettonico-ingegneresche della produzione del ‘400 inglese a servire da modello a Pugin per rispettare la razionalità richiesta al prodotto architettonico, gli architetti del Medioevo furono gli unici a trarre vantaggio appieno dalle caratteristiche dei materiali, trasformando la meccanica in uno degli aspetti della loro arte.
Ritorniamo così a parlare degli ingegneri e della loro «razionale» produzione. Ben 11 sono diventate intorno al 1830 le classi di ingegneri che si possono incontrare in Francia: accanto a quelle tradizionali degli ingegneri militari, idraulici, meccanici, navali e di Ponti e Strade, ci sono quelli delle miniere, i topografi e geografi, i geometri e geodeti, gli ingegneri civili che trattano dell’architettura civile, o cittadinesca, i quali se sono ristretti alle sole fabbriche dire si dovrebbero più propriamente architetti, e gli ingegneri-architetti, che professano ad un tempo alcun ramo dell’ingegneria e dell’architettura e quindi devono aver percorsi gli studi che alle due speciali professioni convengono.
L’ampia diffusione, anche nel campo dell’architettura civile, della attività degli ingegneri, che ben si addice a questa epoca eclettica tradizionalmente senza architettura degli architetti, fa del problema del rapporto tra le due professioni uno dei temi più dibattuti fino alla fine del secolo. Il problema in Italia si colora di particolare attualità e realtà dopo l’unità.
Con la estensione a tutti i capoluoghi del nuovo regno della Legge Casati (varata nel 1859 per le città di Milano e Torino) che prevede la creazione, in ognuno di questi, di Regie Scuole di Applicazione, a cui si accede dopo un biennio fisico-matematico, svolto presso l’università locale o presso la sezione fisico-matematica dell’Istituto Tecnico Superiore di Milano, e da cui vengono diplomati dopo tre anni ingegneri o ingegneri-architetti, a seconda della scuola scelta, e abilitati all’esercizio della professione, l’architetto scompare dalla scena professionale italiana.
Il successivo decreto del 1873, esautorando le superstiti accademie dall’insegnamento dell’Architettura, crea al loro posto gli Istituti di Belle Arti, abilitati a licenziare i professori di disegno architettonico che giuridicamente dovrebbero sostituire gli architetti, intesi come artisti, ma la cui posizione professionale resterà un mistero insoluto per più di venti anni.
La stessa legge Casati istituisce in tal modo anche le scuole superiori per gli ingegneri, denominate intorno agli anni ’70 Politecnici, che ricalcano ancora una volta il prototipo francese nell’impostazione degli studi, ispirandosi però anche a quello prussiano nel prevedere una scuola di applicazione per ogni arma che richieda una specializzazione tecnica.
La presenza della sezione di Architettura all’interno di tali organismi assume un valore puramente formale, il numero degli iscritti a tale sezione è infatti bassissimo, fino a diventare nullo nel tempo, e il livello degli studi degno della funzione di rifugio che svolge per gli allievi-ingegneri mancati.
Inoltre col r.d. del 1876 ii titolo di ingegnere o architetto può essere conferito soltanto dai Politecnici avallando di fatto lo strapotere di tali istituzioni, anche socialmente espressione delle classi dominanti, e la soggezione dei professori di disegno architettonico ai loro colleghi ingegneri civili.
L’Architettura diventa così uno dei tanti rami dell’ingegneria e le sue opere ingegneria sbagliata, essendo sufficiente aggiungere a questa quel tanto d’arte che basti per dare veste agli edifici. Scrive Boito in quegli anni, S’ha un bel dire che altro è ingegnere, altro è architetto; ma la distinzione in Italia o non si capisce, o in alcune provincie, la Lombardia per esempio, e il Piemonte, torna a favore del primo, anche per ciò che spetta ai monumenti ed agli edifici architettonici.
In Francia la forza dirompente degli ingegneri è ancora contenuta dalla resistenza delle strutture dell’Ecole des Beaux-Arts: gli sforzi di Viollet-le-Duc di modificarne l’organizzazione didattica, sfociati nella riforma del 1883, vengono rapidamente assorbiti, perdendo il loro carattere dirompente; soltanto la introduzione del diploma, avvenuta anche in Italia nel 1876, ha effetti destabilizzanti su tale istituzione, ma che si verificano solo un ventennio più tardi.
L’ingegnere però è dotato della stessa incrollabile fede nel potere della ragione che anima Viollet-le-Duc, e la Académie des Beaux-Arts, ossia la sezione artistica dell’Institut, è costretta nel 1877 a tentare un’ennesimo compromesso, teorico, bandendo addirittura un concorso sul tema dell’unione o separazione dell’ingegnere e dell’architetto.
Il vincitore, l’architetto Davioud, risponde in questi termini: L’accordo non diverrà mai reale, completo e fruttuoso, finché l’ingegnere, l’artista e lo scienziato non saranno fusi nella stessa persona. Ipotesi di difficile atuazione, se solo nel 1889, al primo Congresso Internazionale degli Architetti di Parigi, si dice: Parecchio tempo fa l’influenza dell’architetto decadde, e l’ingegnere, l’homme moderne par excellence, comincia a sostituirlo.
In Italia intanto gli ultimi fedeli seguaci dell’Architettura si raccolgono attorno ai soppressi organismi accademici, compreso lo stesso Boito che pure li aveva strenuamente combattuti, dando vita a quella lunga e sterile lotta, protrattasi per più di un quarantennio, contro i potentissimi Politecnici per ottenere il riconoscimento giuridico della professione e la riorganizzazione a livello universitario dell’insegnamento.
Le posizioni del dibattito sono sostanzialmente simili a quelle francesi: nel 1879 al Congresso Nazionale degli Ingegneri-Architetti si vagheggia ancora il superamento della dicotomia professionale tra le categorie auspicando la nascita dell’architetto, ingegnere e artista, mentre in quello di Venezia del 1887 si giunge finalmente alla proposta ufficiale di separare le due qualifiche, La cosa è egualmente voluta dagli ingegneri e dagli architetti: i primi per l’evidentissimo divano culturale, i secondi per non rinunciare alla prerogativa dl unici intenditori dell’estetica del costruire a loro tradizionalmente attribuita.
Il dibattito teorico sugli ingegneri e sulla loro architettura prosegue a livello internazionale ancora ai primi del nuovo secolo; nel 1901 Henry van de Velde scrive: la straordinaria bellezza insita nell’opera degli ingegneri si basa appunto sull’assenza di qualsiasi consapevolezza delle sue possibilità artistiche – appunto come i creatori delle cattedrali ignoravano lo splendore delle loro creazioni.
Anche se il parallelo tra i moderni ingegneri e gli artefici medievali è ormai tradizionale, la valenza positiva attribuita alla loro in consapevolezza fa parte di quelle qualità morali di innocenza e spontaneità che per tutto il primo ventennio del ‘900 vengono loro universalmente riconosciute.
La corruzione di cui sono portatori gli architetti, sostanzialmente malati di tradizione e di Storia, diventa il tema principale della passione struggente che provano nei confronti degli ingegneri gli stessi padri del cosiddetto Movimento Moderno.
Ma ormai, e questa citazione di van de Velde lo dice chiaramente, anche l’homme moderne par excellence e la sua architettura sono diventati oggetto storico per le nuove generazioni di architetti, né più né meno di tutto il patrimonio formale di cui tentano di liberarsi.
Scrive ancora Loos, nel 1906: davanti a Dio non ci sono architetti buoni o cattivi… E perciò domando: come mai qualunque architetto, buono o cattivo che sia, oltraggia Il lago? Il contadino non lo fa. E non lo fa neppure l’ingegnere che costruisce una ferrovia lungo la riva oppure col suo battello scava solchi profondi nello specchio limpido del lago.
Essi operano diversamente : inconsapevolezza, naturalità quasi animale, forza primitiva sono le doti comuni dell’ingegnere e del contadino.
Aggiunge Le Corbusier nel 1920: gli ingegneri sono sani e virili, attivi e utili, morali e gioiosi. Gli architetti sono disillusi e oziosi, chiacchieroni e malinconici. Il fatto è che presto non avranno più nulla da fare… Gli ingegneri provvedono al bisogno, ed essi costruiranno… Gli ingegneri fanno dell’architettura perché impiegano il calcolo derivato dalle leggi della natura, e le loro opere ci fanno sentire l’ARMONIA.
Armonia strettamente legata a quelle qualità morali ormai tradizionali, attribuite agli ingegneri e ai loro prodotti, impregnati della concretezza che deriva dal contatto creativo con l’industria.
Anche Gropius nel 1923 scrive: L’architetto ha sopravvalutato la propria utilità… l’ingegnere invece, non ostacolato da pregiudizi estetici e storici, è arrivato a forme chiare, organiche.
Tuttavia in questi anni Venti, il mondo professionale dell’architettura è in continuo fermento: Gropius fonda nel 1919 ii celebre Bauhaus, Le Corbusier rilancia a Parigi la tradizione di autonomia degli ateliers e F. Ll. Wright apre la comunità di Taliesin.
Gli anni Venti in Italia sono quelli in cui si compone finalmente, anche se parzialmente, la questione dell’insegnamento universitario dell’architettura: numerose proposte di legge (Coppino, Borselli, etc.) sono cadute, dalla creazione degli Istituti di Belle Arti in poi, per l’opposizione dei Politecnici e dei parlamentari-ingegneri ad ogni tentativo di regolamentare l’esercizio della professione.
Gli architetti intanto, ancora nel convegno del 1903 di Venezia, si combattono tra loro sulla sterile ed annosa polemica, nata con l’Unità d’Italia, della maggiore o minore artisticità del futuro architetto.
A quanti chiedono a gran voce al governo la creazione di un insegnamento di livello universitario, a cui si acceda dopo la licenza liceale e che integri educazione artistica e scientifica, superando la tradizionale ignoranza degli architetti o professori di disegno, si contrappongono i sostenitori della assoluta e incontrollabile libertà artistica degli architetti: né diplomi, né insegnamenti scientifici devono corromperne la purezza e la forza naturale.
Ma lo spinoso problema dell’insegnamento trova il maggior ostacolo alla sua risoluzione nell’altra fondamentale questione della istituzione degli albi professionali e quindi, non potendo iscriversi a tali albi i professori di disegno architettonico, ma solo gli ingegneri e gli architetti provenienti dai Politecnici pur non esistendo più figura professionale da molti anni -, della equiparazione dei titoli delle due categorie, provvedimento che a sua volta rende necessaria la riforma dell’insegnamento, chiudendo così il circolo.
Gli architetti si organizzano intanto in comitati e federazione per esercitare una maggiore pressione sul governo, finché nel 1914 l’on. Rosardi fa approvare con un autentico colpo di mano un decreto attuato dalla sola Accademia di Belle Arti di Roma, con cui si pone in funzione un Istituto Superiore di Architettura. Il governo è così posto dinanzi al fatto compiuto, ma lo strenuo boicottaggio dei Politecnici riesce a far annullare la scuola e a rimandarne il riconoscimento ufficiale in Parlamento al 1919.
Il 31 ottobre, infatti, il decreto n. 2593 sancisce l’istituzione della Scuola Superiore di Architettura di Roma, affiliata all’Università, e l’abolizione delle Scuole di Architettura presso i Politecnici. Le altre scuole superiori vengono istituite nei decenni sul modello romano, presso le accademie di belle arti: a Venezia il 2 dicembre 1926, a Torino il 19 luglio 1929 e a Napoli e Firenze il 26 ottobre 1933.
Ma queste scuole, per le quali si erano battuti disperatamente gli architetti delle generazioni precedenti, risultano oramai un po’ anacronistiche: come negli altri paesi europei anche in Italia la cultura architettonica si diffonde attraverso canali diversi da quelli ufficiali, riviste, pubblicazioni, concorsi, ateliers privati, le prime storie di architettura, né l’antiquato sistema didattico adottato risolve o affronta quei problemi disciplinari e di qualificazione professionale per cui le scuole erano state, almeno teoricamente, create.
Gli ingegneri italiani dal canto loro, sempre più rafforzati socialmente e professionalmente dal crescente sviluppo tecnologico, anche se hanno perso un po’ lo smalto della loro virile e sana attività, continuano a svolgere, come ingegneri edili, un ruolo determinante nella storia delle nostre città.
Fedelmente legati al modello ottocentesco di matrice parigina, i Politecnici, ancora organizzati sul principio del biennio unitario e del triennio di studi specialistici, si riorganizzano in questi anni in base al r.d. del 1923 n. 2102 che, dando un nuovo ordinamento all’istruzione superiore, stabilisce che gli insegnamenti siano coordinati in Facoltà e Scuole e che queste ultime siano quelle di Farmacia, Ingegneria e Architettura, autorizzando tali organismi a ristrutturare i propri statuti e le modalità e materie di insegnamento.
Così senza generalmente mutare troppo l’ordinamento degli studi, si introduce la fondamentale novità della sostituzione dei due diplomi precedentemente conferiti, di ingegnere e architetto, con ben quattro titoli di laurea, articolati sulle quattro sezioni speciali, di cui quella Industriale suddivisa in tre sottosezioni.
Ma già nel 1926 col r.d. del 7 ottobre, n. 1977 si riordinano nuovamente gli studi superiori di ingegneria, modificando gli statuti delle scuole e istituendo un esame di licenza dopo il corso biennale per accertare il grado di maturità e l’idoneità degli studenti, prima dell’ingresso al triennio specialistico, nonché l’esame di stato per l’abilitazione professionale.
Di fatto, l’ingegneria, ancora per tutta l’epoca compresa tra le due guerre, aveva occupato ormai tutta l’area delle iniziative valide, conformi alla crescente industrializzazione.
La architettura era relegata al restauro e agli interventi au-lici 59.Inoltre, con la creazione delle scuole speciali per l’architettura, la storia professionale delle due discipline e del loro insegnamento scorre parallela fino allo scoppio della guerra, finendo col perdere nell’autonomia, che l’ha fin qui caratterizzata, rispetto al sistema universitario, in cui viene fatta confluire nel 1935.
In tale data, le scuole di Architettura e di Ingegneria subiscono la loro ultima trasformazione istituzionale, diventando facoltà universitarie in base all’articolo unico della legge n. 1100 del 13 giugno, che autorizza il ministro competente a disporre entro tre anni la soppressione, l’istituzione o la fusione di facoltà, scuole e insegnamenti universitari, nonché l’aggregazione dl regi istituti superiori alle regie università 6o.
Tutti gli istituti subiscono tale sorte, tranne quello milanese e il torinese, i quali riescono a conservare la loro autonomia, facendo riconoscere la loro diversità amministrativa, e a conservare il titolo di Politecnici.
L’istituto milanese, infatti, riesce a dimostrare di essere già formato da due facoltà dal 1933, anno in cui era stata approvata la costituzione della facoltà di Architettura; similmente il potentissimo Politecnico torinese si rifà alla aggregazione ottenuta nel 1935 dell’Istituto Superiore di Architettura per non rientrare nei casi di legge.
La laurea in Ingegneria in questi anni contempla sei sezioni: di ingegneria civile (con le sottosezioni edile, idraulica, e trasporti), di ingegneria industriale (con le sottosezioni di meccanica e elettrotecnica), di ingegneria navale e meccanica,
di ingegneria chimica, di ingegneria aeronautica e di ingegneria mineraria.
La laurea in Architettura invece, pur essendo similmente articolata in biennio e triennio, non prevede né sezioni, né specializzazioni.
Finisce così con tale aggregazione, alla vigilia della guerra, la storia delle trasformazioni dell’insegnamento e della professione nelle loro reciproche interrelazioni, sia per gli architetti che per gli ingegneri.
L’ingresso nel meccanismo universitario italiano è fatale infatti per quella certa mobilità che tutto sommato ha caratterizzato l’esperimento nazionale di Ecole Polytechnique dalla sua nascita in poi, così come lo è per le tanto attese scuole di Architettura.
Siamo giunti in tal modo al dopoguerra e agli anni della ricostruzione, in cui per più di un ventennio, costruiscono e si arricchiscono tutti: geometri, ingegneri civili, architetti.
Si modifica certo la loro figura professionale a contatto con questa nuova committenza, così come lo stesso ruolo del settore edile e il suo rapporto con le opere pubbliche: discipline e professionalità usciranno distrutti dall’euforia del boom.
Nell’ondata travolgente delle offerte del mercato, architetti e ingegneri ampliano il loro ambito disciplinare, lasciando immobile quello universitario: gli studi d’ingegneria ricevono però un’ulteriore riorganizzazione col D.P.R. del 31 gennaio 1960 n. 53.
Partendo dalla premessa, ormai d’obbligo dagli inizi dell’800 in poi, che tali studi siano organizzati in un biennio propedeutico seguito da un triennio specialistico, ci si limita ad aumentare il numero delle sezioni a nove”, prendendo atto dell’ampliarsi dell’ambito disciplinare e fissando, come per tutte le altre facoltà, gli insegnamenti obbligatori a livello nazionale e della singola facoltà, e quelli facoltativi.
Anche la facoltà di Architettura conserva il vecchio impianto da scuola speciale, ma come nella scuola, il triennio non è diviso in sezioni, né dà diritto a specializzazioni, restando delegata al biennio solo la funzione burocratica di selezione e di filtro. Globalmente però l’organizzazione degli studi e la scelta delle materie è sempre ancora ispirata all’antico sogno ottocentesco dell’architetto, artista, letterato, ingegnere e scienziato; impresa affascinante, ma ciclopica, soprattutto per le strutture universitarie italiane.
All’ondata del ’68 segue quel fermento culturale e politico che tutti conosciamo, e quel silenzio istituzionale che ci è altrettanto drammaticamente noto. Se si escludono i frettolosi decreti destinati alla sistemazione del personale universitario, o alla liberalizzazione degli accessi all’università e delle materie, dobbiamo concludere che l’ultimo atto, l’ultima trasformazione del rapporto professione-insegnamento è quello del 1935, prima che i problemi disciplinari si perdessero nel magma di quelli dell’università italiana.
E concludiamo, dopo questo elenco di fatti legislativi ed istituzionali, con un cenno alla sostanza pratica del problema. Da un lato, la facoltà di Architettura laurea un solo tipo di professionista, dall’altro, quella di ingegneria laurea parecchi tipi di ingenere, tant’è che può considerarsi come l’aggregazione di altrettante facoltà universitarie.
Ora, relativamente al binomio che costituisce il tema del presente articolo vanno raffrontate quell’unica figura di architetto, con tutti i suoi ben noti limiti, con quell’unica figura di ingegnere laureato nella sezione civile, sottosezione edile, i cui imiti sono altrettanto noti e simmetrici.
Per tale simmetria, e in presenza della situazione che sopra abbiamo definita magmatica dell’intera università, perché non pensare, sia pure come provvedimento di base, all’unificazione delle scuole, che in pratica producono la stessa figura professionale?
Non siamo così ingenui da non capire perché ciò non avvenga, ma d’altra parte quanto più ovvia è tale unificazione, tanto più è utopistica e priva di credito qualunque proposta di riforma delle due facoltà che non tenga preliminarmente conto di essa.
tratto dal numero 47