La crisi del prodotto nel “design del prodotto”

VINCENZO CRISTALLO
1. Da alcuni anni viviamo in una sorta di limbo disciplinare quando ci riferiamo al design nella sua definizione di “design del prodotto”. L’incertezza è ancora più evidente se consideriamo l’espressione “progettare oggetti prodotti industrialmente”, laddove il termine oggetto appare privo di autonomia e del tutto sottomesso a un fine industriale.
La perdita di senso che le due espressioni mostrano sono esempi concreti di un cambiamento che riguarda la cultura materiale del prodotto contemporaneo che si è separata dal “disegno industriale” per aver valicato la modernità di impronta ideologica.
Una cultura materiale che si è paradossalmente allontanata dalla peculiarità della “dimensione materiale degli oggetti” per accedere alla “metafora della materialità negli oggetti” che fissa con minori vincoli la relazione che un oggetto ha con il suo compito. Ovverossia il compito assegnato a un oggetto da un bisogno e reso visibile oltre che possibile da un progetto.

Abitualmente quando ci riferiamo all’entità materiale degli oggetti, il richiamo al tema della forma e della sua estetica oltre che naturale dovrebbe essere necessario. Ma la trasformazione di cui parliamo è così solida che parole come “forma” ed “estetica” non trovano sufficiente spazio nella progettazione e nella critica dei prodotti industriali per il timore di apparire come categorie imprecise nel poter rappresentare il valore complesso degli artefatti nel quadro delle connessioni che intercorrono tra merce, consumo e consumatori.
Ed è proprio questa vincolata relazione, che cambia al variare dei trasformismi sociali ed economici, a rendere più che ondivaga la definizione di “product design” quando attraversa i campi della formazione e delle professioni. Ma è nella didattica che si genera il maggior numero di danni che hanno a che fare con la lingua del progetto, perché convinti sono non pochi di utilizzare con “product design” un contenitore vuoto non solo del suo significato storico ma di un vero significato. Per questi, la parola “design”, per auto- determinarsi, non ha bisogno di un “prodotto”, tanto meno se “finito”, semmai di un “dispositivo”, meglio se “reversibile”.
Descrivere il fenomeno del design del prodotto nel suo presunto valore assoluto è certamente un compito non facile data la sua articolazione e il confronto con una situazione in continua evoluzione. Si può (eventualmente, ndr) procedere alla identificazione del product design partendo dall’analisi degli elementi che influiscono sull’attività di progetto e, di fatto, ne compongono la complessità […] nello studio del rapporto tra attività di design, industria, mercato e società1.
Ecco perché ci siamo addestrati, per determinarne i modi e campi di azione, ad affiancare il termine “design” con dei sostantivi che ne determinano meglio le competenze (furniture, fashion, car, oppure strategico, dei servizi, ecc.)2 e a sviluppare esplorazioni necessariamente oblique sulle modifiche in corso nella disciplina per coglierne con maggiore lucidità gli sviluppi.
Oltre dieci fa Ezio Manzini ha raccontato un design atraversato da una pluralità di fenomeni che ne hanno “variato il senso e la natura profonda”. Il suo campo d’azione si è per questo esteso verso altri saperi, altri bisogni, facendo affiorare nuove domande di progetto, nuovi strumenti con cui affrontarle e pertanto nuove figure di progettisti. In conseguenza di ciò, continua Manzini, il design ha mutato le sue relazioni con gli altri attori dei sistemi produttivi e di consumo, rendendo evidenti le crisi e le contraddizioni delle conoscenze tradizionali.
E quella che si può racchiudere in una attività mirante a configurare la dimensione estetica e tecnica di un prodotto si rappresenta piuttosto in una grandezza complessa dalla quale scaturiscono terreni di progetto emergenti a fronte di una domanda multiforme di prodotti3. Tomàs Maldonado, diversi anni prima, e siamo nel 19614, attribuisce al design una “ragione d’insieme” poiché dà “forma al prodotto” “integrando e coordinando” tutto quanto partecipa alla realizzazione di questa forma.
Una regola nuova che secondo Gui Bonsiepe equivale a un “discorso progettuale”. Enzo Frateili, nel 1969, molto più sinteticamente vede nel design la convergenza di contenuti morfologici, tecnologici e sociologici5; e Gillo Dorfles, nel 1972, con l’espressione total design, ne tratteggia il nucleo come centro di saperi.
Tornando a Maldonado, la sua definizione di un design connotato tecnicamente ma che non può più prescindere dall’evoluzione del sistema culturale, ha avuto l’abilità di perfezionare il profilo dell’attività dei designer, diventato ora un “integratore di competenze”. Un “facilitatore di processo”, secondo Manzini. La fortunata “formula” di Maldonado – adottata dalla Icsid (International Council of Societies of Industrial designers), un organismo internazionale fondato nel 1957 per raggruppare le associazioni coinvolte a diverso titolo nel campo dell’industrial design – ha avuto in chiave critica una lunga vita fino a quanto non è stata aggiornata a cura della stessa Icsid, nel 2004, per sostenere che il design è un’attività creativa il cui scopo è di stabilire le caratteristiche complesse di oggetti, processi, servizi e dei loro sistemi considerando il loro ciclo di vita. Il design è inoltre un fattore centrale di umanizzazione delle tecnologie innovative e fattore cruciale di sviluppo culturale ed economico6.
A questo complesso processo definitorio hanno anche concorso nel tempo le valutazioni dell’economista Theodore Levitt sul “prodotto ampliato” che vede crescere il significato e il valore dell’oggetto nel rapporto con il soggetto acquirente7; e quelle dei sociologi Giampaolo Fabris e Vanni Codeluppi: il primo attribuisce alla formamerce un valore di “medium comunicativo”, il secondo assegna ai beni di consumo la possibilità di interpretare le frammentate identità dei consumatori postindustriali8.
Da quando il prodotto è stato configurato nel binomio forma-merce, oltretutto smaterializzandosi, il tema dei “servizi” (il Design dei servizi) – più comunemente indicato come il progetto di una relazione che vede l’oggetto come congiunzione di un bene materiale e della sua prestazione all’interno di uno spazio esperienziale – ha superato progressivamente gli oggetti in proprietà, tanto che con il tempo il valore del prodotto è diventato l’informazione, la conoscenza, il rendimento e l’esperienza del bene più che il bene stesso per poi completarsi nella dimensione quasi totalitaria del “Design strategico”9.
Una generale complessità, per dirla come Edgar Morin, che colloca il design, in quanto “risposta multipla”, nell’area dell’“entropia del valore”10. Per Andrea Branzi il design, valutando il venir meno della stabilità e della forza delle teorie di Nikolaus Pevsner e Sigfried Giedion sulla composizione tecnico-meccanica degli oggetti, deve interpretare senza tesi precostituite la nuova modernità (ora debole), non creando più singoli oggetti, ma piuttosto strategie dinamiche d’innovazione. Dal product design si sta passando al buzz design, dal gesto unico allo sciame di progetti prodotti da un sistema diffuso11.
Diffusa è pertanto, e si comprendono i perché, una crisi ontologica del design. Un disagio visibile che riguarda i contenuti e i modi di manifestarli nelle more degli insegnamenti. Ma questa crisi non si supera con il cesello di un successivo sostantivo da incastonare alla parola design ne tantomeno abusando dei termini “servizio” e “strategia” usati talvolta come demagogici strumenti per garantirsi la veggenza per soluzioni di ogni tipo anche se solo annunciate.
Una eccessiva adesione in campo formativo a un modello del design di impronta strategica, possiede il rischio, ritiene Vanni Pasca, di abbandonare progressivamente il terreno del progetto per concentrarsi su tecniche di tipo organizzativo-manageriali con un’ottica ‘operazionista’, nel senso che il progetto viene ridotto all’elenco delle operazioni che sarebbe necessario mettere in atto per raggiungere l’obiettivo fissato.
Il rischio è quello che si formi una generazione di nuovi designer con qualche esperienza nella mappatura dei dati e nell’organizzazione delle operazioni in diagrammi di flusso, ma con la tendenza a non raggiungere mai il momento progettuale […] privi delle competenze necessarie per agire come designer all’interno di gruppi di specialisti, o come registi di gruppi di competenze di vario tipo.
Questo sempre nell’ottica che l’obiettivo del design sia quello di elaborare progetti basati sulla complessità che il termine implica: complessità capace di tenere insieme […] il rapporto tra etica ed estetica12. E se l’etica ha in questi anni avuto modo di essere adottata in diversi campi del progetto in nome soprattutto di posizioni ambientaliste, l’estetica nel progetto di design ha difficoltà a presiedere il progetto anche solo come valore critico. È sempre meno avvertibile come esperienza di libertà e di fruizione. Di emancipazione. Di progetto, appunto.
Il premio Nobel per la letteratura Josif Brodskij ha attribuito il crollo dei Paesi Socialisti proprio al “collasso estetico” di quelle società, prodotto da un mondo privo di qualità formali, che aveva avuto come effetto indotto un “vasto rifiuto politico”; diceva Brodskij che (come nell’infanzia) la categoria del “brutto” è strettamente legata al concetto dio “cattivo”: la categoria estetica coincide largamente con la categoria etica13.
La parola estetica è certamente sinonimo di una complessità culturale che conduce negli ambienti della filosofia – e forse da questa consapevolezza nascono molte delle incertezze sul suo utilizzo – ma non per questo, per non rischiare il confronto, deve essere una parola derelitta per il progetto.
2. Tornando al ruolo delle parole, il filosofo e linguista inglese John L. Austin (1911-1960), sosteneva che ogni  espressione linguistica è in realtà un’azione pratica, e le parole, poiché utensili del linguaggio sono in grado di fare le “cose”14. Se allora delle parole avviliamo il patrimonio linguistico non diamo loro il modo di produrre correttamente queste “cose”. Le parole degradate, inoltre, alterano i valori democratici e sociali che hanno presieduto la loro formazione.
Se le parole diventano poi fragili sono più corruttibili. Se sono deboli tanto più fiaccano il pensiero e il suo relativo linguaggio. Di conseguenza fanno “cose” sbagliate. Nel caso del design, gli errori sono emblematicamente visibili nell’ubiquità terminologica che ha conquistato (e subito) come parola, nel suo essere diventata porosa in nome di una estensione disciplinare che aumenta inevitabilmente con l’estendersi dei territori del progetto.
Non a caso la sua versione leit-motiv stigmatizza la teoria integrale del progetto dell’artificiale e la sua ampiezza si impone come la metafora di un unico ed enorme produttore globale di tutti gli artefatti materiali e immateriali. Ma c’è qualcosa di più. Ed è più pervasiva. Il deterioramento della parola, il suo parziale cortocircuito, è causato da una ragione più cruciale: la sua inclinazione postmodernista15.
Se il “disegno industriale” delle origini è coinciso con il principio della modernità, la sua successiva declinazione in “design”, nel mostrarsi inclusiva oltre certe pratiche, si è presentata come una esauriente figura del postmoderno. Postmoderno in quanto dissoluzione, frammentazione e contaminazione dei generi. Polisemia di contenuti.
Consumata la possibilità di comprendere il divenire delle trasformazioni del progetto contemporaneo – perché mutate erano le condizioni che ne sostenevano i precetti ideologici – al disegno industriale si è sostituito il design come insieme di attività capaci di contenere il possibile, abilitando chiunque se ne rendesse artefice secondo un procedimento tipicamente postmodernista che si basa sul- la mobilità delle esperienze, delle competenze e dei risultati.
Solo in questo modo si poteva superare la memorabile divisione tra quanto era ed è prodotto industrialmente e tra quanto non lo era e non lo è nel nostro perimetro disciplinare: storico contraddittorio che ha attraversato la disciplina rispetto alle istanze provenienti dalla cultura dottrinale del progetto industriale16.
Se poi crediamo che una delle lezioni più spinte del postmo- derno sia il populismo con il suo “disordine pop”17 – ad esempio lo scambio tra fatti e interpretazioni – nel nostro campo questo disordine si esibisce nell’affermazione che tutto è progetto. Ma ciò, per quanto crediamo sia ragione- volmente vero, non equivale a dire che tutto quanto si pro- getta è design.
La declinazione postmoderna del design ne coglie anche il disorientamento culturale nel trovarsi a essere del progetto contemporaneo simmetricamente sinonimo di crisi e di opportunità. Una condizione che ha posto il de- sign e il suo sistema al centro di una “crisi epistemologica” favorendone tuttavia un processo reattivo nei confronti della realtà e una positiva osmosi nei confronti dei fenomeni più vitali ai quali si è accostato: soprattutto le tecnologie e l’arte18.
Ad esempio nella complessità dei cambiamenti che comprendono le trasformazioni dei nostri luoghi abitati, il design si è assunto il compito, con maggiore coraggio anche rispetto all’architettura, di interpretarli e di favorirli laddove queste richieste si sono affermate impreviste, spontanee e talvolta improprie. È evidente, pertanto, che come disciplina che progetta l’ambiente artificiale, il design è costantemente esposto al flusso e combinato di spazi, merci, prodotti, servizi e informazioni.
È evidente che per reagire a questo flusso dinamico deve configurarsi come un sistema adattabile e in grado di integrare competenze. È evidente, quindi, che (il design è diventato, ndr) l’area del progetto che muta con maggiore velocità i territori su cui agire e gli strumenti da utilizzare19 e che, per questa sua capacità di adattamento, seppure con esiti incerti, segue lo sviluppo di “attività progettanti”, accettandone anche il non facile compito di misurarsi con la possibilità di restituirle in modelli formativi.
3. In un articolo comparso su Domus nel settembre del 1998 a cura del centro studi della Domus Accademy, il “New Industriale Design” è fissato come il frutto dei cambiamenti in corso nel rapporto tra design e sistema industriale a partire dal fatto che l’industria ha raggiunto la sua massima espansione annettendo anche i processi produttivi non industriali. Vale a dire che la fabbrica ha invaso il sociale ma, inevitabilmente, la società tutta, come realtà problematica20, ha invaso il “territorio produttivo industriale”.
Azzerate le distanze, l’industriale coincide con il non industriale liberando la cultura imprenditoriale dal recinto retorico della fabbrica per assimilarla a una cultura aperta che persegue una “economia sociale” basata sulla capacità individuale dei singoli (ma anche di piccoli gruppi) di “inventare” lavoro attraverso micro-imprese produttrici di beni. I nuovi inventori sono ora e contemporaneamente autonomi ricercatori, progettisti e autoproduttori. Viene insomma raccontata l’economia del self brand – di attività spontanee che realizzano nuovi imprenditori in rete con altri, attraverso le riforme tecniche della comunicazione – che svuota il termine “industriale” del significato che sempre ha avuto nell’accompagnare la definizione di design.
Il fenomeno appena descritto è oggi indicato come “movimento Makers”, vale a dire chi riconduce le azioni dei progetti nel farsi prodotti a una cultura della sostenibilità politica e ambientale, e che ambisce a produzioni e distribuzioni composte da filiere corte fondate su modelli on demand, capaci di soddisfare domande di manufatti anche personalizzati come opposizione all’omologazione delle merci.
I Makers, che a diverso titolo attraversano le culture dell’open source e dell’open design – suggerendo l’idea di un personaggio-progettista anarcoide che supera la dimensione romantica e individualista del classico designer “piegato al sistema” – sono diventati il simbolo di una società progettante (nella quale, ndr) resta (comunque, ndr) aperto il problema, tutto disciplinare, di un controllo del rapporto tra la dimensione antropologica dell’oggetto e la definizione del suo aspetto formale, tra etica ed estetica21.
Ciononostante, pur considerando straordinaria e dirompente la portata culturale di un fenomeno che prelude a una elevata gemmazione di attività analoghe, dichiarare come si fa da più parti che il movimentismo Maker rappresenta il nuovo equilibrio nel rapporto sostenibile tra domanda e offerta nel mondo degli artefatti, è improprio poiché non si è per nulla conclusa la stagione dell’industria manifatturiera nella sua tradizionale missione.
Se esiste, questa trasformazione non ha certamente investito i cosiddetti distretti produttivi, non solo dei paesi più avanzati (Giappone, Germania, USA), quanto piuttosto in quei paesi dell’est europeo che hanno accolto di quei paesi avanzati le delocalizzazioni industriali. E poi ancora la Corea fino ai giganti di Cina e India, i cui mercati sono vere praterie per nuove cose22. Vale a dire che città, case, uffici, edifici pubblici (biblioteche, scuole, università, ospedali, tribunali) non possono non popolarsi di artefatti nei quali concentrare anche indispensabili prestazioni intelligenti.
È necessario, pertanto, non cadere nell’inganno che chi realizza macchine “casalinghe” per autoprodursi oggetti, abbia trovato la soluzione per evitare il flusso delle merci. Fatti salvi rari talenti (si veda il recente esempio di un telaio per auto, del tutto inscatolato) molti corrono il rischio d’illudersi di commercializzare nella rete per poi trovarsi dietro a una “bancarella” […] che non può sostituirsi ai processi di produzione industriali per il soddisfacimento delle necessità di molti23. Vi è un’ovvia complementarietà tra produzione industriale e l’autoproduzione dei Makers, vi sono spazi di assoluta integrazione ma vi sono anche importanti differenze che riflettono la diversità dei rispettivi obiettivi.
Per questo motivo quale scuola può allora immaginare di non insegnare l’autonomia del progetto diversa da quella del prodotto? Quale scuola può non spingere sulla necessità che il prodotto sia ancora un oggetto industriale su cui investire nuove risorse? E quale scuola può ancora relegare l’estetica al solo ruolo di cornice storica evitandone l’esplicito accesso nella progettazione delle “cose” contemporanee?
Viceversa si assiste alla sostituzione dell’estetica come valore del bello in favore dell’”estetica della sperimentazione” come valore del dubbio, della precarietà del risultato. Si potrebbe anche dire “estetica della ricerca” – se volessimo sottrarla a un possibile eccesso di negatività di cui le stampanti 3D sono spesso involontarie prove – che si genera automaticamente con il procedere dell’esperienza che dal progetto conduce all’oggetto attraversando il novero di libere prototipazioni. Una esperienza che non prevede necessariamente criteri condivisi di qualità e di responsabilità. Se non marginalmente.
Per Victor Papanek, ed è una affermazione che risale agli anni settanta, la progettazione è il più potente mezzo attraverso il quale l’uomo plasma il suo ambiente naturale e realizza i suoi strumenti e questo aspetto richiede una grande responsabilità morale da parte di chi ritiene di essere un progettista – e anche per chi ha il compito di insegnare il mestiere del progettista – perché sa di utilizzare un mezzo di assoluta interdisciplinarietà per produrre innovazione ca- pace di rispondere ai veri bisogni dell’uomo24.
Maldonado, in un lontano 1976, riferendosi allo sviluppo e al ruolo delle “tecnologie emergenti” nella società nel suo complesso – che conducono al progressivo assottigliarsi di una materialità del mondo nel quale gli oggetti “pesanti” sono via via sostituiti da processi e servizi sempre più immateriali – osserva che il design avrà un compito di primo piano nella progettazione dei nuovi prodotti cui queste tecnologie hanno dato (e continuano a dare) origine.
Ma ciò non deve far dimenticare che l’area d’intervento del disegno industriale rimane quella attinente al processo formativo degli oggetti come elementi strutturali dell’ambiente umano. Certo, gli oggetti partecipano, e sempre di più, alla dinamica dell’universo comunicativo […] tuttavia ciò non toglie che una parte considerevole dell’attività del disegnatore industriale rimanga fortemente ancorata al compito di ‘dare forma’ a oggetti materiali che, piaccia o meno, continuano a stabilire un rapporto assai tradizionale con gli utenti, ossia un rapporto che si esplica, appunto, tramite la natura materialmente tangibile degli oggetti25.
In una conferenza tenuta a Berlino nel 1980, Giulio Carlo Argan – la cui assoluta notorietà nel campo dell’arte non è stata sufficiente a valorizzarne al meglio i suoi contributi sulla fenomenologia del design – si esprime riguardo alla “crisi del design” (è proprio questo il titolo del suo in- tervento) considerando che è in crisi lo statuto del “product design” e l’idea della gute Form, a partire dal fatto che si tratta di una difficoltà che riguarda tutta la sfera della progettazione e delle metodologie relative […] La crisi (pertanto, ndr) si manifesta come una crescente divergenza tra programmazione e progettazione: la programmazione, come pre-ordinazione calcolata e quasi meccanica tende non più a precedere la progettazione, ma a sostituirla come ricerca di soluzioni dialettiche alle contraddizioni che si determinano di volta in volta sulla società26.
Si tratta di un raffronto di assoluto interesse poiché, ritiene Argan, la progettazione è un processo integrato in una concezione dello sviluppo della società come un “divenire storico”, mentre la programmazione presenta “il superamento della storia come principio d’ordine dell’esistenza sociale”. La morale stessa – è un esempio di Argan – è un ordine progettuale che l’uomo dà alla propria esistenza.
La programmazione, al contrario, prosegue Argan, per sua natura tende a destinare le decisioni al “potere” e non ai singoli individui e, poiché tende alla repressione anche violenta di ogni insorgente contraddizione al sistema, nega alla società ogni forma di esistenza storica27. Dunque, se la storia come schema del vivere progettato, rappresenta la struttura fondamentale della cultura occidentale, la “crisi del design” è quantomeno il sintomo di una crisi diffusa di tale cultura.
Si spiega così, secondo Argan, come il design rappresenti un processo finalizzato non solo della società, ma di tutta la realtà: è il design che promuove una cosa al grado di oggetto e pone l’oggetto come perfettibile e cioè partecipe del finalismo dell’esistenza umana. La crisi in atto è dunque una crisi globale: il mondo moderno tende a cessare di essere un mondo di oggetti e soggetti, di cose pensate e persone pensanti. Il mondo di domani potrebbe non essere più un mondo di progettisti, ma un mondo di programmisti28. Questo e quanto vorremmo che si evitasse.


1.F. Trabucco, Il design del prodotto, in P. Bertola, E. Manzi- ni (a cura di), Design Multiverso. Appunti di una fenomenologia del design, Edizioni Poli.Design, Milano 2004, p. 243.
2. A. Bassi, Design. Progettare gli oggetti quotidiani, Il Mulino, Bologna 2013, p. 14.
3. La complessità della nostra società richiede, afferma Manzini, di essere affrontata da tutti operando per “progetti”, ovvero con azioni organizzate e strategiche. Pertanto “in questa arena in cui tutti sono o dovrebbero essere progettisti, i designer si collocano come ‘specialisti del progetto’ che agiscono all’interno di una rete più complessa di attori/interlocutori […] specialisti del progetto che usano le loro specifiche capacità e competenze per ‘fare succedere eventi orientati ad un risultato’”, E. Manzini, Il design in mondo fluido, in P. Bertola, E. Manzini (a cura di), cit., p. 20.
4.Tale definizione fu presentata da Maldonado al congresso Icsid di Venezia del 1961.
5.Cfr. E. Frateili, Design e civiltà della macchina, Editalia, Roma 1969.
6.“Design is a creative activity whose aim is to establish the multifaceted qualities of objects, processes, services and their systems in whole life-cycle. Therefore design is the central factor of innovative humanisation of technologies and the crucial factor of cultural and economic exchange”, Icsid, 27 agosto 2004.
7. T. Levitt, Marketing imagination, Sperling & Kupfer, Milano
1990.
8. V. Codeluppi, Manuale di sociologia dei consumi, Sperling & Kupfer, Milano 2002; G. Fabris, Nuove identità, nuovi consumi, Il sole 24 ORE, Milano 2006; G. Fabris, Il nuovo consumatore verso il postmoderno, Franco Angeli, Milano 2006.
9. F. Celaschi, Il design della forma merce, Il sole 24 ORE-Poli. Design, Milano 2000. Si veda anche il successivo F. Celaschi, A. Deserti, Design e innovazione. Strumenti e pratiche della ricerca applicata, Carocci, Milano 2007.
10. E. Morin, Le vie della complessità, in G. Bocchi, M. Ceruti
(a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985.
11.A. Branzi (a cura di), Capire il design, Giunti, Milano 2007, p. 278.
12. V. Pasca, Il design nel futuro, Treccani.it, Enciclopedia italiana, 2010, www.treccani.it/enciclopedia.
13. Citato in A. Branzi, Una generazione esagerata. Dai radical italiani alla crisi della globalizzazione, Baldini&Castoldi, Milano 2014, p.58.
14. J.A. Langshaw, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987. Edizione italiana a cura di C. Penco e M. Sbisà.
15. V. Cristallo, La bottiglia, il tappo e il cavatappi, in F. Dal Falco (a cura di), Lezioni di Design, Rdesignpress, Roma 2013, pp. 285.
16.  Ibidem.
17.  Su questi argomenti si veda M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, G. Laterza & figli, Roma-Bari 2012.
18. Argomenti citati in F. La Rocca (a cura di), Scritti presocratici. Andrea Branzi: visioni del progetto di design 1972|2009, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 62-64. Si veda anche A. Branzi, Cose e case, in Pomeriggi alla media industria. Design e seconda modernità, idea Books, Milano 1988.
19. V. Cristallo, Un si, un no e un tuttavia per il design. La crisi del progetto è per fortuna variabile, in S. Baiani, V. Cristallo, S. Santangelo (a cura di), Lectures 1, Rdesignpress, Roma 2013, pp. 94.
20. Domus Accademy Research Center, Il new Industrial design, in «Domus», n. 807, settembre 1998. Il centro di ricerca in quegli anni era composto da Andrea Branzi, Emilio Genovese, Marco Susani, Mario Trimarchi, Roberto Tagliabue.
21. R. Carullo, Beni comuni e design: grammatiche delle moltitudini, in “diid” (disegno industriale-industrial design), n. 57, “design open source”, 2014, Rdesignpress, p. 16.
22. T. Paris, Dispute vere o presunte, in “diid”, n 57, cit., p. 5.
23. Ibidem.
24 . V. Papanek, Progettare per un mondo reale, Mondadori, Milano 1973. Titolo originale Design for the Reul World, 1970.
25. T. Maldonado, Disegno industriale: un riesame, Feltrinelli, Milano 1995 (terza edizione), p. 75. Si tratta dell’edizione del 1991 riveduta e ampliata rispetto alla prima stampa del libro che risale al 1976.
26. G. Carlo Argan (a cura di C. Gamba), Progetto e Oggetto, edizioni Medusa, Milano 2003, p. 202
27.Ibidem.
28. Ibidem.