De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità

OLGA SCOTTO DI VETTIMO
Le contraddizioni della modernità, da cui dipendono inevitabilmente anche le difficili e spesso non inequivocabili definizioni del termine Postmodern, sembrano già tutte insite nel saggio Il pittore della vita moderna di Charles Baudelaire del 1863, dove il poeta francese definisce la modernità come il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile1.

Queste diverse polarità individuate da Baudelaire confluiscono e animano anche i territori che delimitano l’estetica del modernismo. Attraversando il Novecento e pur nella loro spesso evidente contraddizione, esse hanno sostenuto e alimentato ciò che Jürgen Habermas definisce con precisione “progetto” della modernità, che nell’arte si traduce in un forte edonismo estetico con il conseguente potenziamento del soggetto e, quindi, dell’autore.
Quelle stesse contraddizioni, che vogliono che il transitorio conviva con l’eterno e il fuggitivo con l’immutabile, hanno però oggi condotto al tramonto del progetto e all’insinuarsi di posizioni teoretiche autorevoli che, disconoscendo la seconda polarità dell’affermazione baudelairiana, preferiscono la fluida incertezza del pensiero debole e un relativismo spesso senza sponda perché privo di quella tensione teleologica che animava la precedente epoca.
In questi anni l’insufficienza di categorie interpretative adeguate a supportare i cambiamenti in atto rendono ancora valide letture di ambito estetico postmoderniste, che hanno sostituito al progetto l’idea di catastrofe e il timore di morte e di sciagura, nonché la suggestione della vaporizzazione dell’oggetto artistico, sulla scorta soprattutto di una ricorrente ripresa della riflessione benjaminiana sull’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica.
Dal pensiero costruito attorno alla perdita dell’aura e dell’unicità a favore dell’ipotetica riproduzione all’infinito dell’oggetto artistico, dunque, deriva la necessità di raccontare l’arte partendo dalla sua eterna condanna di presentizzazione autoreferenziale e inautentica. Le tecnologie, in particolare le tecnologie della comunicazione, diventano il più frequente argo- mento per osservare la società e l’arte, attraversata, quest’ultima, invero, da quelle stesse contraddizioni già individuate con assoluta capacità interpretativa e predittiva da Baudelaire.
L’estasi dell’iperrealtà, così come la definisce Jean Baudrillard, è data dal sistema delle nuove tecnologie della comunicazione che determinano l’attuale orizzonte dell’esperienza. L’iperesteticizzazione del mondo, che si è imposta come imprescindibile evidenza per l’indagine e la ricerca artistica, si risolve, dunque, in un’esteticità diffusa che secondo lo studioso condurrebbe all’anestetizzazione e addirittura alla sparizione dell’arte. Ed è sempre Baudrillard a precisare che l’arte cerca, come tutte le forme che spariscono, di raddoppiarsi nella simulazione, ma presto sparirà completamente lasciando il posto all’immenso museo artificiale e alla pubblicità scatenata2. Al simulacro, dunque.
L’insidioso equivoco contenuto in queste riflessioni, se valutate agli albori del Terzo millennio, non consiste nelle analisi, ma nel giudizio di valore che le accompagna, ormai insufficiente per comprendere le nuove reali frontiere della sperimentazione artistica. Si ritiene, cioè, non più metodologicamente corretta l’attribuzione di un disvalore nell’interpretazione del rapporto arte-società, arte-informazione, arte-comunicazione, che sorregge quella parte consistente della critica che sviluppa le proprie osservazioni non dall’analisi fenomenica (l’arte nel suo nuovo e complesso sistema), bensì da una precedente e autorevole letteratura critica che ha suggerito molteplici e significative definizioni di arte e società moderne e postmoderne, ma meno significative se ancora utilizzate per definire l’oggi.
Le indagini sulla contemporaneità, infatti, richiedono innanzitutto un approccio di natura non comparativa, capace di sottrarsi, quindi, ancora una volta, ma in via definitiva, alle secche pericolose della contrapposizione del pre (Modern) e del post (Post-Modern) largamente diffuse in una paludosa logica di rigida sistemazione diacronica del pensiero. In secondo luogo, si suggerisce di operare una sospensione di giudizio, quindi di rifondare quella parte del pensiero che richiede nuove attrezzature epistemologiche senza preoccupazioni di giudizio.
Occorre, cioè, che lo stesso recupero di categorie e modelli illuminanti per comprendere il funzionamento della società – e quindi anche dell’arte – non vengano utilizzate in alternativa o in opposizione, come accade, ad esempio, al concetto baumaniano di “liquidità” usato per definire una nuova condizione in evidente contrapposizione alla solidità che si attribuisce all’epoca precedente. Occorrerà, invece, che, liberi da qualsiasi pregiudizio nominale e concettuale, si assumano coraggiosamente nell’indagine dei sistemi complessi odierni molte delle definizioni che hanno descritto la condizione postmoderna, considerandole come presupposti ineludibili per l’analisi dell’oggi e privandole di qualsiasi connotazione evocativa e senso di colpa che sempre il paragone con le categorie forti del pensiero moderno hanno alimentato.
Questi argomenti trovano una loro precisa dimensione di esistenza soprattutto quando, nel confronto critico, ci si interroga sulla questione ontologica dell’arte, da un punto di vista sempre troppo poco indagato, sebbene diffuso, come quello del pubblico, la cui distanza o avvicinamento all’arte, si crede, sia strettamente collegata al tema dell’autore.
Più che quello della sparizione dell’arte oggi il tema felice, gioioso, augurabile se si vuole, è quello della sparizione di un soggetto autoriale forte, che nelle esperienze artistiche di frontiera finalmente evapora in favore di una soggettività complessa, multipla, collettiva o, meglio ancora, ‘connettiva’, se ci si rifà al nuovo orizzonte di riferimento offerto dai meccanismi che sottendono il funzionamento della Rete.
L’opera oggi non può essere indagata per la sua aura perché, se si insistesse su tale piano speculativo, l’opera rimarrebbe muta poiché non riuscirebbe a essere letta in rapporto con le dimensioni dell’iperestetico e dell’ipermoderno a cui essa appartiene. I concetti di ‘ambiente’ e di ‘atmosfera’ si sostituiscono non solo allo spazio, ma anche all’aura, evitando così il ‘pericolo’ dell’anestetizzazione che, invece, aveva dominato, nell’ottica postmoderna, sull’opera. Muta il concetto di spazio, che si diluisce nell’atmosfera, o nella Rete, e mutano con esso anche l’idea del tempo e della storia.
A questo proposito, sembrano utili le riflessioni di Baudrillard sull’idea di storia e di tempo, categoria fino ad ora non considerata, quando afferma che se usciamo dalla storia per entrare nella simulazione, è solo la conseguenza del fatto che la storia stessa non era in fondo altro che un immenso modello di simulazione. Non nel senso che non abbia avuto altra esistenza se non quella del racconto che ne facciamo o dell’interpretazione che ne diamo, ma rispetto al tempo in cui essa si svolge, quel tempo lineare che è insieme il tempo della fine e di una “suspense” illimitata della fine – il solo tempo in cui una storia possa prender posto, cioè una successione di fatti non insensati, e generantisi in un rapporto di causa-effetto, ma senza necessità assoluta e tutti in squilibrio sull’avvenire.
Un tempo tanto diverso da quello delle società rituali, in cui tutte le cose sono compiute nell’origine e la cerimonia ripete la perfezione di questo evento originale. In opposizione a tale ordine del tempo “compiuto”, la liberazione del tempo “reale” della storia, la produzione di un tempo lineare e differito può apparire come un processo puramente artificiale3.
L’arte oggi è specchio di una complessità sociale articolata a più livelli, che si muove in una molteplicità di direzioni secondo modelli non distanti da quelli delle società orali, in cui l’arte risiedeva nella relazione, nei momenti di scambio e, dunque, nel dono, secondo quel dispositivo che Marcel Mauss definiva efficacemente “fatto sociale totale”. Essa può dirsi veramente contemporanea a questo tempo, laddove produca un’esperienza estetica che coinvolga la vita, risultando capace di tenere assieme cultura alta e cultura bassa (se mai fosse ancora legittimo operare tale distinzione), ma soprattutto eludendo inefficaci distinzioni tra generi, forme e discipline. Andranno incluse, quindi, pratiche artistiche generalmente escluse e considerate ‘non arte’.
Spingersi oltre le categorie e favorire l’incrocio dei saperi comporta inevitabilmente un disinteresse diffuso nei confronti dell’antico tema della citazione (virgolettata o non virgolettata) a favore, invece, del mash up e del remix, che escludono un’autorialità forte e certa del pensiero. L’arte conquista attraverso la dimensione partecipativa un significato rituale e ritrova un ruolo etico e sociale di apertura verso gli altri. All’interno di questo rito l’artista non è lo sciamano o il vate che dà risposte, bensì colui che, con un atto di don’azione, è capace di creare atmosfere idonee a produrre esperienze inedite4.
La critica oggi predilige, invece, mantenere saldo il suo legame con gli orizzonti interpretativi novecenteschi, discostandosi poco da quell’esigenza propria dell’ambito storico. Si richiederebbe, invece, nella società allo stato gassoso di cui si vogliono cogliere i benefici, analisi sistemiche pertinenti più alle consuetudini di ambito sociologico che di quello storico-artistico.
La sparizione dell’arte vuol dire innanzitutto la sparizione non tanto dell’oggetto quanto del soggetto, perché sostituito dalla dinamica necessaria, possibile, realistica di un pensiero collettivo che si costituisce nel potenziamento dell’individualità in un’unica intelligenza, come insegna Lévy.
L’arte è oggi, pertanto, quella frontiera di relazioni connettive che ha come orizzonte non solo (e non tanto, forse) l’arte relazionale, ma che soprattutto assume a modello il funzionamento delle ‘nuove’ tecnologie e le utilizza non come pura techné, ma come modello di pensiero, recuperandone le modalità ipertestuali e connettive di funzionamento5.
In questo nuovo campo d’azione diventa fondamentale il ruolo del pubblico che acquista una nuova funzione sempre più coincidente, per forza, protagonismo e significato, con quella dell’artista.
Diversa, invece, e ancora non risolta è la posizione della critica. Mentre l’“artista plurale”6 e il pubblico innescano assieme il dispositivo estetico che chiamiamo arte relazionale e connettiva, il ruolo della critica rimane ancora molto incerto e, soprattutto, sempre meno significativo se non all’interno di un sistema di mercato e di finanza.
Un’indagine proprio sulla critica, ma con una prospettiva di apertura a diverse questioni di metodo, è quella proposta di recente da Renato De Fusco e da Raffaelle Rosa Rusciano i quali sviluppano un discorso che prevede, preliminarmente, una distinzione tra critica discorde e critica concorde, non solo argomento, a mio avviso, di indagine storica e metodologica, ma anche modello interpretativo della critica e dell’arte del Novecento.
Contro i vecchi entusiasmi e i nuovi rifiuti, ci appare indispensabile rivedere molti punti, cui si deve il processo di scadimento dell’arte contemporanea, sintetizzabile nell’espressione “dalla rivoluzione all’indifferenza”7, affermano gli autori, ponendosi in una prospettiva di ricognizione e di ‘riesame’ dell’indagine critica che ha attraversato lo scorso secolo. Presupposto dell’analisi è un saggio pubblicato sul n. 4 di «Op. cit.» del 1965, intitolato La critica discorde, scritto a più mani da autori volutamente non firmatari dell’articolo secondo modalità di scrittura anonima perché collettiva, che con quell’espressione intendevano riferirsi a quella parte della critica che aveva mantenuto un atteggiamento critico e radicale, a volte reazionario, nei confronti degli sviluppi dell’arte moderna.
La presente rassegna intende raccogliere le opinioni di alcuni autori che hanno avuto verso l’arte moderna un atteggiamento ostile, svalutativo o anche di consenso ma per motivi tuttavia diversi da quelli delle poetiche e della critica moderna. Si tratta in una parola di una critica discorde avanzata da una visuale più radicale anticonformista o, spesso, più reazionaria di quella visione ormai schematica che ha accompagnato gli sviluppi dell’arte moderna8.
E precisano: Sia ben chiaro che non proviamo nessuna simpatia per le posizioni di rifiuto integrale o di accomodamento furbesco alla situazione. Ma tra l’oziosa rampogna moralistica e l’attivismo acefalo dei conformisti v’è certamente spazio per una posizione critica interna all’arte contemporanea9.
Già nel Novecento al concetto di ‘nuovo’ e di ‘unicità’ si aggiunge ben presto la nozione di progetto a cui si lega quella di quantità. Così, riprendendo il pensiero di Argan, chiariscono De Fusco e Rusciano che in relazione ai problemi della produzione e del consumo di massa, oggetto del giudizio critico non può più essere solo l’opera compiuta bensì anche il processo del suo farsi e del suo quantificarsi10.
Questo vuol dire, precisano i due autori, che nella società di massa l’approccio teoretico precedente non è più valido perché non tiene conto della esigenza di un fondamento operativo quale criterio di indagine: si cerca soprattutto la funzionalità del criterio, più che la sua ontologia11.
Nel confronto tra Jürgen Habermas e Jean-François Lyotard l’idea del progetto rimane centrale: per il primo il progetto moderno è stato incrinato a metà del Novecento, ma è rimasto incompiuto; per il secondo, invece, è stato completamente distrutto.
Una volta finito il senso della storia, una volta superato questo punto di inerzia, ogni evento diviene catastrofe, diventa evento puro e senza conseguenze (ma è questa la sua potenza)12.
Il passaggio successivo è sulla sparizione del soggetto a favore dell’oggetto, vero capovolgimento, con ciò indicando che tutto il destino del soggetto è ora attribuito all’oggetto il quale, se elevato alla potenza di merce assoluta, che Jean Baudrillard contrappone alla merce volgare, produce effetti di seduzione: sta all’opera d’arte di feticizzare questa nullità, questa sparizione, e di trarne effetti straordinari13. L’oggetto d’arte è, dunque, il nuovo feticcio quando non è più oggetto familiare, ma estraneo.
Per questo motivo, nel paesaggio della distruzione pro- vocato dalla diffusione e dallo sviluppo illimitato delle tecnologie audiovisive, “l’arte di vedere” è divenuta “l’arte dell’accecamento”.
E invece, ancora di più si crede che proprio dalla diffusa estetizzazione del mondo e dalla sparizione del soggetto come referente forte della produzione artistica si possa volgere più serenamente lo sguardo all’analisi della produzione di un’arte di limine che mette tra parentesi il soggetto forte e lo diluisce all’interno di una pluralità di soggetti, le cui individualità vengono esaltate nelle loro differenze e specialismi per produrre una connessione di nuovo senso.
Sparito il soggetto rimane allora come elemento centrale il “dispositivo”, che è qui inteso non tanto come lo indica Michel Foucault o come poi diversamente viene precisato da Gilles Deleuze, il quale sostiene che noi apparteniamo a dei dispositivi ed agiamo in essi. La novità di un dispositivo rispetto ai precedenti, la chiamiamo la sua attualità, la nostra attualità. Il nuovo è l’attuale. L’attuale non è ciò che siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo divenendo, cioè l’Altro, il nostro divenir-altro. In ogni dispositivo, bisogna distinguere ciò che siamo (ciò che non siamo già più) e ciò che stiamo divenendo: ciò che appartiene alla storia e ciò che appartiene all’attuale14.
Su una linea parallela Giorgio Agamben individua una divisione tra gli esseri viventi (o le sostanze) e i dispositivi in cui essi vengono costantemente catturati, precisando che nominerà come dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi. (…) Chiamerò soggetto ciò che risulta dalla relazione e, per così dire, dal corpo a corpo fra i viventi e i dispositivi15.
In questo modo si individuano, rispetto a Foucault, non solo i processi di soggettivazione a cui inducono i “dispositivi disciplinari”, ma anche i processi di desoggettivazione, che non danno luogo indifferentemente a un nuovo soggetto se non in forma larvata e, per così dire, spettrale16. Da qui la minaccia implicita di questi dispositivi che inducono a una forte desoggettivazione senza la possibilità di risoggettivarsi.
Il tema del dispositivo è centrale per l’affaccio che si propone sulle nuove estetiche dell’arte, che intendono l’opera come un dispositivo che crea azioni, pensieri, flussi connettivi nella indistinzione tra artista e pubblico, soprattutto se osservati attraverso la lente di un rapporto convenzionale tra attore e fruitore. La vaporizzazione dell’autore è sempre più intensa, a fronte di un rafforzamento di una soggettività plurale e complessa in cui l’artista e il pubblico si integrano in una dinamica partecipativa e l’arte perde la sua funzione oggettuale per farsi completamente esperienza, in un ambito tecnologico e di flusso di informazioni, conoscenza, partecipazione e in un campo di promiscuità dei sa- peri che esistono proprio per la loro possibilità connettiva e relazionale.


1. C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, in La critica d’arte, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 177.
2. J. Baudrillard, La sparizione dell’arte, Giancarlo Politi Editore, Milano 1988, p. 38.
3. J. Baudrillard, L’illusione della fine o Lo sciopero degli eventi, Anabasi, Milano 1993, p. 17.
4. E. Di Stefano, Iperestetica. Arte, natura, vita quotidiana e nuove tecnologie, in «Aesthetica Preprint», agosto 2012, p. 32.
5. Diversa è la posizione di Renato De Fusco che già nel 2001 solleva la questione che se l’irritante domanda “che cosa significa?” non viene neanche più posta dal pubblico per l’indifferenza verso l’arte, è necessario un tentativo critico per uscire da una condizione in cui, mentre l’architettura e il design riescono a reggere di fronte alla dominante tecnologia, le arti rappresentative ne risultano quotidianamente spiazzate e comunque risultano rispetto al grande pubblico, come abbiamo appena letto, qualcosa che questo non vuole e di cui non sa che fare. Arti visive; un senso da ritrovare, in «Op. cit.», n. 111, maggio 2001. De Fusco ritorna nuovamente sull’argomento in Per cucire lo strappo, in «Op. cit.», n. 113, gennaio 2002; in particolare pp. 26-33, dove l’autore si sofferma sulle tre domande che il pubblico comunemente rivolge: ma questa è arte? che cosa significa quest’opera? non saprei farla anch’io?. Insomma il metalinguaggio dell’avanguardia è venuto a sostituire il linguaggio della vera e propria pratica dell’ar- te, muta o ridondante su pochi messaggi alienanti.
6. Si veda su questo tema A. Balzola, P. Rosa, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli, Milano 2011.
7. R. De Fusco, R.R. Rusciano, Tre domande. Questa è arte? Che significa? Non saprei farla anche io? Un riesame, Altralinea Edizioni, Firenze 2014, p. 7.
8. La critica discorde, in «Op. cit.», n. 4, settembre 1965.
9. Ivi.
10. R. De Fusco, R.R. Rusciano, op. cit., p.176.
11. Ivi, p. 177.
12. J. Baudrillard, Le strategie fatali, Feltrinelli, Milano 2011, p. 20.
13. Ivi, p. 133.
14. J. Deleuze, Che cos’è un dispositivo, Cronopio, Napoli 2002, pp. 27-28.
15 G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma 2006, pp. 21-22.
16 Ivi, p. 31.