La sociologia dell’arte dei sociologi

ANTONIO VITIELLO
La cultura italiana ha scoperto la sociologia e nutre per essa un entusiasmo sospetto, tanto è incontrollato ed aperto agli equivoci. Per alcuni la sociologia è un genere letterario ed, insieme, un’occasione per pasticciare sulla pagina le proprie conoscenze enciclopediche; per altri, invece, è un modo di porsi in maniera non dilettantesca e culturalmente avvertita il problema dei rapporti tra arte e società; tuttavia è da notare che sia gli uni che gli altri ignorano, o sottovalutano, un dato importante dell’attuale situazione degli studi. In un altro punto del mondo della cultura c’è chi comincia a criticare i portatori di istanze sociologiche, non perché peccano di «sociologismo» ma perché, in un certo senso, ne difettano.

E in gestazione la sociologia delle arti fatta dai sociologi. Si sta verificando quanto è già accaduto per altri campi di applicazione della sociologia, come il diritto o la educazione. In una prima fase di missione alcuni giuristi e alcuni pedagogisti si fecero portatori di determinate istanze sociologiche, rimanendo comunque nell’ambito delle loro discipline per quanto riguarda le tecniche di ricerca, di tipo storiografico e descrittivo, e mutuando volta per volta dallo storicismo, dal marxismo, dal positivismo o dal pragmatismo una non troppo elaborata teoria della società, densa di equivoci e di inflessioni normative. Si ebbe così una sociologia del diritto fatta dai giuristi e una sociologia dell’istruzione fatta dai pedagogisti.
La seconda fase, quella attuale, è caratterizzata dagli intenti puristi di una generazione di sociologi specializzati, che si impegnano ad applicare concetti e metodi di tipo sociologico nel campo del diritto e dell’istruzione, lasciando che i risultati del loro lavoro esprimano da soli la loro portata sui problemi giuridici e pedagogici.
A nostro avviso questo percorso è esemplare anche per la sociologia delle arti. In dipendenza dal ritardo e dalla carenza di interesse scientifico da parte dei sociologi specializzati, si è sviluppata, infatti, una sociologia «supplente» che, pur avendo spesso un elevato interesse culturale, appare assai discutibile se commisurata alle esigenze della metodologia sociologica propriamente intesa.
Quali sono i tratti che distinguono la sociologia dei «supplenti» da quella dei «titolari» ?
1. La sociologia dei filosofi
I rapporti tra la sociologia e la filosofia sociale dell’arte si prospettano in maniera tutt’altro che pacifica, anche se bisogna distinguere le estetiche sociologiche descrittive da quelle normative: le prime, infatti, affermano l’influenza della società sull’arte o anche dell’arte sulla società, in quanto è un fatto, una realtà controllata, non stabilita in anticipo, le seconde, invece, propugnano l’influenza dell’arte sulla società come un fine, un dover essere, un rapporto a priori. Orbene, l’estetica normativa è la più lontana dall’ideale metodologico della nuova sociologia, non solo perché formula proposizioni che sfuggono troppo spesso ad ogni possibilità di controllo intersoggettivo, non solo perché non ha interesse ad istituire o ad incoraggiare la ricerca sociale autonoma, ma anche e soprattutto perché la sociologia è scienza d’osservazione e indaga il rapporto arte-società in quanto constatabile di fatto e non affermato o negato prima dell’indagine.
La sociologia empirica tiene separato ciò che è da ciò che dovrebbe essere, il dato induttivamente accertato e analizzato e il valore: l’osservabile è considerato in quanto esistente e non partecipato in quanto esiste. Per questi motivi la sociologia non pone precetti all’attività artistica o al giudizio, come fa ogni estetica normativa, i giudizi sull’opera d’arte in sé e sulla sua struttura non sono di competenza della sociologia dell’arte. L’estetica sociologica normativa rappresenta quindi la più buia e nebulosa preistoria della sociologia delle arti, modernamente intesa.
Ben diversamente l’estetica descrittiva non solo tiene meglio separato il fatto e il valore, l’esistente e il desiderabile, non solo non ha in sé elementi di contestazione verso un lavoro di ricerca sociale autonomo – i cui risultati non siano aprioristicamente scontati e i cui presupposti e metodi siano autocorreggili – ma, addirittura, sembra risolversi, quasi per interna necessità, in una fenomenologia del sociale. Ma in tal modo l’estetica descrittiva, nota Morpurgo-Tagliabue, rischia di diventare superflua .
Il gruppo delle estetiche descrittive appare, quindi, come la fase mediana di un processo di scomposizione della filosofia sociale dell’arte, che la sociologia può portare a termine e che rappresenta solo un momento della più generale crisi che investe attualmente l’estetica filosofica.
Un’ultima importante differenza riguarda il diverso peso che l’analisi concettuale ha nel lavoro dei filosofi, dove è preminente, ed in quello dei sociologi, dove si riveste di particolari significati. Nella analisi concettuale (così come praticata da tanta filosofia) i concetti valgono non già come strumenti per istituire, condurre avanti e controllare indagini particolari in un campo determinato di ricerche, ma come realtà ultime che, una volta riconosciute come tali, forniscono le premesse infallibili di dimostrazioni necessarie, che non hanno bisogno di essere messe alla prova dei fatti… Nella migliore delle ipotesi (l’analisi concettuale) non fa che effettuare generalizzazioni imperfette, a partire dall’esperienza sociale amorfa del filosofo che la istituisce o dalle esperienze sociali cristallizzate nella tradizione di pensiero cui egli appartiene.
Per questi motivi la sociologia delle arti, come specializzazione della sociologia scientifica, non può sottoscrivere l’affermazione, spesso ripetuta, che se la filosofia: produce alcune verità fondamentali concernenti i rapporti dell’uomo con altri uomini e degli uomini con l’universo, necessariamente tali verità devono ritrovarsi alla base stessa delle scienze umane e, in particolare, nei loro metodi. In tal modo si può fare solo una sociologia ancillare, i cui risultati sono determinati in anticipo dalla parte generale o metafisica di un qualche sistema. La sociologia scientifica non ha bisogno di ottenere dalla filosofia la sua licenza d’esercizio.
2. La sociologia degli storici
I rapporti tra la sociologia e la storia sociale dell’arte appaiono a prima vista suscettibili di sviluppi fecondi, più di quanto non accada per la filosofia dell’arte. Sociologia e storia sociale dell’arte vanno coltivate senza antagonismi e polemiche inutili, dal momento che è impossibile la loro sintesi ed è impossibile la riduzione dell’una all’altra, sia nel senso che la storiografia, come forma di conoscenza privilegiata comprenda e inglobi la sociologia, sia nel senso che quest’ultima, ponendosi come superscienza, chieda alla storiografia di morire e trasfigurarsi. Senza perpetuare le improduttive risse intellettuali del passato, le due discipline devono riconoscere, accanto alle molte simiglianze che le uniscono, le profonde differenze che le separano.
I settori più avanzati della sociologia contemporanea non coltivano più il pregiudizio scientistico secondo il quale il lavoro storiografico si riduce, al più, in una raccolta di materiali da passare al sociologo perché ne estragga le «leggi»; d’altra parte gli storici più avvertiti affermano l’autonomia della ricerca storica sulla base degli specifici problemi di metodo della loro disciplina, e non su quella di una metafisica storicistica, che sostenga l’identità di Realtà e Storia, o di una metafisica di tipo nominalistico che affermi il carattere individuale ed irripetibile dell’oggetto proprio della storiografia.
La prima autentica distinzione, che bisogna richiamare alla mente, è quella che si può porre tra il lavoro delle scienze storiche e quello delle scienze sociali analitiche.
L’obbiettivo delle scienze del primo gruppo è di arrivare alla comprensione, il più possibile completa, di un complesso di fenomeni storici concreti o di un fatto singolo. Questa distinzione è valida indipendentemente dall’essere il fenomeno storico in questione un oggetto naturale, od un evento, un individuo umano, un atto o un sistema di atti, un sistema di rapporti sociali o un tipo di gruppo sociale. In ciascun caso la spiegazione richiederà implicitamente, se non esplicitamente, che sia fatto riferimento alle categorie teoretiche di una o più scienza analitiche… Le scienze analitiche mirano invece a sviluppare un sistema chiuso di teoria… Il ruolo dello schema di riferimento pone (allora) un problema: il suo uso richiede una distinzione, implicita o esplicita tra due classi di dati, quelli che sono problematici e quelli che non lo sono nei confronti del corrispondente sistema analitico, cioè rispettivamente i valori della variabili e quelli delle costanti.
Ad esempio, l’economia politica è una scienza analitica e per ciò stesso si differenzia dalla storia economica, con la quale pertanto è in proficui rapporti di scambio: un rapporto analogo si può stabilire, con vantaggio di ambo le parti, tra la sociologia e la storia sociale. L’opportunità di questi scambi è riconosciuta da molti storici, i quali auspicano un più stretto contatto con le scienze sociali, al fine di esaminare gli strumenti concettuali che esse impiegano e le possibilità che tali strumenti possono aprire alla ricerca storiografica. Generalmente si tratta di autori favorevoli ad una storia delle istituzioni, dell’economia, del mutamento sociale, la cui realizzazione comporta specifiche competenze in una o più scienze sociali
Ma se si ripercorrono, invece, le opere di storiografia artistica di ispirazione sociologica, dallo Hauser (Storia sociale dell’arte, Torino, 1964), allo Antal (La pittura fiorentina ed il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, Torino, 1960), al Meiss (Painting in Florence and Siena after the Black Death, Princeton, 1951), allo Evans (Art in Medioeval France 987-1498, London, 1948), non può non risultarne evidente l’insufficienza, se commisurate allo stato delle scienze sociali loro contemporanee.
Si può rimproverare, infatti, agli autori citati l’adozione di schemi esplicativi presi a prestito, il più delle volte, dalla filosofia della storia e della società, o provenienti da un’informe ed episodica intuizione personale, anziché dalle contemporanee teorie sociologiche. Se è accettabile la metafora secondo la quale la sociologia può fornire allo storico, interessato a tracciare la fisionomia dei fatti sociali, un’anatomia ad una fisiologia della società, si potrebbe dire che gli autori citati si sono serviti di Vesalio e di Fabrizio d’Acquapendente.
Un simile rilievo è meno valido per Pierre Francastel il quale, più di ogni altro, mostra di conoscere la produzione delle scienze sociali contemporanee. Ma nei volumi di Francastel si trovano più spesso citati i Mauss, i Leenhardt, i Balandier, i Lévy-Strauss: etnografi ed antropologi culturali più che sociologi, e la sua scelta ci sembra significativa rispetto ad un particolare e importante problema.
La storia sociale dell’arte è stata, almeno fino ad oggi, generalmente «ergocentrica», ha gravitato intorno alle opere d’arte sforzandosi di descriverle, analizzarle e valutarle. Francastel stesso ha descritto di recente: il fine di una sociologia dell’arte è… di descrivere, da una parte, serie di oggetti figurativi, mostrando come gli elementi di cui sono costituiti appartengono ad un certo ambito di civiltà e, d’altra parte, definire le regole di rapporto secondo le quali le immagini virtuali sono comunicabili da individuo ad individuo, radici, ad un tempo, di leggi incluse negli oggetti figurativi, e di leggi dello spirito.
Orbene, Francastel non avrebbe mai trovato nella letteratura sociologica contemporanea un sostegno a queste sue affermazioni, in quanto la sociologia si presenta come scienza del comportamento, antropocentrica, e non come scienza degli artefatti, ergocentrica. Nei volumi di etnografia e di antropologia culturale si trova, invece, l’analisi del patrimonio ergologico dei popoli studiati, patrimonio che comprende tra i vari manufatti anche gli «oggetti figurativi»: su queste esperienze Francastel ha modellato molte sue posizioni.
La sociologia del brillante autore francese rimane nell’ambito della sociologia dei supplenti, proprio per il fatto di non essere riuscita a spostare il proprio centro di gravitazione dalle opere ai comportamenti umani, fino al punto di capovolgere la propria prospettiva: in ciò porta i segni della formazione professionale del suo cultore, il quale, d’altra parte, ha optato per una sociologia degli storici supplenti affermando che «la sociologia è tanto più efficace quanto più si avvicina ai fatti della storia». Noi diremmo che, quanto più si avvicina alla storia, tanto più diventa un inutile doppione, comunque non si giustifica, al Francastel, il denominare «sociologia dell’arte» la sua ottima storiografia.
3. La sociologia dei sociologi
La differenza più vistosa tra i metodi tradizionali di studio delle arti (e fra questi comprendiamo anche la storia sociale) e la sociologia empirica dell’arte sta, come si è già accennato, nel fatto che mentre i primi sono centrati sulle opere d’arte, la seconda è centrata sul comportamento artistico, e non potrebbe essere altrimenti.
Le teorie sociologiche contemporanee sono essenzialmente schemi per l’analisi del comportamento, quindi una sociologia delle opere d’arte in quanto tali è impossibile come una sociologia delle macchine utensili o della natura. Opere d’arte, torni, alberi appartengono alla vasta classe degli oggetti, che rappresentano per la teoria sociologica dei dati non problematici, rappresentano delle costanti che rimangono in zona d’ombra perché, come si è detto, la sociologia è una scienza analitica che isola solo certe variabili rilevanti per un dato sistema di teoria.
In una delle maggiori opere teoriche contemporanee, gli oggetti, naturali e fatti dall’uomo, sono definiti negativamente nei termini di quello che non sono, come categorie residue. Essi non interagiscono con altri agenti sociali, non costituiscono e non possono costituire gli altri di fronte ad un soggetto, essi non hanno atteggiamenti ed aspettazioni nei suoi confronti. In altre parole le opere d’arte costituiscono dati non problematici per le scienze del comportamento, perché non sono e non possono essere soggetti attivi, «attori sociali», persone.
Quindi, ogni studio ergocentrico che si presenti come sociologia meglio si definirebbe, per evitare confusioni, come storia sociale, filosofia sociale, estetica, semiotica od altro che non sia sociologia. Lo studio ergocentrico esula per definizione dall’ambito della scienza della società, i cui postulati teorici portano ad ignorare le opere, se non in quanto riflesse in un atteggiamento o implicate in un rapporto di interazione tra esseri umani; altrimenti esse rimangono «fuori campo».
Quali sono allora le nuove prospettive di ricerca, dal momento che per lo studio delle opere la sociologia, non solo è male equipaggiata rispetto ai metodi intrinseci di studio, ma esce addirittura fuori del suo campo?
È stato scritto che l’arte e la società non si fronteggiano, l’arte è nella società, e in verità è assai facile concordare con questa affermazione se si riflette un attimo su quelle professioni e quelle istituzioni che si interessano esplicitamente dell’arte. L’elenco potrebbe cominciare dagli istituti di istruzione artistica per continuare con le professioni artistiche, dalle più nobili alle fabbrili, fino a comprendere gli ordini e le associazioni professionali. L’elenco dovrebbe, inoltre, comprendere i committenti, i collezionisti, i clienti occasionali, i mercanti d’arte, i mediatori, gli impresari edili, i patroni e, ancora, lo stuolo dei critici, dei conoscitori, degli studiosi a vario titolo di cose d’arte.
Non vanno dimenticati, infine, gli enti espositori, le gallerie d’arte moderna, i premi, i concorsi, i musei e tutte quelle istituzioni preposte alla conservazione, alla tutela e alla mostra di opere d’arte. Si tratta quindi, di un vasto insieme nel quale il sociologo può progettare le sue ricerche, ponendosi le stesse domande e cercando le risposte con gli stessi strumenti utilizzati in altre aree di studio.
Ma, in un campo tanto vasto e inesplorato, su quali unità d’indagine è opportuno concentrare le prime energie disponibili? La sociologia delle arti potrà «decollare» solo ponendo alla base delle proprie ipotesi di lavoro la teoria sociologica, ed evitando di fare ricerche dipendenti esclusivamente dalle possibilità tecniche a disposizione.
Spesso, infatti, le tecniche di ricerca (interviste, questionari, osservazioni dirette, scale, tests sociometrici ecc.) vengono presentate come il contributo peculiare del sociologo, dimenticando che esse sono strumentali rispetto ai concetti e alle formulazioni di una teoria. La ricerca non orientata porta solo alla inconsistente collezione dei dati, ad una sociografia più o meno statisticomane che non favorisce il progresso della disciplina.
In una strategia della ricerca, a nostro avviso, la priorità va data allo studio dell’attività di quanti praticano le arti come professione unica o principale. Studiare l’attività artistica come professione, significa, in un certo senso, attraversare in tutta la sua estensione il campo d’indagine della sociologia delle arti; significa gettare luce, necessariamente, su tutti i ruoli complementari, su tutta la complessa rete di interazioni sociali nel quale l’artista, come ogni uomo, è quotidianamente impigliato.
Si potrebbe studiare il percorso lavorativo dei professionisti delle arti cominciando dalla sede della loro formazione, la scuola, dove operano i meccanismi per l’apprendimento del ruolo e l’interiorizzazione dei valori della professione. Quali comportamenti gli istituti di educazione artistica pretendono, vietano o permettono agli allievi, come ne modellano la figura professionale, che tipo di allievi, a preferenza di altri, essi promuovono e selezionano?
Come funzionano i meccanismi che determinano il successo professionale degli artisti? Essi coincidono o no con quelle istituzioni e quei ruoli che hanno il potere di distribuire ricompense e privazioni, come le giurie, i critici influenti, le gallerie d’arte moderna? Sono domande alle quali la sociologia può dare risposte soddisfacenti, sempre che sia possibile istituire delle ricerche sul campo.
Particolare interesse riveste, dal punto di vista sociologico, lo studio delle condizioni organizzative nelle quali si volge l’attività artistica. La professione può essere esercitata come lavoro indiviso e personale, artigianale, oppure come lavoro di gruppo e, quindi, diviso in funzioni che si integrano in un risultato collettivo. Non è difficile riconoscere in queste due condizioni l’artefice in senso stretto e il progettista, il pittore davanti alla sua tela ed il designer nel suo team work. Il tipo di divisione del lavoro è collegato alle poetiche? Incide sulle norme e sui valori che guidano il comportamento di artefici e progettisti?
Interessanti contributi, a nostro avviso, la sociologia può dare nello studio del comportamento artistico innovativo. La teoria della devianza ci dice che l’innovazione implica sempre uno scostamento da una linea di condotta istituzionalizzata, ed espone l’innovatore al rischio e al peso della sanzione sociale. In quali condizioni gli artisti decidono di innovare? Quali sostegni e quali opposizioni trovano nell’ambiente prossimo che li circonda e in qual modo le deviazioni dagli standards accettati si istituzionalizzano a loro volta? Sotto il profilo formale il meccanismo della innovazione artistica, probabilmente, non è molto diverso dal meccanismo dell’innovazione economica, almeno com’è stato illustrato da Schumpeter, che ha avvicinato esplicitamente l’imprenditore economico innovatore a quanti hanno preso decisioni creative nel campo della politica, della religione o della cultura.
Ci siamo posti delle domande senza pretesa di completezza, solo per indicare alcune linee d’indagine, alcune prospettive nelle quali la sociologia delle arti può dare risposte soddisfacenti. Essa ci permette di storicizzare il presente, di considerare gli artisti nostri contemporanei impegnati nel mondo, nella quotidianità dalla quale emergono le loro opere. La sociologia ci permette di fare sul vivente, con il rigore e l’attendibilità di una metodologia scientifica, quanto già si sta facendo per il passato con altri mezzi.
È incredibile, ma noi sappiamo di più e meglio sui rapporti tra il principe rinascimentale e gli artisti da lui protetti, di quanto non si sappia sui rapporti che intercorrono tra i professionisti delle arti e quello che Gramsci chiamava «il moderno principe», il partito politico. Eppure tutta la problematica dell’engagement è un conflitto tra ruoli, una tensione tra i valori della professione e la ideologia politica integralista: un problema eminentemente sociologico.
Grazie a Rosario Assunto conosciamo la critica d’arte quale veniva praticata nel Medioevo e non solo negli aspetti verbalizzati, ma anche in quelli comportamentistici. In verità l’Autore, estendendo il concetto di critica, fino a comprendere non solo il giudizio colto esplicito, ma anche i giudizi impliciti nella decisione di acquistare, distruggere, restaurare, rifare determinate opere, è sfociato in un campo propriamente sociologico, ha illustrato, cioè, i meccanismi del controllo sociale sulle arti di cui la critica, in senso stretto, è solo un momento. Quanto sappiamo sul controllo sociale nell’età nostra? In che modo si verifica e quali strategie d’indipendenza hanno gli artisti? Non lo sappiamo e non cercheremo di saperlo fin quando non avremo un concreto interesse per l’oggi, perché, diversamente, la sociologia non decolla, essa è scienza del presente.
Il presente è… il momento storico nel quale vivono i contemporanei… è quell’arco di tempo, dai confini estremamente mobili, di cui gli storici di mestiere diffidano di scrivere già la storia, non solo perché mancano i documenti indispensabili, ma anche e soprattutto perché avvertono che si tratta di un processo ancora in pieno svolgimento e del quale essi stessi sono attori e partecipi. Se è vero, tuttavia, che la sociologia delle arti non ha ancora effettuato il «decollo», non si può ignorare che, almeno, ha «acceso i motori»; ma sono ancora molte le resistenze e le inerzie che deve vincere.
4. Sociologi e centri di decisioni culturali.
Nel processo di espansione e di sviluppo di una disciplina può capitare che le sue divisioni e specializzazioni abbiano un incremento differenziale, per cui mentre l’una appare, sotto il profilo teorico e sostantivo, saldamente costituita, l’altra è cronologicamente sfasata, impedita ancora da difficoltà spurie, avvilita da complessi, oggettivamente trascurata. Una simile considerazione vale per la sociologia che ha lasciato incolto e abbandonato alle erbacce un campo di studi come quello delle strutture e dei processi sociali connessi alle arti, mentre in altri campi si assisteva ad un fiorire di ricerche lussureggiante.
La bibliografia internazionale in materia di sociologia delle arti è assai esigua: per quali motivi la disciplina ha accumulato un così modesto patrimonio di conoscenze teoriche e di risultanze di ricerca? Il sottosviluppo della disciplina va riportato a due ordini di fattori: interni, quelli imputabili ai sociologi stessi; esterni, quelli che rimandano alla più vasta società. Fra i primi ricorderemo che i settori-guida delle scienze sociali sono piuttosto lontani dai problemi connessi alle arti, cosicché essi non rientrano generalmente nella formazione professionale dei sociologi e rimangono estranei agli interessi istituzionalizzati nella comunità scientifica, cosicché il loro studio non riceve una consistente promozione accademica.
Fra i fattori esterni ricorderemo che non esiste ancora una «domanda» sociale da soddisfare, dal momento che i centri di decisione culturali, che potrebbero essere interessati al lavoro del sociologo, sono ispirati alla routine amministrativa e non ai criteri di un management modernamente inteso, impegnato sul piano della vita civile e su di essa efficace e incisivo.
Questo discorso, valido in generale, vale ancor più nel nostro paese dove i fattori del sottosviluppo della sociologia delle arti risultano particolarmente enfatizzati. Da una parte, non esiste ancora una generazione di sociologi professionisti, e la sociologia non ha ancora sufficienti riconoscimenti accademici, anche per via degli autorevoli anatemi neo-idealistici (certamente pertinenti se riferiti a quelle controfigure della sociologia bambina alle quali furono il più delle volte indirizzati); e delle ostilità di quei dottrinari che fanno il viso dell’armi alla «sociologia borghese» o predicano l’Uomo come ineffabile punto mistico sul quale slittano, per ragioni ontologiche, gli strumenti dell’analisi sociale.
D’altra parte una domanda sociale non esiste.
Fin quando i musei continueranno a concepire la loro funzione in termini di deposito delle opere e di edizione di bollettini, e non la riformuleranno in termini dinamici, riconoscendo la loro autentica funzione di educatori del gusto, di mediatori tra artisti e pubblico, di operatori culturali integrati alla comunità, essi non avranno bisogno delle conoscenze sociologiche per la formulazione e la strumentazione delle proprie politiche culturali.
Fin quando i professionisti delle arti si limiteranno a perorare la loro metafisica libertà e non si impegneranno a conquistare e a difendere la loro terrestre autonomia dai committenti, dagli impresari edili, dalla speculazione commerciale, servendosi delle loro associazioni professionali, queste non supereranno lo stato infantile e non avranno bisogno delle conoscenze sociologiche. Fin quando la Pubblica Amministrazione continuerà a gestire il patrimonio artistico e le istituzioni culturali ed educative secondo la tradizionale routine autoconvalidantesi, essa non avrà bisogno delle conoscenze sociologiche.
Solo quando i policy-makers culturali decideranno di vivere nella società presente, si renderanno conto del pauroso vuoto di conoscenze attendibili che ci affligge e chiederanno a qualcuno di colmarlo. Solo così può formarsi una domanda per l’offerta del sociologo, ma occorre una radicale modernizzazione dei centri di decisione culturali che, altrimenti, saranno battuti in partenza dalle organizzazioni commerciali interessate a ricerche di marketing e studi sulla motivazione all’acquisto di opere d’arte.
5. Incidenza sulla critica e sulle poetiche.
È stato detto che l’intento della sociologia di studiare scientificamente la società comporta inevitabilmente delle conseguenze sociali, chiama in causa le istituzioni, direttamente o indirettamente mette in discussione credenze, consuetudini e comportamenti tradizionalmente accettati e, ciò, nonostante la sociologia sia scienza d’osservazione intenzionalmente indifferente ai valori (Wertfrei). Infatti non si può e non si deve ignorare che la separazione tra fatti e valori è più facile ad essere affacciata come esigenza che ad essere realizzata nella ricerca, dal momento che, diversamente da quanto accade in fisica, la separazione tra sistema osservato e sistema osservante non è facile da mantenere e l’oggetto specifico della ricerca del sociologo, il campo su cui si muove come scienziato è lo stesso su cui si muove come persona.
Tuttavia l’ufficio del sociologo vuole che le conseguenze normative deducibili dai suoi studi, conseguenze inevitabili per il flesso che unisce teoresi e prassi, siano sviluppate dagli uomini pratici o da lui stesso, in quanto uomo pratico e non nell’esercizio delle sue funzioni. Per queste ultime, infatti, egli pretende l’autorità dell’esperto, ma al di fuori di esse non ha più titoli di altri e, in quanto scienziato, non può trasformare la sua scienza in dottrina, formulando precetti per la critica o per l’attività artistica.
Rispetto alla critica che Dewey chiamava «giudiziaria» gli studi del sociologo stanno in un rapporto analogo a quello che, nel procedimento giudiziario sussiste tra la perizia del tecnico e la sentenza del giudice: il giudizio tecnico e quello giuridico non coincidono, l’uno è irriducibile all’altro, e anche se il parere dell’esperto serve a storicizzare il giudizio, quest’ultimo è orientato in primo luogo dalle norme del diritto positivo.
A nostro avviso è difficile fare arte o giudicarla senza una concezione del suo dover essere, tuttavia in questo la sociologia dell’arte non c’entra, essa non potrà mai fondare una norma estetica, allo stesso modo che la sociologia della morale non può fondarne una etica e quella della conoscenza non può proporre un canone o criterio di verità.
Il giudizio sociologico è totalmente altro da quello estetico, ed è insostenibile, quindi, ogni candidatura della sociologia empirica dell’arte al ruolo infausto di estetica scientifica o sperimentale che dia un fondamento razionale al giudizio. La sociologia può incidere sulla valutazione solo in quanto modifica le conoscenze del critico, solo in quanto può giovare all’esegesi del significato dei fatti artistici. La sociologica dell’arte può solo integrare quell’attrezzatura culturale che C. B. Heyl ritiene indispensabile al critico per metterlo in grado di comprendere gli oggetti della sua critica.
Se l’influenza della sociologia dell’arte sul giudizio critico è solo indiretta, lo stesso accade per le poetiche. La scienza sociale non propugna un dover essere dell’attività artistica, non obbliga ad un impegno sociale, essa arriva a cose fatte. Ai pratici delle arti la sociologia può solo fornire una maggiore autocoscienza della loro posizione e della loro funzione nella società, e i vantaggi che il punto di vista dello spettatore rappresenta per chi è impegnato, come attore, in determinate situazioni sociali.
Questi sono i limiti della nuova sociologia, libera ormai dagli equivoci che si annidavano nella sociologia scientista e riduzionista, fiorita nell’età d’oro del positivismo, quando apparve come l’ultima erede delle metafisiche. E proprio nella consapevolezza dei propri limiti che la nuova sociologia ritiene di potersi porre come scienza autonoma, dotata di propri strumenti e di propri criteri di validità, che fornisce uno specifico contributo alla conoscenza del mondo umano, senza pretendere di rispondere a tutte le domande, cosa che non è nelle facoltà limitate della mente umana, ma solo nei poteri di una mitica superscienza.
tratto dal numero 1