Design e mass media

ARGAN, ASSUNTO, MUNARI, MENNA
A cura della galleria «Il Centro» è stata organizzata a Napoli il 5 dicembre 1964 nel Museo di Villa Pignatelli una tavola rotonda sul tema: Design e mass media, cui hanno partecipato Giulio Carlo Argan, Rosario Assunto, Bruno Munari, Filiberto Menna.
Nel presente resoconto riportiamo testualmente i punti più significativi del dibattito tratti dalla registrazione.

GIULIO CARLO ARGAN
[…] Il design sembra essere in contraddizione con il caos delle immagini visive e sonore a cui siamo sottoposti con lo scopo di determinare le nostre decisioni attraverso impulsi inconsci, invece che attraverso giudizi e la contraddizione appare verificabile nelle due punte estreme dell’attuale situazione delle poetiche artistiche. Da una parte abbiamo il design, a cui si collega l’arte detta gestaltica, e dall’altra alcune correnti neo figurative e soprattutto la pop art americana. A proposito di tale contraddizione Argan precisa che l’arte detta gestaltica e la pop art si presentano come il risultato di due processi completamente diversi.
La gestaltica, cioè l’arte di ricerca sui valori costruttivi della percezione, sulla cinetica della visione, è il risultato evidente di un processo di sublimazione; tanto è vero che l’oggetto scompare, si volatilizza e di esso rimane soltanto una strutturazione quasi inafferrabile come concretezza formale, ma riconoscibile come rappresentazione diagrammatica del processo che l’ha prodotta. La pop art appare invece come un processo di precipitazione, tanto è vero che restituisce l’oggetto nella sua testualità, sia pure eccependolo dai contesti spaziali abituali nei quali questo oggetto ci si presenta.
Ciò che si volatilizza in questo processo è il procedimento costruttivo, sicché l’oggetto, più che costruito o prodotto, appare prelevato od estratto da un contesto empirico. In realtà, questi due processi di sublimazione e di precipitazione, operano nell’ambito di una medesima realtà: il mondo storico contemporaneo nella
pluralità e varietà dei suoi fenomeni. Il problema che si pone è di verificare se la situazione storica del mondo contemporaneo, coi suoi modi di produzione e di vita, abbia o non abbia esiti estetici e, in un ambito più largo, culturali.
Dopo aver osservato che sia l’arte gestaltica che la pop art insistono in un medesimo ambito economico-culturale, Argan afferma: E chiaro che essendo il mondo contemporaneo caratterizzato dal problema della produzione e del consumo, è facile ridurre la ricerca gestaltica o costruttiva alla metodologia della produzione e la ricerca documentaria e testimoniale della pop art al problema del consumo. […. ].
Approfondendo l’esame, ci accorgiamo che questi due aspetti della produzione e del consumo, anche considerati dal punto di vista estetico, non si sottraggono a quella che è la legge fondamentale della vita economica, cioè alla relazione tra produzione e consumo, al condizionamento del consumo attraverso la produzione, al condizionamento della produzione attraverso il consumo. Quindi, non soltanto nel campo della produzione corrente la ricerca di mercato condiziona la produzione, ma anche nella ricerca dei valori di qualità.
A questo punto Argan cita alcuni esempi: la pubblicità, il problema dell’involucro degli oggetti, l’automobile in cui evidentemente il problema della funzionalità meccanica e della corrispondenza della forma alla funzionalità meccanica è oltrepassato e deviato nell’adeguamento della forma alla funzione dell’automobile come simbolo sociale per rilevare che: «È chiaramente percepibile che l’influenza della ricerca motivazionale – cioè la ricerca dei motivi profondi delle scelte – alle quali s’ispira oggi la produzione economica, soprattutto per l’influenza dei gruppi di potere che la guidano, interferisce sul design al punto che esso ha in molti casi perduto la propria facoltà di decidere il tipo, la forma, la qualità della produzione.
Un altro aspetto da sottolineare è che il design tende a non differenziare l’oggetto dotato di qualità estetica da tutti gli oggetti di uso comune; tende cioè o ad una qualificazione estetica o ad una squalificazione estetica di tutto il mondo della produzione. Evidentemente il dilemma sta nel decidere se si giunga ad una qualificazione generale, ad una qualificazione estetica o ad una squalificazione estetica di tutta la produzione … Ma esiste veramente una differenza così profonda nei confronti di quel passato che noi temiamo o desideriamo di vedere inabissarsi con il determinarsi di una cultura di massa, cioè con una cultura strutturalmente diversa dalla precedente?»
Il fatto che il design, seguitando e non distruggendo la tradizione del rapporto arte-produzione quale si è avuto nel passato, giunga ad una ricerca di simboli sociali, non è nuovo. Ciò che mi sembra poi, anche meno strano, è che, nella condizione attuale del mondo, si cerchi di rispondere con un’arte indifferenziata ad una società indifferenziata.
Che cosa è, in pratica, la società indifferenziata? È una società borghese che si viene disgregando fino ad una configurazione puntiforme, in cui i suoi componenti non siano più riconoscibili per delle qualità individuali? O è, al contrario, una nuova classe? O è una nuova struttura della società che si sovrappone ed elimina in sé la società borghese? Indubbiamente il momento attuale è un momento in cui i designer e, per estensione, gli artisti sono ancora esponenti di una borghesia, scontenti di esserlo, desiderosi di accelerare la crisi della società di cui fanno parte, ma che non possono pretendere che i lineamenti di questa crisi della società borghese e i processi della sua disgregazione diventino i lineamenti costruttivi della nuova classe, della nuova società e i processi costruttivi del suo avverarsi.
Noi oggi parliamo di una crisi del design e – in senso più esteso – della crisi dell’arte, che potrebbe essere proprio esemplificata nel fatto che nessuna delle due correnti figurative più attuali si proponga come capace di realizzare un fatto artistico nella sua totalità ma soltanto di realizzarlo in un modo che è in antitesi ad un altro modo. Ebbene il momento attuale è, per quanto possa sembrare assurdo, un momento molto simile a quello del principio del Novecento, a quello di quell’arte floreale, a cui per uno sbaglio di obiettivo, molti si richiamano… Perché, nel momento in cui tanto si parla della necessità di interessare le masse alla produzione artistica, raramente se ne tien conto, raramente si ha il coraggio di dare a queste masse il nome che esse hanno, cioè il nome di proletariato?
Non ci interessa più l’élite che fa l’arte per il proletariato: molto ci interesserebbe sapere quale sia o sia per essere l’arte del proletariato… di una classe politica per eccellenza, nel senso che è la classe dei nullatenenti e quindi dei non interessati.
L’arte del proletariato ha, in questo senso, la possibilità di risolvere il rapporto tra un’arte che tenga conto degli aspetti del mondo ed un’arte che invece si proponga come ipotesi di riforma in astratto. L’arte che oggi si propone non vuole più essere un’arte d’élite, non vuole più essere arte come oggetto di capitalizzazione, come bene, come ricchezza che viene accantonata per un tempo successivo, o addirittura per l’eternità.
Che cosa può sostituire la fine di questa identità: arte-tesoro? Soltanto, io credo, una nuova identità: arte-funzione. Arte-funzione non solo in un senso meccanico, ma arte-funzione nel senso educativo più ampio, per cui il problema ritorna ancora una volta a quello della funzione dell’arte come mezzo di educazione estetica.
ROSARIO ASSUNTO
Assunto, riconoscendo al discorso di Argan ricchezza di spunti e complessità di argomentazioni, dichiara di voler solo sottolineare alcuni aspetti trattati, aggiungere delle postille e delle esemplificazioni soprattutto sul piano della storia delle idee che è la mia specializzazione professionale.
Egli propone, allora, di allargare il discorso sull’arte come strumento di educazione e di educazione estetica che, se vale nei termini esposti da Argan per le arti visive, vale anche per tutte le arti, naturalmente per ogni arte nella sua modalità diversa. Arte come educazione estetica, cioè come educazione dell’uomo per eccellenza: perché direi, quello che rende l’uomo civile e lo distingue dai barbari è appunto il riconoscimento dei valori estetici. Ma questo riconoscimento, aggiunge Assunto, è quanto mai raro e molti «barbari» detengono il potere politico ed economico; come esempio egli ricorda quel noto uomo politico che ebbe ad asserire, a proposito di un problema di conservazione dei valori ambientali delle città antiche e, quindi, di limitazioni del traffico, che il traffico è una realtà e l’estetica è materia soggettiva e opinabile.
L’educazione estetica è principio di civiltà e al suo servizio vanno posti gli strumenti che la cultura di massa mette a nostra disposizione. «Alcuni anni fa – continua Assunto – ebbi a manifestare il mio pensiero in tema di industrial design. In disaccordo con certi escatologi della cultura di massa e con tanti amici avanguardisti a tutti i costi, cercavo le premesse di quella visione che speriamo di raggiungere servendoci dell’industrial design e della cultura di massa e trovai fonte d’ispirazione nelle Lettere sull’educazione estetica di Federico Schiller. La educazione estetica antepone alla realtà l’apparenza; infatti, per quanto noi si voglia, e giustamente, eliminare ogni apparenza mistificatoria e menzognera, se vogliamo dare una qualificazione estetica a tutto il nostro ambiente, dobbiamo preoccuparci dell’apparenza come di un fine ed un valore in sé, anche se ciò può sembrare scandaloso. La radice del problema estetico è appunto questa: considerare l’apparenza non come la veste ingannevole e mistificatrice, ma come una realtà che ha valore per noi in quanto non ci limitiamo ad usare le cose, ma vogliamo goderne le immagini, la forma, l’apparenza: la bella apparenza delle cose».
Il problema odierno – prosegue Assunto – è quello di individuare schemi adeguati ad una nuova strutturazione estetica, di criteri orientativi che permettono un uso proprio ed esatto degli strumenti che il progresso tecnologico mette al servizio degli uomini, e non un uso falsificatore. È indispensabile, cioè, che le nuove forme industriali non sostituiscano un estetismo ad un altro estetismo, ma si giustifichino in quanto sono le più adatte ad essere prodotte servendosi di certi mezzi e non in quanto soddisfino esigenze artificiali di ostentazione sociale. È necessario, altresì, che la qualità estetica dei prodotti sia adeguata al maggior numero possibile di persone, ipoteticamente alla totalità degli individui, e che ogni atto di consumo sia anche atto di fruizione estetica e ogni atto di produzione sia anche atto di qualificazione del mondo.
A proposito dei mass media, Assunto dichiara di non condividere il terrore con cui si guarda ai nuovi mezzi di diffusione della cultura ma di guardarli con una certa soddisfazione, anche se, il bombardamento d’immagini al quale i mezzi di comunicazione di massa ci sottopongono ha un aspetto notturno, nel senso che sollecita in noi la passione detta notte, non sempre positiva. Con particolare riguardo ai fumetti, Assunto pone in rilievo la funzione di promozione culturale che essi realizzano per gli strati più incolti della popolazione e affaccia il problema del produttore di immagini per i fumetti: anche qui si pone il problema della qualificazione estetica di immagini che non sono fine a se stesse, ma strumentali. Sotto questo profilo, il fumetto non è altro che una trasposizione laica e mondana di quella funzione di comunicazione che avevano gli affreschi delle chiese, l’iconografia sacra e, in un certo senso, l’araldica. Quest’ultima era molto spesso la trasformazione di certe idee in schemi percettivi facilmente accessibili. L’araldica stabiliva un rapporto convenzionale tra il momento percettivo e quello concettuale attraverso un simbolo grafico.
Concludendo Assunto richiama quei passi di Marx nei quali il filosofo tedesco auspicava un tempo nel quale non ci saranno più pittori, ma uomini che, oltre al resto, sapranno anche dipingere e quell’altro nel quale rammentava l’arte greca che vale per noi come modello inimitabile. Ma le idee estetiche di Marx, e in particolare quelle sull’arte greca, hanno le loro radici in Hegel, e attraverso Hegel, risaliamo a Schiller e Hölderlin.
Perché questi riferimenti a lontani autori? Perché – sostiene Assunto – il nostro problema è ancora questo: proiettare nel futuro, non solo come sogno, ma come scopo raggiungibile – servendoci proprio dei mezzi offertici dalla situazione presente, e attraverso una spietata e lucida analisi della stessa – quel passato che Hegel nella introduzione alle Lezioni di estetica rimpiangeva dicendo: «I giorni, giorni belli della Grecia antica, l’età dell’oro del tardo Medioevo sono ormai lontani». Il nostro problema, quando ci occupiamo di design e di mass media è quello di far sì che – attraverso lo studio per chi teorizza, attraverso la ricerca pratica per chi opera – questi mezzi, che alcuni reputano diabolici, possano diventare il modo per recuperare nella presente situazione quella centralità del valore estetico nella costituzione dell’esperienza umana che Hegel, rifacendosi all’ellenismo di Winckelmann, celebrava nel mondo antico come «una bellezza di cui non ci sarà mai l’eguale».
BRUNO MUNARI
Munari inizia dichiarando che il suo intervento non avrà un carattere teorico ma servirà a comunicare l’esperienza di lavoro di un designer.
A differenza del pittore o dell’artista tradizionale il quale, attraverso i mezzi consueti, compone la sua opera e attende che questa parli agli altri, il designer si pone di fronte ad un problema richiesto dalla società operando attraverso i nuovi mezzi che volta a volta, a seconda dei temi, gli vengono offerti dalla tecnica. Egli affronta il suo lavoro senza alcun preconcetto né di forma, né di stile, né di astrazione o non astrazione, aderendo essenzialmente ai mezzi tecnologici disponibili per risolvere ciascun problema.
Il designer si differenzia oltre che dall’artista, anche dall’ingegnere progettista di oggetti industriali.[…] . Il metodo di lavoro del designer è invece diverso. Il designer dà la giusta importanza a ogni componente dell’oggetto da progettare e sa che anche la forma definitiva dell’oggetto progettato ha un valore psicologico determinante al momento della decisione di acquisto da parte del compratore. Egli cerca quindi di dare una forma il più possibile coerente alla funzione dell’oggetto, forma che nasce direi quasi spontaneamente, suggerita dalla funzione, dalla parte meccanica (quando c’è), dal materiale più adatto, dalle tecniche di produzione più moderne, da un esame dei costi, e da altri fattori di carattere psicologico ed estetico.
Ogni argomento ha già in sé le sue forme e le sue immagini che aspettano soltanto di essere rivelate con mezzi moderni; quindi l’artista di oggi non soltanto ha i mezzi della pittura, della scultura per esprimersi ma anche un’infinità di altri mezzi. Inoltre il designer non può avere opinioni personali di fronte al problema, ma deve tenersi rigorosamente ai dati statistici. Per esempio, è stata fatta una prova su un certo numero di persone per vedere come venivano accettati i colori di un imballaggio per un detersivo. In tre scatole decorate, una in giallo, una in blu e l’altra in giallo e blu venne posto lo stesso detersivo. Dall’indagine statistica risultò che il detersivo giallo era corrosivo, quello blu era inefficace e quello giallo e blu era perfetto.
Il motivo di tale preferenza è stato spiegato col fatto che il giallo e il blu essendo dei colori complementari danno una soddisfazione e un equilibrio psicologico alla persona. Infatti se il nostro occhio è colpito da una luce rossa quando chiudiamo gli occhi noi vediamo verde e questo colore che è complementare del rosso lentamente sfuma verso il nero e si stabilisce un equilibrio; quindi un oggetto o un imballaggio fatto con dei colori complementari ha sempre un effetto sicuro.
In conformità alla sua premessa di voler comunicare solo un’esperienza, Munari non esprime alcun giudizio su questo tipo di sollecitazione, di persuasione mistificatoria esercitata a volte dal designer. In quest’incontro – egli prosegue – si è parlato di bello, di bellezza e di estetica; io questo argomento lo lascerei un po’ da parte perché non c’è un bello in assoluto, ci sono tanti tipi di bellezza secondo le epoche e secondo la cultura; quindi direi piuttosto che il compito del designer è quello di produrre degli oggetti esatti, perché quando un oggetto è esatto non c’è più problema di gusto. Infatti gli strumenti, per esempio gli strumenti chirurgici, o tutti i ferri del mestiere che non hanno problemi di estetica, sono però accettati da tutti, perché sono strumenti esatti.
Tutt’al più, invece che di bellezza, si può parlare di qualificazione nel senso di coerenza formale, cioè ogni componente, ogni elemento dell’oggetto o della ricerca visiva deve essere collegato o coerente con tutto il resto.
Questo aspetto della coerenza formale, secondo Munari, da un lato supera il concetto della bellezza intesa come attributo dell’arte e dall’altro il primo razionalismo che conferiva valore estetico a tutti gli oggetti purché aderenti alla funzione.
Un altro aspetto qualificante il lavoro del designer è un ritorno all’autenticità del mestiere, ad una attività consapevole e competente che reinserisca l’artista nel vivo dell’intera attività produttiva contemporanea.
Il designer è quindi l’artista della nostra epoca. Non perché sia un genio ma perché con il suo metodo di lavoro riallaccia i contatti tra arte e pubblico; perché affronta con umiltà e competenza qualunque domanda gli venga rivolto dalla società in cui vive, perché conosce il suo mestiere, le tecniche e i mezzi più adatti a risolvere ogni problema di comunicazione e di informazione visiva. Perché risponde alle necessità umane della gente della sua epoca, li aiuta a risolvere certi problemi indipendentemente da preconcetti stilistici e da false dignità artistiche derivate dalla divisione tra le arti.
FILIBERTO MENNA
Menna ha esordito affermando che il rapporto fra design e mass media si pone per la prima volta tra il ’30 e il ’35 negli Stati Uniti con il fenomeno dello styling.
Lo styling, com’è noto, è un processo di stilizzazione della forma, perseguito per rendere l’oggetto di uso comune più appetibile e più facilmente vendibile.
Naturalmente, trattandosi di un processo di stilizzazione della forma, il procedimento dello styling opera all’esterno dell’oggetto, lasciando intatto il problema tecnico sul quale l’oggetto è impostato. Lo styling è legato a una determinata situazione economica che Menna indica nella politica roosveltiana del New Deal ricorrendo allo schema dei Rostow sugli stadi dello sviluppo economico delle nazioni più evolute. Ed è appunto in quest’ambito che si verifica l’incontro tra il design e i mass media:
Il campione dello styling americano Raymond Loewy diceva che le cose brutte si vendono male, però aggiungeva che il più bell’oggetto non si vende se non si convince il pubblico che si tratta veramente dell’oggetto più bello; questo vuol dire che ad un certo momento, interviene nel rapporto designers-pubblico, industria-pubblico, produttore-consumatore, un terzo elemento che è estraneo al rapporto forma-consumo, un elemento di carattere psicologico anzi psicacogico: interviene cioè la pubblicità.
È a questo punto, cioè nel momento in cui il designer e l’industria devono ricorrere massicciamente al fattore psicologico della pubblicità per convincere il consumatore a comprare quel prodotto e quel prodotto soltanto, che il design comincia a fare i conti con i mass media, allontanandosi in un certo senso dal design storico. Anche negli U.S.A. si verifica così, secondo Menna, una frattura tra il più recente design e il design storico: Una frattura che è però meno drammatica, meno lacerante di quella che si è verificata in Germania o in Russia dove le avanguardie furono liquidate violentemente o burocraticamente. Ma è una rottura non meno profonda e irreversibile.
È vero: lo styling produce degli standard formali da riprodurre in serie come il funzionalismo storico, ma la differenza consiste essenzialmente in questo, che la forma perseguita dal design storico, dal Bauhaus, come giustamente ha detto anni fa Argan, era una forma assoluta, studiata in laboratorio, cioè, in un ambito in cui la richiesta del consumatore era in un certo senso lontana, meno pressante di quanto lo sia stata in seguito e sia soprattutto oggi. La forma invece dello styling è una forma relativa alle esigenze del mercato.
Un’altra differenza fondamentale è da rintracciare in questo, che sia De Stjil che il Bauhaus avevano una fiducia assoluta nella forma e pertanto ritenevano che, una volta raggiunto l’equilibrio forma-funzione, la forma si sarebbe imposta da sé sul pubblico; ora lo styling, il design degli anni ’30-’35, dice ancora che la bellezza è necessaria per vendere i prodotti, ma aggiunge che la bellezza da sola non basta se non è accompagnata dalla pubblicità.
Ricordando che si deve a Dorfles la recente parziale rivalutazione dello styling, Menna aggiunge altre favorevoli considerazioni al riguardo.
«Lo styling americano ha avuto quasi una funzione di verità, cioè di denunciare con la sua stessa esistenza la inadeguatezza, la non incidenza storica di certe ipotesi originarie del design rispetto ad una certa situazione economica americana dapprima negli anni ’30-’35 e poi alla situazione di molti paesi europei soprattutto nel dopoguerra. Un secondo lato positivo dello styling mi sembra che consista in questo, che, se è vero che lo styling cerca di agire psicologicamente, esercitando cioè una coercizione psicologica sul consumatore, è anche vero, però, che cerca di indagarne gli umori, le aspirazioni, i desideri anche inconsci attraverso un sistema di indagini sempre più affinato.
In un certo senso lo styling produce una risemantizzazione dal basso, che non è più risemantizzazione a livello della forma assoluta, ma è una riqualificazione a livello di certe convenzioni iconologiche, simboliche, nelle quali una certa comunità si riconosce».
Successivamente Menna si riferisce ad un intervento di Tòmas Maldonado, direttore della Hochschule für Gestaltung di Ulm, per riproporre nei termini generali il problema estetico del design. Maldonado si chiede: il design è arte? E poi distingue tre posizioni: ci sono coloro che credono che il design sia arte; vi sono coloro che credono che il design sia la forma di arte di oggi destinata a sostituire l’arte tradizionale, poi c’è la terza posizione, ed è questa che egli accetta, per cui il design non è arte; è semplicemente un problema tecnico-scientifico da impostare e da risolvere in un certo modo.
In questa conferenza, cioè, egli ribadisce la posizione di positivismo scientifico che aveva espresso nel suo intervento nel ’58 all’Expo di Bruxelles. Egli ritiene, in un certo senso, che gli interrogativi, i problemi della coscienza dell’uomo contemporaneo non possono trovare una risposta in un bene di consumo. La risposta a questi interrogativi ce la può dare soltanto e ancora l’arte. Arte che Maldonato, se non ho frainteso il suo pensiero, considera ancora in maniera tradizionale: la pittura, la scultura, la musica, la poesia, la letteratura. Ora è una posizione che io non mi sento di accettare, però è una posizione estremamente interessante, direi quasi appassionata e dolorosa.
Non possiamo accettare questa tesi di Maldonato perché, mi sembra, essa ripropone la distinzione tra le arti del sublime e le arti funzionali, per cui ci sarebbero delle arti maggiori e delle arti minori con tutti i grossi problemi di carattere estetico e anche pratico che ne derivano. Ma è chiaro, che una volta impostato in questo modo, il problema del design rispetto alla società contemporanea, è un problema notevolmente semplificato. Per coloro i quali invece sostengono che il design è ancora arte, o perlomeno è ancora un fatto fondamentalmente estetico, i problemi non sono altrettanto semplici.
A questo punto Menna ricorda l’intervento di Etienne Souriau ad una tavola rotonda tenuta anni fa in Francia da alcuni cultori di estetica industriale. Il Souriau sosteneva che bisognava dare all’oggetto d’uso comune qualche cosa in più, oltre il dato meramente funzionale, qualche cosa di simbolico e parlava quasi di un barocco industriale.
Ma naturalmente una riqualificazione estetica del design non può essere ottenuta, non può essere realizzata se non attraverso i mezzi tecnici del design, cioè sempre tenendo come punto di riferimento, il consumo, e quindi il consumo di massa.
Cioè proporre un oggetto singolo che abbia delle capacità fabulatorie, che susciti l’imagerie ecc., non risolve il problema del design, non è un «contropiede» al design; è anzi una posizione reazionaria e ritardataria. Quindi il problema della riqualificazione esiste, deve essere affrontato sul piano della progettazione, sul piano della pianificazione. Recentemente ci sono state, soprattutto qui da noi, ma non solo da noi, delle proposte riguardanti un’arte, l’arte programmata (conosciuta anche con altri termini) che si è posta appunto il problema di riqualificare esteticamente una progettazione destinata ad un uso generale.
Richiamandosi esplicitamente alle ipotesi di Umberto Eco, Menna indica nella situazione della cultura contemporanea, caratterizzata appunto dai mass media, una serie di stratificazioni: Vi sono delle ricerche di avanguardia che lavorano ad un livello di punta; accanto a queste si situa un’attività caratterizzata da un’artisticità diffusa, un’arte di trattenimento, di divulgazione che ha una funzione fondamentale e utilissima nell’economia della odierna cultura; ed infine c’è il cattivo gusto, il Kitsch ecc.
Ora io credo, che questa diagnosi sia esatta, corrisponda alla situazione attuale non solo nelle arti figurative, nell’architettura, nel design, ma anche in letteratura, poesia, musica ecc. Qual è la posizione, mi sono chiesto, che il design ha in questa situazione antropologica così caratterizzata? È probabile che, giunti a questo punto, dobbiamo in un certo senso ridimensionare il valore del design così com’era sostenuto dai teorici del Bauhaus e di De Stjil e situano proprio in questa zona intermedia, dove si verifica lo scambio, l’osmosi, tra le ricerche di avanguardia e il consumo generale. Il design coinciderebbe quindi con una sorta di moderna arte popolare, così come era stato suggerito dal Banham.
Arte popolare non nel senso tradizionale, ma nel senso, che questo termine assume in esperienze affini come la pop art; cioè nel senso di un’arte che si rivolge ai mezzi popolari, ai mezzi propri dei mass media. Naturalmente, accettata questa posizione di Banham, noi dobbiamo in un certo senso, ridimensionare, (ma ridimensionare è una brutta parola perché implica un giudizio di valore che io escludo) anche l’estetica nell’ambito della quale opera il design.
Ritorna allora l’esigenza manifestata da Assunto della formulazione di nuovi schemi per il problema estetico del design. Una indicazione può aversi dallo stesso Banham. Banham parlava di un’estetica del consumabile in contrapposto ad una estetica del permanente e affidava anche egli all’estetica del permanente, certe manifestazioni artistiche di punta, mentre affidava all’estetica del consumabile, cioè destinata in un certo senso a esaurire in un giro più rapido il proprio messaggio, messaggio anche di carattere estetico, l’oggetto di uso comune, cioè il design.
GIULIO CARLO ARGAN
Dopo gli interventi di Assunto, Munari e Menna, Argan riprende la parola, associando innanzitutto la posizione di Munari, che accantona il problema del bello, a quello di Assunto, che proprio ad esso specificamente si richiama. Tuttavia, osserva Argan, a proposito delle lettere di Schiller sull’educazione estetica, che quel tipo di uomo ideale, la cui educazione deve essere estetica, secondo Schiller, è il tipo dell’uomo completamente libero da ogni stato di necessità.
Proprio in questa libertà da ogni stato di necessità, l’uomo consegue quella capacità di giudizio immediata, non raggiunta attraverso un’elaborazione di tipo critico, ma intuitiva, quella cioè che lo può portare a cogliere il valore delle cose visibili. La contraddizione dunque è più apparente che reale, perché quando Munari accantona l’idea del bello, non intende accantonarla come concetto estetico, ma come idea di un bello dato a priori in uno schema o in un modello e non come l’idea di un bello in fieri, che si avvera e si attua nell’atto in cui l’oggetto viene riconosciuto bello, cioè nel momento in cui, da colui che lo impiega, si compie nello stesso tempo un atto di giudizio e un atto affettivo, cioè un atto di conferimento di valore.
È indubbio che noi non possiamo non valutare da un punto di vista estetico la congerie di immagini che sono ogni giorno sottoposte e date alla nostra esperienza. Ciò che si dibatte è questo: costringendoci, richiamandoci ad una esperienza la cui natura è incontestabilmente estetica, o che comunque si attua attraverso normali mezzi di comunicazione estetica, si vuole, si cerca di sollecitare in noi un atto di giudizio estetico oppure una sorta di esteticità inconsapevole?
Riprendendo l’esempio di Munari sul diverso comportamento del pubblico rispetto alla confezione di un detersivo, Argan prosegue: Il guaio però è che si giudica del detersivo non dal detersivo, ma dalla scatola del detersivo. Applicato agli uomini: dalla uniforme che vestono. E questo mi pare che sia un indurre un’attitudine psicologica, che se portata dal campo del mero consumo al campo della vita etica e delle decisioni nell’ordine sociale e politico, potrebbe essere indubbiamente molto dannoso.
È chiaro che il processo al quale assistiamo è, come ha detto giustamente Menna, un processo irreversibile. Non solo non possiamo illuderci di ritornare alla produzione di tipo artigianale, come si auguravano Ruskin e Morris, ma non possiamo neanche illuderci – di fronte alla complessità del mondo economico, complessità che del resto risponde alla complessità dei nostri bisogni – che ognuna delle infinite scelte che ogni giorno dobbiamo compiere, sia una scelta razionale, cioè sia un giudizio fondato su un processo analitico.
La complessità di questo mondo è tale, del resto, che questo processo analitico, richiederebbe una quantità tale di conoscenze scientifiche da paralizzare ogni altro tipo di attività… Il problema si concreta nel sapere quale tipo di messaggio, quale tipo di comunicazione viene affidato, viene trasmesso dai singoli oggetti. Certo, ha ragione Assunto quando, riprendendo e sviluppando alcune analisi critiche di Eco a proposito della letteratura a fumetti, indica che anche in questa c’è un aspetto positivo, cioè un passaggio da un analfabetismo ad un alfabetismo.
Questo è indubbio, anche se si potrebbe chiedere se questo processo sia il più giusto per passare da uno stadio di ignoranza totale ad uno stadio di incipiente cultura. Io non so fino a che punto si possa paragonare il tipo di messaggio che viene comunicato attraverso i fumetti con il tipo di messaggio che si voleva comunicare con la pittura quando, a questa pittura si riconosceva una funzione didattica.
A tal proposito Argan osserva che mentre le pitture medioevali (che visualizzavano una cultura letteraria, altrimenti riservata a pochi) erano dei messaggi compiuti in se stessi, le moderne immagini sono incomplete senza le didascalie o il sussidio di altre immagini e l’aspetto che per me è più tipico di tutta la imagerie contemporanea è proprio che ogni immagine si dà non come un’immagine, ma come un brandello di immagine che rimanda ad una immediata, successiva immagine; tanto è vero che è tecnica normale nell’applicazione dei cartelli pubblicitari al muro, di metterne quattro, cinque, sei, uno di seguito all’altro, già pensando che il messaggio non venga ricevuto attraverso un’attenzione razionalmente data al messaggio, ma attraverso una ripetizione ossessiva che stampa il messaggio stesso nella memoria senza l’autorizzazione della coscienza… i messaggi che ci vengono trasmessi sono sempre messaggi frammentari, che rimandano ad altri messaggi; da una cosa detta ad una cosa taciuta, da una cosa detta in un modo ad una cosa detta in un altro; per cui si sollecita nella persona che riceve questi messaggi un continuo stato di incompiutezza, un continuo non poter fermare il proprio pensiero, un continuo non essere se stesso.
Ed è quello che il più delle volte si vuole. Questo aspetto della simbologia, mi pare, è collegato con le deviazioni, che qui sono state indicate, del design: soprattutto quella che ha indicato Menna della direzione di un barocco industriale.
Argan prosegue rilevando la diversa intenzione sociologica del design attuale da quello degli anni 1920-30. Secondo l’ideologia della Bauhaus l’oggetto funzionale costituiva lo stimolo all’integrazione dell’individuo in una società funzionale.
Ma in questo caso si postulava una funzionalità dell’individuo, che implicava non la sua assimilazione alla massa e la sua accettazione di una eterodirezione, ma la accettazione di una condizione sociale già riformata (anche se eravamo in piena utopia) e quindi il funzionamento nell’ambito di una situazione sociale prescelta, voluta, accettata, costruita, mentre ciò che emerge dall’indirizzo attuale del design è proprio quello di attivare al massimo la relazione produzione-consumo impedendo che questa ponga i problemi di ordine sociale superiore, cioè i problemi fondamentali della struttura della società.
Posto in questi termini il problema del design va in gran parte risolto in sede ideologica. A tal fine Argan elabora e propone la relazione tra le nozioni di arte popolare e di progetto.
È indubbio che proprio questo del design, cioè della progettazione come arte popolare, è il punto cruciale di tutta la questione. Dove bisogna cercare veramente l’arte popolare? Non là dove quest’arte è a priori condizionata da uno schema sovrapposto, come nel caso, per esempio, di tutti gli ex voto, o di certi canti popolari che semplicemente trasmettono delle tradizioni rese autoritarie dal tempo, ma bisogna cercarla soprattutto nella strumentazione, nella configurazione estetica data dagli strumenti del lavoro affinché garantiscano col proprio valore, il valore dell’oggetto che nasce dalla loro funzionalità.
Questo tipo d’arte popolare è però rimasto legato ad una civiltà contadina e artigiana senza trasmettersi al proletariato industriale. Noi dobbiamo riconoscere che questa classe operaia non ha un’arte propria, non ha dato manifestazioni estetiche; e perché non le ha date? Perché a questa classe, a cui si chiede di lavorare, di eseguire un’opera, di partecipare al processo produttivo, non si è dato ancora alcuna facoltà di controllo sulla propria strumentazione.
Non è che si debba chiedere all’operaio come debba essere fatta l’automobile; si deve dare all’operaio l’esperienza concreta e costruttiva del proprio tipo di operazione. È indubbio che nell’ambito di questa cultura della nuova classe, classe che tende a generalizzarsi, non potrà mancare la componente estetica. Questa componente estetica dobbiamo cercarla in un tipo di azione che venga colto o di cui possa partecipare questo complesso operativo, questa classe di operatori della produzione. E qui veramente entriamo nell’ordine della progettazione. La nuova opera d’arte che si propone al giudizio non è un quadro, non è una scultura, non è nemmeno un’architettura monumentale, è il progetto. Non il progetto in quanto progetto di qualche cosa, cioè non il progetto come possibilità di anticipare il giudizio su una forma prefigurata ma non ancora realizzata; ma il progetto come attività tipica dell’individuo, che non potendo raggiungere, realizzare quella integrità economica e sociale che era propria dell’artigiano, vuole perlomeno non realizzarsi come frammento, come brandello di società, ma come punto, come momento, come ingranaggio della società.
Il carattere peculiare, la guida ideologica di questa nuova forma di progettazione è, secondo Argan, l’intenzionalità, nel senso husserliano, o non soltanto husserliano poiché qui siamo in un ordine piuttosto etico che cognitivo. Il progetto come espressione e come forma visibile della intenzionalità non può essere più eterodiretto. Tutti quegli elementi di informazione che giustamente Munari ha chiamato statistici, saranno il frutto non solo di un rilevamento statistico, ma di una critica della società.
Questo è il carattere della progettazione, carattere dal quale è impossibile eliminare i moventi ideologici che sono i soli che possano garantire all’opera d’arte quella pienezza di valore presente, nella situazione attuale, affinché l’esaurimento immediato del messaggio, di cui ha parlato Menna, non sia già un modo di dichiarare scaduto, obsoleted il valore, ma sia il modo di assumerlo in una dimensione storica.
A conclusione del dibattito, quale intervento del pubblico a chiarimento dei temi trattati, De Fusco domanda ad Argan: Poiché l’intenzionalità sembra essere il fattore risolutivo del problema esaminato e dato il rapporto tra design e ricerca gestaltica, Le chiedo d’indicarmi il segno dell’intenzionalità in questo tipo di ricerca. Nei suoi articoli del Messaggero, infatti, Ella mette in relazione la psicologia della Gestalt con il tema dell’intenzionalità. Ora, notoriamente, la psicologia della forma, sembra escludere ogni intenzionalità, ogni direzionalità, puntando proprio sulla struttura autonoma ed obbiettiva della forma, sul valore «logico» della forma in sé indipendentemente dalle varie interpretazioni, donde la polemica con la scuola transazionale.
Viceversa Lei parla di componente intenzionale dell’attuale ricerca gestaltica, dando evidentemente una nuova interpretazione del rapporto fra i due termini. Le chiedo pertanto un chiarimento circa l’intenzionalità della ricerca gestaltica.
[…] Dopo aver rilevato, tra gli altri limiti della ricerca gestaltica, quelli nei quali per carenza ideologica essa viene a coincidere, a volte, con la pop art, Argan prosegue: Io non credo che si possa oggi ancora parlare della ricerca gestaltica come di quella che conduce a risultati di valore, dico soltanto che nella ricerca gestaltica c’è un’intenzionalità di orientamento, anche se per insufficiente conoscenza d’orizzonte, questo orientamento può variare, come in realtà varia, tanto è vero che più volte ho indicato la carenza ideologica dell’arte gestaltica.
Carenza ideologica che ritroviamo naturalmente là dove l’orizzonte si dà come una realtà di fatto, vietandoci a priori ogni direzionalità di scelta in quell’ambito fenomenico. A questo punto Lei ha diritto di dirmi: ma allora perché Lei giudica migliore l’arte gestaltica, che la pop art? Perché Lei dice bene delle ricerche gestaltiche e dice male della pop art? Perché considera le ricerche gestaltiche come delle ricerche che si potrebbero paragonare a certe terze forze nel campo politico, e perché giudica la pop art come espressione facilmente paragonabile all’anarchismo reazionario, l’anarchismo di estrema destra?
Ebbene Le rispondo che presentandosi queste due situazioni, come due situazioni indubbiamente carenti tanto che tendono ad integrarsi polemicamente l’una con l’altra, io non giudico migliore la ricerca gestaltica rispetto alla non ricerca della pop art, simpatizzo con la ricerca gestaltica, e assumendo deliberatamente, riducendo l’atto critico, di cui credo di avere ormai una più che trentennale esperienza, a questo simpatizzare, mi pongo anch’io in una linea di intenzionalità.
Quindi credo di compiere così quel gesto di umiltà che deve compiere chiunque voglia vivere in una funzione sapendo di non dovere e non potere uscire da quella funzione stessa. Rinunzio volontariamente a quell’atto di giudizio perché credo di vivere in una situazione in cui è necessario passare dall’atto esterno o a posteriori del giudizio ad un intervento sul piano pratico.
tratto dal numero 2