La «riduzione» culturale

RENATO DE FUSCO – GIUSEPPE FUSCO
È comune esperienza che l’odierna sovrapproduzione di beni culturali (termine che lasciamo per ora imprecisato) risulta sempre più sproporzionata non solo alla capacità ricettiva del più vasto pubblico, ma anche a quella dei gruppi interessati ad un dato settore e persino a quella del ricercatore più specializzato.

È stato osservato, che è in atto la più grande inflazione di studi irrilevanti di tutta la storia della civiltà: migliaia di articoli, monografie, libri, conferenze, programmi di ricerca, progetti d’urbanistica, d’architettura, di design; senza parlare dell’enorme congerie di opere prodotte nei vari campi artistici e soprattutto degli oggetti, suoni ed immagini che i mezzi di comunicazione di massa riversano nell’ambiente urbano.
In generale questi beni culturali sono pertanto eccedenti rispetto al loro impiego, costituiscono offerte senza domanda, risultano messaggi spesso incomprensibili se non addirittura privi di senso.
D’altra parte esistono una indubbia crescente capacità di apprendimento, una implicita richiesta di conoscenza e una conseguente domanda di beni culturali, come dimostrano il desiderio di partecipazione, l’aumento del numero degli «aventi diritto», l’esigenza di superare i limiti dell’istruzione scolastica tradizionale, i pressanti problemi dell’università di massa e più in generale della cultura di massa.
Questo evidente divario tra domanda ed offerta può essere attribuito in varia misura al fatto che o i beni culturali proposti non sono quelli richiesti oppure tra gli uni e gli altri c’è una identità sostanziale, ma una notevole difformità comunicativa.
Quali che siano i motivi di tale disfunzione — alcuni sono stati da tempo individuati dalla critica sociologica — resta il fatto che essa coinvolge tutti: il grande pubblico come il più solitario studioso che, appena fuori dal suo particolare campo d’indagine, entra immediatamente nel novero di quel pubblico con gli stessi problemi ed esigenze. Il divario sopra indicato diventa poi di primaria importanza per coloro che operano nel settore didattico d’ogni ordine e grado.
Enunciato così l’aspetto più tangibile del problema e nei suoi termini più generali
(giusto perché anche il lettore più rigidamente orientato voglia continuare a seguire il nostro discorso), proponiamo in questa sede e contiamo di riprendere ed approfondire nei prossimi numeri della nostra rivista il tema della «riduzione» culturale.
Alcune definizioni del termine «riduzione»
Che cosa intendiamo con la parola «riduzione»? Diciamo subito che per noi essa vale anzitutto per critica scelta rispetto alla qualità e alla quantità; tuttavia per esplicitare tale definizione, necessaria ma non sufficiente a rendere la nostra idea, occorre considerare vari argomenti, non senza aver prima passato in rassegna alcuni significati del termine riduzione. Ricordiamoli qui brevemente a partire dalla radice etimologica.
Dal verbo latino re-ducere, ossia ricondurre, la parola ha assunto i seguenti significati: ritorno, trasposizione, traduzione, adattamento, semplificazione, diminuzione, costrizione. Appare chiaro che, elencati in quest’ordine, essi delineano una graduale caduta di valore relativa alle operazioni indicate: si passa infatti da un senso fenomenologico-trascendentale (Husserl) ad uno chiaramente denigratorio attraverso quelli più specificamente strutturalistici che qui ci interessano più da vicino pur nelle interpretazioni che andremo suggerendo. Comunque risulta altrettanto chiaro che il termine riduzione assume un vario uso lessicale a seconda dei campi in cui viene adoperato.
Nel campo della fenomenologia il compito di un atteggiamento autenticamente riduttivo e radicalmente filosofico consiste nel re-ducere, nel ricondurre la visione alle datità originarie, che in quanto immanenti costituiscono la presenza prima e fondamentale da cui bisogna partire. Husserl dice «ricondurre», perché si tratta non di creare dal niente ciò che prima non era, ma di riportarsi a ciò che in fondo già da sempre vedevamo anche senza saperlo.
Nel campo dell’epistemologia una definizione più pertinente al nostro discorso è data da Nagel: per riduzione … intendiamo la spiegazione di una teoria o di un insieme di leggi sperimentali fissate per un certo settore d’indagine, mediante una teoria di solito, anche se non inevitabilmente formulata per qualche altro settore.
Nel campo della logica formale il termine è riferito ad enunciati; riduzione equivale a trasformazione di un enunciato in un altro equipollente più semplice o più preciso o tale che riveli la verità o la falsità dell’enunciato originario.
Quest’ultimo attributo dell’enunciato connette intimamente già al livello logico l’operazione riduttiva con quella valutativa. Più in generale la stessa critica dei valori, come afferma Dewey, non è altro che la disciplina intelligente delle scelte umane.
A questo punto potremmo continuare nella rassegna dei vari significati della parola da ulteriori punti di vista, ma, sia per non appesantire il nostro discorso, sia perché gli usi più specialistici del termine nelle varie discipline si possono agevolmente ricondurre a quelli suddetti, sia ancora perché avremo occasione di ritornare sul valore semantico della «riduzione» nelle altre parti del presente scritto, passiamo senz’altro alla definizione più comune, poiché, a completamento degli strumenti necessari per porre sul tappeto e nei termini più radicali il problema, non è possibile escluderne l’accezione quantitativa, ossia riduzione come diminuzione. In tal senso riportiamo la prima definizione della parola data dal Devoto: modificazione opportuna o conveniente, riconducibile a limitazione per lo più quantitativa … a semplificazione … identificabile in una trasformazione più o meno integrale.
Peraltro l’accezione quantitativa è stata implicitamente posta a fondamento della teoria dell’informazione e sovrintende alla possibilità stessa di qualsivoglia processo comunicativo: l’informazione infatti non è altro che l’individuazione di un evento fra un numero finito o infinito di eventi possibili mediante codici riduttivi, a partire dal bit (alternativa binaria) fino alla costituzione di repertori di simboli e di sistemi di regole combinatorie.
Pertanto il concetto stesso di evento presuppone la riduzione del continuum fenomenico ad un numero discreto di situazioni discontinue da eleggere come tratti pertinenti ai fini della comunicazione. A ben guardare, dunque, se un’adeguata riduzione è la premessa di ogni possibile sviluppo semantico fino ai più estesi «universi di discorso», in una processualità che tuttavia, ben s’intende, non è a senso unico, bensì dialetticamente correlata, il portato di essa è sempre trasformativo.
Interesse-beni culturali
Per quanto riguarda le accennate implicazioni valutative e di scelta della «riduzione» culturale, è utile qui, in prima approssimazione, rifarsi alla teoria del valore come interessamento (interest theory of value) sviluppata in particolare da Dewey.
Secondo tale teoria un valore è una proprietà relativa a un interesse di un oggetto o situazione, vale a dire la proprietà di soddisfare o portare a termine un atto che richiede per il proprio compimento un oggetto con tale proprietà … I valori sono proprietà soddisfattive di oggetti o situazioni che rispondono al compimento di atti interessati.
Parlare in termini di valore, pertanto, è considerare le cose «sotto l’aspetto dell’interesse». Accettando tale enunciato, rimangono da analizzare le diverse esigenze e manifestazioni di questo interesse che in pratica inducono alla «riduzione».
In altre parole, queste proposizioni ci offrono qui l’agio di sospendere ogni assiomatico pregiudizio non solo sulla qualificazione dell’oggetto, nel nostro caso i beni culturali, ma sulla sua stessa definizione onde consentirci di porre l’accento sulle circostanze criticamente e storicamente motivate che lo rendono fruibile; ed è proprio dall’analisi di tali circostanze che deve prendere le mosse ogni attività riduttiva.
Nessun dubbio infatti che il rapporto interesse-beni culturali, di qualunque ordine e grado, dipenda allo stato attuale dalla divisione della società in classi, dalla proprietà dei mezzi di produzione e dalle altre componenti della struttura socio-economica.
Tuttavia per la dinamica stessa del rapporto struttura-sovrastruttura, la cui interazione è ancora dibattuta nell’ambito del pensiero marxista, è lecito chiedersi se sia possibile individuare una fenomenologia propria della relazione interesse-beni culturali e soprattutto se comunque, ossia all’interno di qualunque sistema socio-politico, si ponga oggi come indilazionabile il problema della «riduzione» culturale.
Ci sembra obbiettiva ed indubitabile, infatti, la duplice estensione quantitativa degli «aventi diritto» e dei beni culturali, mentre, come s’è detto all’inizio, esiste un divario profondo fra gli interessi dei primi e la produzione dei secondi.
Il compito della «riduzione» — da non confondere con le filantropiche operazioni divulgative ottocentesche, né con le più scaltrite tecniche dell’odierna industria culturale, né comunque con un ennesimo sforzo di rendere più «razionale» ed efficiente il «sistema» — dovrebbe essere proprio quello di indicare alcune modalità per il superamento di tale divario a tutto, o almeno prevalente, vantaggio della politica della cultura.
Alcuni precedenti della «riduzione»
I precedenti non mancano: D’Alembert nel Discorso preliminare dell’Enciclopedia osservava: l’arte preziosissima di disporre le idee in connessione opportuna … rende in qualche modo possibile avvicinare fra loro fin ad un certo punto, gli uomini che sembrano diversi … È forse corretto affermare che non si dà scienza o arte che non possa essere insegnata, a rigor di termini e con buona logica, all’intelletto più limitato; e poche sono quelle le cui regole e proposizioni non possano ridursi a nozioni semplici e disporsi in una connessione reciproca così immediata, che la catena non risulti in nessun punto interrotta.
In un passo precedente lo stesso autore aveva scritto: quanto più il numero dei principi di una scienza si restringe, tanto più si generalizzano i principi stessi: e siccome l’oggetto di una scienza è necessariamente limitato, i principi applicati a tale oggetto saranno tanto più fecondi quanto meno numerosi, riduzione questa che, rendendo i principi stessi più facilmente assimilabili, costituisce il verace spirito sistematico che non va confuso con lo spirito di sistema, con il quale è generalmente in dissidio.
Dal canto suo Diderot nella voce «enciclopedia» affermava: l’Accademia dovrebbe avere il compito di raccogliere tutto ciò che è stato pubblicato sopra una determinata materia, di condensarlo, di chiarirlo, sunteggiarlo, ordinarlo e pubblicarlo, in trattati nei quali ciascuna cosa occupasse soltanto lo spazio che merita di occupare, e avesse né più né meno il suo giusto rilievo. Quante memorie, che gonfiano i nostri repertori, non fornirebbero neppure una riga a siffatti trattati?
Pur notando l’attualità di alcuni di questi assunti, nonché la presenza, sia pure al livello formale, di un tale tipo di riduzione in molte delle odierne iniziative editoriali, essa è ovviamente improponibile oggi.
E ciò soprattutto perché mentre gli enciclopedisti si ponevano quali mediatori tra una cultura istituzionalizzata ed un pubblico ritenuto interessato alla loro attività riduttiva e divulgativa, fondando notoriamente sull’universalità della ragione e su un’idea di storia quale inarrestabile progresso, attualmente, nel mutato contesto storico, viene revocata in dubbio la validità assoluta della cultura istituzionalizzata; siamo avvertiti dallo scacco subito in vari momenti della storia circa i limiti di quella razionalità; non siamo in grado di cogliere la portata e il reale orientamento degli interessi d’un pubblico, divenuto intanto molto più vasto ed eterogeneo.
Pertanto, al fine di superare quel divario tra produzione di beni culturali e capacità ricettiva del pubblico, dovuto evidentemente, fra l’altro, ad uno sfalsamento d’interesse, è necessario chiedersi quali valori-interessi veicola oggi la cultura istituzionalizzata e d’altra parte quali attese reali e non eterodirette il pubblico manifesta attraverso una cultura di cui tutti siamo partecipi.
La «riduzione» nella cultura storico-scientifica
Il divario sopra indicato nel rapporto tra beni culturali e pubblico si ritrova sotto diversi aspetti all’interno di molte discipline. Nell’ambito stesso della cultura storico-scientifica si avvertono oggi innumerevoli contraddizioni e situazioni talvolta paralizzanti, donde la necessità di una sua ristrutturazione e, a nostro avviso, di un’adeguata riduzione.
In campo scientifico possiamo considerare un precedente dell’attività riduttiva, ai fini della conoscenza, dell’operatività e della didattica, la ricerca di criteri di classificazione.
I rapporti fra le varie scienze furono uno dei problemi più discussi durante il periodo positivista. I tentativi per darne una soluzione sono rappresentati dai ben noti schemi di classificazione delle scienze.
La prima, più celebre, di tali classificazioni fu quella di Comte. Essa si basava su criteri teoretici e storici: disponeva infatti le scienze in ordine procedente dalle scienze più semplici (la matematica) a quelle via via più complesse, ordine confermato — così almeno riteneva il Comte — dalla rispettiva data di nascita (non potendo non essere posteriore la scoperta delle scienze aventi un oggetto più complesso e costrette, per svilupparsi, a far uso dei risultati delle scienze più semplici).
Nell’esporre questo procedimento, condiviso da tutti i più autorevoli rappresentanti del positivismo ottocentesco, Geymonat, pur riconoscendo alcuni pregi di tale classificazione, ne rileva l’inadeguatezza e l’errata impostazione: assumeva infatti la forma di problema dei rapporti tra i risultati delle singole scienze, mentre avrebbe dovuto limitarsi a studiare i rapporti tra i linguaggi scientifici e le tecniche di ricerca.
Un ulteriore tentativo di classificazione ed implicitamente, in un certo senso, di riduzione fu operato nell’ambito dello storicismo tedesco contemporaneo, per cui le scienze venivano divise in nomologiche, ossia quelle della natura, e ideografiche, ovvero le tradizionali discipline umanistiche.
Del più recente impegno classificatorio, nella fiducia di una possibile unificazione delle scienze, è espressione l’International Encyclopedia of Unified Science, nell’ambito della quale però lo stesso tema dell’unificazione viene affrontato con diversi criteri. Gli autori di tali ricerche, come del resto anche molti altri studiosi precedenti, hanno in comune, sebbene riferendosi ciascuno ad una disciplina diversa, l’ideale d’una scienza-guida.
Come osserva Nagel, quell’ideale continua a stimolare la speculazione scientifica attuale e, in ogni caso, il fenomeno che una teoria relativamente autonoma venga assorbita da una qualche altra teoria più vasta, o ridotta ad essa è innegabilmente una caratteristica ricorrente nella storia della scienza moderna. Abbiamo tutte le ragioni per credere che tale riduzione avrà luogo anche in futuro.
Da quanto precede possiamo rilevare che il tema della «riduzione» non è un obiettivo puramente strumentale, un modo per superare l’impermeabilità fra diverse discipline e un momento della strategia mirante a saldare il divario fra pubblico e cultura, ma sotto molti aspetti s’identifica addirittura con la meta stessa cui tendono i più vari e qualificati settori di ricerca. Al limite, esso costituisce la caratteristica metodologica propria della ricerca scientifica.
Come affermava Einstein, il fine della scienza è, da un lato, la comprensione più completa possibile della connessione fra le esperienze sensibili nella loro totalità, e dall’altro, il raggiungimento di tale fine «con l’impiego di un minimo di concetti primari e di relazioni». Egli parlava di vari stadi riduttivi che consentono di procedere dai «concetti primari», che guidano l’esperienza sensibile, al minimo sistema di principi logici generali. La scienza impiega la totalità dei concetti primari, cioè concetti direttamente connessi con l’esperienza sensibile, e proposizioni che li collegano.
In questa prima fase di sviluppo, la scienza non contiene nient’altro … Per supplire a questa deficienza [di unità logica] si inventa un sistema più povero in concetti e relazioni, un sistema che conservi i concetti primari e le relazioni del «primo strato» come concetti e relazioni logicamente derivati. Questo nuovo «sistema secondario» è redditizio per la sua più alta unità logica, avendo in sé concetti elementari (concetti del secondo strato) che non sono più direttamente connessi con i complessi delle esperienze sensibili. Un successivo sforzo verso l’unità logica ci porta a un sistema terziario ancora più povero in concetti e relazioni, perché la deduzione dei concetti e relazioni è compiuta dallo strato secondario (e così indirettamente dal primario).
Così si va avanti finché si sia giunti a un sistema della massima unità concepibile e della massima povertà di concetti di fondamenti logici, compatibile tuttavia con le osservazioni ricavate dai sensi. Noi non sappiamo se questa ambizione si concluderà o no in un sistema definitivo. Si è portati a rispondere di no a chi ponga questa domanda. Studiando i problemi, però, non si perderà la speranza che questo fine supremo possa essere realmente raggiunto a un altissimo grado.
Ora, possiamo ritenere che questi obbiettivi e tendenze della «riduzione» in campo scientifico valgano anche per le cosiddette scienze umane e in particolare per la storiografia dell’arte e dell’architettura, per l’estetica, per la critica, per i problemi della comunicazione visiva? Secondo la metodologia individuata dallo strutturalismo riteniamo che la risposta sia senz’altro affermativa.
Tralasciamo in questa sede il dibattito su tutti gli usi e significati del termine struttura per assumerne uno che ci sembra più pertinente al tema della riduzione. Assumiamo cioè per «riduzione» strutturale di una disciplina la sua organizzazione e semplificazione in base ad un ordine relazionale di leggi e criteri, sia ad essa peculiari, così come si sono venuti storicamente determinando, sia appartenenti ad altri campi di esperienza, purché ipotizzabili come pertinenti ed operativamente utili agli sviluppi di quella disciplina nel settore della ricerca e della didattica.
In pratica che cosa comporta la suddetta definizione di riduzione strutturale? Anzitutto, senza volere assolutamente porre dei limiti alle attività volte all’accumulo di dati, nozioni ed esperienze, oggi peraltro facilitate dalla moderna tecnologia, appare evidente che proprio per sfuggire alla dispersione derivante dall’eccesso d’informazioni disponibili è necessario, operando la suddetta riduzione strutturale, attenersi a dei criteri di economia che sono i soli a consentire una completa e costruttiva esperienza.
Inoltre la «riduzione» strutturale, mentre non disconosce la specificità di ciascuna disciplina, anzi ne rafforza e delimita ad un tempo il corpus, grazie al criterio di pertinenza, è una metodica che consente a ciascun settore disciplinare di mutuare leggi e criteri esterni, assimilandoli al proprio sistema. Si pensi, a parte il controverso ruolo di scienza guida, a quante indicazioni l’antropologia, la psicologia, l’estetica, la storiografia, la critica d’arte ecc. hanno tratto in questi ultimi anni dalla linguistica strutturale.
La «riduzione» e l’attività interdisciplinare
La nostra proposta «riduttiva» ci sembra particolarmente utile a chiarire la generica e ricorrente esortazione alla interdisciplinarietà della ricerca e più in generale alla dinamica del lavoro di gruppo. Nessun dubbio sulla necessità di questo tipo di operazione, richiesto ormai quasi in ogni settore ed a qualsiasi livello. Tuttavia per evitarne i frequenti fallimenti e le non meno rare mistificazioni occorre chiarire i reciproci rapporti di competenza, complementarità ed integrazione delle varie discipline chiamate a collaborare in relazione agli scopi da perseguire.
In particolare le disfunzioni più frequenti sono: a) la sovrapposizione delle competenze che smentisce il principio d’integrazione; b) all’opposto, la incompatibilità degli apporti con il conseguente prevalere di uno sugli altri, che ovviamente vanifica la collaborazione. La «riduzione» strutturale corregge tali inconvenienti nella misura in cui ciascuna disciplina venga rapportata alla struttura delle altre, ovvero giunga alla fase operativa essendo stata già predisposta da una sua propria riduzione che la renda parte — e parte comprensibile alle altre — di un tutto.
Non si tratta quindi solo di una maggiore preparazione individuale, di una collaborazione fra scienziati ciascuno specializzato nel proprio campo, ma provvisto pure di una solida ed esercitata dimestichezza con le materie dei suoi colleghi, tutti abituati a lavorare insieme … e a riconoscere il significato di un nuovo suggerimento prima che esso abbia assunto piena espressione formale, ma, come s’è detto, d’una predisposizione strutturale delle singole discipline.
In altre parole, perché un’attività interdisciplinare si risolva in un’operazione strutturata dove il risultato di insieme valga più di quello della somma delle singole parti, è necessario che ciascuna disciplina «riduca» il suo corpus in maniera da non perdere la sua specificità ma al tempo stesso da essere intelligibile ed integrabile al corpus delle altre, ognuna avendo effettuato per suo conto ed in anticipo tale riduzione.
La «riduzione» nella didattica
Il nostro tema trova il suo punto centrale nell’attività didattica che, come vedremo, a partire da un determinato settore della scuola si estende all’intera società. L’odierno panorama degli studi pedagogici è infatti caratterizzato da una pluralistica revisione di quei principi generali che, a partire dalla fine del secolo scorso, hanno informato, pur con diversi accenti e distinte matrici storico-culturali, il cosiddetto «attivismo» pedagogico in tutto il mondo occidentale.
Il riassumerli anche brevemente in questa sede rischierebbe di confondere il lettore; vale anzi qui subito metterlo in guardia contro le troppo facili e comprensive generalizzazioni, che spesso assimilano contributi di natura e portata estremamente diversa e contro le conseguenti mistificazioni riformistiche volte a conservare, con alcuni formali aggiornamenti, tradizionali e screditati ordinamenti e istituzioni.
Abbiamo già accennato al binomio valore-interesse; esso costituisce anche nel settore dell’educazione uno dei capisaldi del pensiero deweiano. Dewey fu notoriamente uno dei più autorevoli sostenitori dell’attivismo pedagogico, che egli riassunse nel suo «credo» in cinque famose proposizioni.
Tra queste ricorderemo la più vicina al tema della «riduzione»: la vita sociale del fanciullo è il principio unificatore di tutta la sua educazione e del suo sviluppo. La vita sociale conferisce un’inconsapevole unità ed uno sfondo ad ogni suo sforzo e ad ogni sua iniziativa … Il vero centro (dell’apprendimento) … non è nella scienza o nella letteratura o nella storia o nella geografia, ma nelle attività sociali del fanciullo.
Preso alla lettera, così come è stato inteso e spesso frainteso nelle scuole americane, tale assunto suggerisce una riduzione didattica a spese del rigido ordinamento per discipline, ereditato dalla tradizione europea.
Più recentemente molti pedagogisti e psicologi americani, tra i quali il Bruner, hanno denunciato i limiti della concezione dewiana soprattutto in relazione ad una rivalutazione delle strutture disciplinari e della loro potenziale carica riformatrice di quella società di cui la scuola costituisce comunque un’espressione. Bruner, a nostro avviso criticandone più le conseguenze pratiche che l’aspetto teoretico conclude: l’insegnamento di una disciplina può essere portato a termine con successo solo in rapporto ad una determinata concezione del sapere.
Ora tale sapere è una costruzione esemplare che ha il fine di dare un significato a motivi costanti incontrati nell’esperienza e di inserirli in una «struttura». Le idee organizzatrici di un qualsiasi insieme di conoscenze sono scoperte che mirano a connettere e semplificare l’esperienza: in fisica si è scoperta l’idea di forza, in chimica quella di combinazione, in psicologia l’idea di motivazione, in letteratura quella di stile, al fine, sempre, di avere strumenti di comprensione. La storia della cultura è la storia dello sviluppo delle grandi idee organizzative o strutturali. A questo accento di marca strutturalista, Bruner ne associa un altro di tipo più spiccatamente «riduttivo».
Occorre perciò soffermarsi sulla preminente esigenza di una economia massima nel processo di apprendimento e stabilire intanto che non sarebbe possibile «dominare» interamente una materia neanche con una vita intera, se dominare significa prendere in considerazione tutti i fatti, tutti gli eventi, insomma ogni particolare.
Al contrario, una materia presentata in modo da porre in luce la sua struttura logica avrà una forza generativa che permetterà all’individuo di ricostruire i particolari, o per lo meno, gli consentirà di preparare uno schema funzionale dove i particolari potranno essere sistemati via via che s’incontreranno.
Ma il problema della «riduzione» in campo didattico non si esaurisce evidentemente nell’alternativa fra un insegnamento che vada oltre le discipline istituzionalizzate e uno che le renda più facilmente assimilabili e formative. Una sintesi in tal senso, e fuori dai temi tipici dell’etica e del costume americano, può trovarsi facilmente altrove. Valga per tutti quanto già il De Sanctis ricordava della sua prima turbolenta esperienza didattica.
Pensavo: — il torto non è tutto loro, ma è anche un po’ mio che non so interessarli — E m’ingegnai, e posi tutto il mio insegnamento sulla lavagna per attirare l’attenzione e l’occhio di tutti. Quelle maledette regole grammaticali io le ridussi in poche, moltiplicando le applicazioni e gli esempi e sempre lì sulla lavagna … Mi persuasi che quello resta chiaro e saldo nella memoria, che è ordinato sotto categorie e schemi, logicamente … La mia mente abborriva dai fatti singoli e dai metodi empirici, e correva diritto alle leggi, ai rapporti, riducendo i particolari sotto specie e generi … Questi quadri avevano un altro lato buono, che non erano materia morta e noiosa nei libri, ma nascevano lì vivi sulla lavagna, formati da me e dai giovani, ciascuno per la sua parte, con una collaborazione paziente.
Il racconto, con le sue evidenti connotazioni romantiche, che non ha altra pretesa se non di narrare il superamento d’una iniziale diffidenza tra docente ed allievi in un clima fortemente condizionato, pure rivela chiaramente un’anticipazione del metodo attivo e una tematica sotto molti aspetti ancora attuale, basti pensare a quell’insistenza nel visualizzare sulla lavagna i passaggi d’una disciplina assai poco formalizzabile come l’insegnamento delle lettere.
E De Sanctis prosegue: vidi che loro andavano appresso alle cose e non alle parole; scelsi allora dei brani nei quali la materia fosse interessante, spiegando loro il senso e il nesso delle idee, e le gradazioni più delicate del pensiero incarnato nelle parole. Posi da banda le analisi grammaticali e l’analisi logica, noiosissime, e feci l’analisi delle cose, a loro gustosissima.
Ritornando agli autori americani e all’alternativa fra scuola attiva in base ad un interesse sociale degli allievi o attiva nel senso d’una ristrutturazione disciplinare, sembra necessario che entrambe le tendenze convergano al fine di trasformare la società. In tal senso Bruner non contraddice Dewey quando ripropone in un altro contesto una generica «attività sociale» dell’allievo. Io credo, afferma Bruner, che l’educazione sia il mezzo fondamentale della trasformazione della società.
Persino le rivoluzioni non sono migliori delle idee che impersonificano e dei mezzi che sanno usare per realizzare tali idee.
Viviamo in un’epoca in cui i cambiamenti sono più rapidi che mai prima nella storia e la diffusione delle notizie ad essi relative pressoché istantanea. Se vogliamo quindi credere seriamente in una scuola che possa essere apprezzata per se stessa, e non quale mera preparazione alla vita, tale scuola deve allora riflettere le trasformazioni che veniamo vivendo.

Ma una testimonianza assai più ricca di connotazioni didattico-politiche è offerta dall’intervento di Chomsky in un dibattito sul tema Gli intellettuali americani e la scuola. In circostanze più felici, egli osserva, mi sarebbe piaciuto affrontare l’argomento di questo dibattito in termini piuttosto tecnici e professionali, chiedendo quale potrebbe essere il modo migliore per rendere gli studenti ricettivi alle idee guida e alla riflessione più penetrante nei campi che maggiormente mi interessano, in che modo potrebbero essere aiutati a sperimentare il gusto della scoperta e dell’intuizione rivelatrice e a cogliere l’occasione per dare un loro personale contributo alla cultura contemporanea. In questo particolare momento storico, però, abbiamo di fronte ben altri e più pressanti problemi.
L’autore si riferisce alle contemporanee vicende della guerra del Vietnam e a tal proposito stigmatizza la collusione di alcuni intellettuali americani con il potere costituito; ma, sebbene egli dica che l’attuale momento storico gli impedisce di parlare di cultura, ad un livello rigorosamente disciplinare, più avanti riconosce che, di fronte alla spietata macchina bellica della moderna tecnologia, l’unico freno efficace può essere una reazione popolare su scala di massa negli Stati Uniti stessi.
Di conseguenza, il livello culturale che può essere raggiunto negli Stati Uniti è una questione di vita o di morte per grandi masse di umanità sofferente; e più avanti aggiunge: forse non è assurdo suggerire l’ipotesi che le scuole rivolgano l’attenzione a qualcosa di più astratto, per tentare di offrire agli studenti alcuni strumenti per difendersi dall’attacco furibondo del massiccio apparato propagandistico del governo, dai preconcetti instillati dai mezzi di comunicazione di massa e — per tornare all’argomento specifico di questo discorso — dalla naturale tendenza di notevoli settori della comunità intellettuale americana a offrire i loro fedeli servigi non alla verità e alla giustizia, ma al potere e all’esercizio efficace del potere.
I brani di Chomsky citati non toccano evidentemente il nostro tema della «riduzione» didattica, tuttavia li abbiamo ricordati perché, condividendo quei giudizi, vogliamo ribadire che la nostra proposta riduttiva non ha intenzioni efficientistiche o razionalizzatrici degli attuali sistemi politico e didattico, ma anzi l’obbiettivo di contribuire ad una più diffusa coscienza critica o autocritica di essi.
Molti altri problemi gravano sulla scuola italiana, paralizzata da carenze di ogni genere al punto tale che ogni discorso didattico appare sempre inadeguato ai disagi contingenti. Questi derivano, com’è noto, da un accumulo di inadempienze, dalla mancanza di volontà politica della classe dirigente e trovano la loro più palese manifestazione nella conflittualità esistente fra tutte le componenti della scuola stessa.
Sicché quella dicotomia scuola-società che altrove caratterizza ed orienta il discorso pedagogico, qui costituisce con le sue contraddizioni forse l’aspetto più paralizzante della nostra situazione. Pertanto, sembrerebbe anacronistico in questo frangente proporre una riduzione alle strutture, da una parte, di una scuola le cui istituzioni sono tanto labili quanto sclerotiche e, dall’altra, di una società in piena crisi ideologica e politica.
Tuttavia, vi sono segni tali nel presente e nel prevedibile futuro apparato «tecnico» per cui è lecito ritenere che, ove mai si risolvessero molte delle attuali carenze fino a raggiungere quella condizione limite, emergente dalla pedagogia post-attivistica d’una comunità tutta inter-docente e insieme inter-discente, rimarrebbe il problema del rinnovamento della metodologia didattica che il nuovo contesto porrebbe.
Comunque, anche senza giungere a tale condizione utopistica, non c’è dubbio che il rapporto scuola-società sia di natura dialettica, ma, affinché questo si risolva in un rinnovamento di entrambe le strutture, è necessario, a nostro avviso, — in analogia con quanto s’è detto a proposito del lavoro di gruppo e della ricerca interdisciplinare — che sia la società, sia la scuola operino l’una nei confronti dell’altra un’adeguata riduzione.
In altre parole, i problemi della società andrebbero ridotti sotto la specie dell’educazione e reciprocamente quelli della scuola, soprattutto dell’università, ridotti sotto la specie degli interessi sociali. Inoltre, è necessario rifarsi ad alcuni specifici campi di pertinenza, comprensivi sì delle due sfere, ma tali che l’una non esautori l’altra, pena la perdita di una fondamentale infrastruttura della società o all’opposto l’estraniazione accademica della istituzione scolastica dalla fenomenologia sociale.
Ma se questo può valere ad indicare una generale linea di condotta, è lecito chiedersi fino a che punto le ricerche disciplinari più avanzate possano considerarsi per ciò stesso coerenti con tale linea. L. Lombardo Radice critica in questo senso l’«aristocraticismo» di molti scienziati d’avanguardia, preoccupati solo di essere seguiti dalle pattuglie più avanzate, privi di interesse per il complesso, difficile, faticoso processo di trasformazione della scoperta più ardua e avanzata in «senso comune».
In realtà la stessa ricerca scientifica di «punta» avanza tanto più rapidamente quanto più si appoggia a una larga base di cultura moderna, a una mentalità moderna di massa. Sappiamo bene che occuparsi anche di questo, dell’educazione della mente dell’uomo comune, è aggiungere lavoro a lavoro, fatica a fatica; ma si tratta di un lavoro e di una fatica necessari, indispensabili per il progresso scientifico stesso.
D’altra parte identificare avanguardia e difficoltà di comprensione nella scienza come nell’arte è luogo comune quanto equivoco. In primo luogo, come afferma lo stesso Lombardo Radice a proposito dell’insegnamento della matematica, c’è sempre un momento nel quale deve entrare nella cultura di base ciò che era considerato fino a poco tempo prima risultato d’avanguardia…
In secondo luogo: facile o difficile per chi? Le novità appaiono difficili a chi ha già una determinata struttura mentale e culturale, a chi già conosce le cose in un certo modo; ma sono molto spesso più facili del vecchio, del tradizionale per chi non sa ancora nulla, per chi deve ancora formarsi una mentalità e una cultura. Le novità, in definitiva, prevalgono perché rappresentano strumenti più potenti e più semplici di quelli in uso precedentemente … Indubbiamente, il processo di «elementarizzazione» della scienza d’avanguardia non è affatto automatico.
Esso richiede, al contrario, un grande sforzo scientifico e didattico, culturale e metodologico. Trovare il modo per rendere accessibile il nuovo della scienza alle menti in formazione significa, insieme, chiarire, semplificare, ridurre all’essenziale quel nuovo, e trovare le rappresentazioni, i modelli più facilmente afferrabili e intuibili.
Un esempio di «riduzione» didattica
A conclusione delle considerazioni sull’attività riduttiva nel settore della didattica, riteniamo opportuno far cenno ad un’esperienza in cui siamo direttamente impegnati: l’insegnamento della storiografia architettonica. Ma prima di entrare nel vivo del nostro esempio, soffermiamoci ad indicare due aspetti dell’attività storiografica attinenti al tema della riduzione, mentre, per quanto concerne i problemi più generali della ricerca storica, rimandiamo ad altri nostri precedenti studi.
Anzitutto va osservato che ogni ricerca storica, in quanto individua eventi significativi nel continuum dei «fatti accaduti ordinandolo in tratti discreti e correlati, può sempre considerarsi un’attività riduttiva. In secondo luogo, anticipando una conclusione, diremo che per «riduzione» nella didattica della storiografia architettonica intendiamo la scelta critica di quel limitato numero di opere che meglio esprimono o suggeriscono l’intima relazione fra l’architettura e le più profonde istanze sociali, politiche, religiose, culturali etc. della sua epoca; ossia proponiamo una limitazione quantitativa per una estensione relazionale.
Le pagine che seguono intendono mostrare i criteri in base ai quali scegliere quelle fabbriche particolari che possono assumersi come parametro storiografico.
Per la storia dell’architettura e dell’arte possediamo già una nozione potenzialmente riduttiva, quella di stile. In passato, essa è stata adottata in due principali e contrastanti accezioni.
Una prima, di antica origine ma ripresa dalla storiografia positivista, nel tendere ad una rigida classificazione dei periodi storici e degli edifici, assumeva il termine stile in senso generalizzante e normativo; la metodologia conseguente si dimostrava utile in campo didattico poiché riduceva la vasta e complessa produzione architettonica e la relativa problematica a poche e schematiche sezioni, nelle quali tuttavia rientravano con grande difficoltà le opere reali, specie quelle più innovatrici ed emergenti; donde o la necessità di rifare di volta in volta gli schemi o, come più spesso è accaduto, di bollare come eretiche le opere rivoluzionarie.
La seconda accezione, quella della storiografia romantico-idealista, viceversa, delimitava il concetto di stile esclusivamente all’attività d’un singolo artista; donde coerentemente la forma didascalica più corretta era una storia redatta per monografie di singoli autori. Tuttavia, poiché oggettivamente non si potevano ignorare i tratti comuni nella produzione artistica d’una stessa epoca o scuola, pena la perdita dell’inquadramento storico, della storicità stessa delle opere studiate, in questa corrente storiografica si ricorreva alla primitiva accezione generalizzante del termine stile salvo a sostituirlo con dei sinonimi, quali «età tale», «gusto talaltro», «cultura dell’epoca» ecc.
Alla luce delle più recenti esperienze la nozione di stile assume un diverso valore e risulta molto più problematica di quanto non ritenessero gli orientamenti storiografici ricordati. Essa è anzitutto riduttiva in quanto indica i tratti comuni delle opere appartenenti ad uno stesso periodo, ad una stessa area culturale, ad una stessa scuola; a maggior ragione riferito alle opere di una singola personalità artistica, lo stile accomuna i fattori in esse ricorrenti.
D’altra parte, permettendo di accomunare, unificare, sintetizzare e «ridurre», lo stile ci consente in pari tempo, grazie ai suoi tratti discreti, di distinguere un gruppo di fabbriche da quelle prodotte in epoche precedenti e seguenti.
Cosicché, nello stesso modo in cui la ricerca individuante della storiografia tradizionale isolava, come s’è detto, un monumento dal suo contesto culturale, quella condotta col parametro dello stile isola un insieme organico di tratti comuni; la storiografia «stilistica» è, per così dire, una riduzione di secondo grado. Evidentemente questa ambiguità inerente al concetto di stile, distintivo ed unificante, individuante e generalizzante al tempo stesso, è di natura dialettica; l’errore delle tendenze storiografiche sopra citate sta essenzialmente nell’aver colto in modo unilaterale i distinti poli di detta dialettica.
Il problema dello stile ovviamente non si esaurisce qui e peraltro, come abbiamo anticipato, siamo alla ricerca di un parametro ancor più riduttivo dello stile, al quale deve essere tuttavia intimamente connesso e dal quale è indispensabile partire.
Notoriamente il concetto di stile può ricondursi a quello di tipo-ideale teorizzato da Weber. In tal senso, Hauser osserva: il carattere stilistico non è uno schema che semplicemente si ripete, ma piuttosto un paradigma che non è interamente contenuto in nessun esempio concreto. Lo si deve pensare come caso ideale, che non può esaurire nessun caso particolare, o come tipo che non può esaurire nessuna individualità.
E riferendosi in particolar modo alla sua funzione di modello referenziale, prosegue: Proprio in quanto tale il concetto di stile adempie alla sua funzione principale nella storia dell’arte. Serve come norma per giudicare la misura in cui l’opera d’arte singola rappresenta il suo tempo, o un particolare aspetto del suo tempo, e in cui è legata ad altre opere dello stesso tempo o dello stesso indirizzo. Tuttavia, lo stesso Hauser obietta che mentre altri tipi-ideali, ad esempio «la» città medievale, possono considerarsi legittimamente un’astrazione, lo stile in arte rappresenta almeno in parte qualcosa di obiettivo e di reale traducibile in specifiche forme, tant’è vero che rispetto allo stile della propria epoca ogni artista si trova in un rapporto di tensione più o meno forte.
Altrove abbiamo dato una interpretazione più estesa a questo giusto rilievo, qui esso ci suggerisce un’altra domanda più pertinente al tema che studiamo. Che rapporto esiste fra lo stile e le opere reali? In sede didattica, conoscere lo stile in luogo delle opere non equivale forse a conoscere solo le strutture d’una lingua, ignorando i testi reali? La risposta a questi interrogativi e l’individuazione di quei parametri riduttivi cui sopra abbiamo accennato può ricavarsi da alcune indicazioni della linguistica strutturale.
Infatti, lo stile, ovvero un modello, una struttura, un codice è a sua volta solo un termine di un’altra polarità dialettica, quella che esso stabilisce con l’opera reale; allo stesso modo che in linguistica la langue si pone in rapporto dialettico con la parole. Con il primo termine De Saussure indicava il prodotto sociale della facoltà del linguaggio e con il secondo un atto individuale nell’uso del linguaggio.
Sulla stessa dicotomia Bröndal scrive: la lingua è un’entità puramente astratta, una norma superiore agli individui, un insieme di tipi essenziali, che la parola realizza in modo infinitamente variabile; e ancor più esplicitamente Martinet: Questa lingua … non si manifesta che attraverso il discorso, o se si preferisce attraverso atti di parola (parole). Ma il discorso, gli atti di parola, non sono la lingua. L’opposizione fra lingua e parola si può esprimere anche in termini di codice e messaggio, dove il codice è l’organizzazione che permette la redazione del messaggio e ciò con cui si confronta ogni elemento di un messaggio per ricavarne il senso. Bisogna convincersi … che la parola non fa che concretare l’organizzazione della lingua.
Ora, anche se la trasposizione della dicotomia linguistica in campo architettonico lascia alcuni margini di indeterminazione e quindi non si può effettuare meccanicamente, ci sembra tuttavia lecito assimilare la nozione di stile a quella di langue o codice e considerare le singole opere come atti di parole o messaggi. Infatti, come non si dà langue senza parole, né codici senza messaggi e viceversa, così lo stile rimane una pura astrazione senza le opere che lo incarnano, né queste sono decodificabili senza il riferimento ad uno stile.
In altri termini, mentre le fabbriche danno corpo a quell’organizzazione «artificiale» che chiamiamo stile, codice, struttura, questa rende attuabili, riconoscibili e comunicative quelle fabbriche, implicando l’idea di stile non solo una retrospettiva storica, ma una presenza viva prima, durante e dopo la conformazione di un edificio.
Ed è proprio un codice, ancora, che ci consente, nel quadro storico dell’architettura, l’accostamento a quella fitta rete di omogenei fatti diacronici (le fabbriche) e di eterogenei fenomeni sincronici (gli eventi socio-culturali), specialmente quando per motivi didattici vogliamo operare una riduzione. Inoltre essendo, come s’è detto, una «costruzione artificiale», quel codice implica una «presa di posizione».
Infatti esso viene postulato come una struttura soggiacente ad una serie di opere concrete, riconoscibili e decodificabili proprio rispetto ad essa. Ma allora così facendo non si ricade in una storia pregiudiziale ed «ideologica»? La risposta è negativa perché quel postulare un modello, una struttura, un codice per i fatti concreti è dato nonché come polo dialetticamente correlato, soprattutto come ipotetico, tipico-ideale, valendo solo nella misura in cui rivela gli eventi e non si serve, viceversa, di essi per «giustificare» una «ideologia».
La presa di posizione sta proprio nel rifiutare da un lato la presunta obiettività dei fatti (nel nostro caso la pretesa di chi sostiene il valore esaustivo della filologia) e dall’altro l’«ideologia», per tentare di cogliere il reciproco valore relazionale delle opere nella prospettiva storica attuale.
Dopo aver suggerito l’analogia fra le due dicotomie langue/parole e stile/opere, è necessario ai fini del nostro discorso sulla riduzione individuare quelle opere che esplicitano meglio tale rapporto dialettico, che incarnando uno stile rendono ancor più riduttivo il compito didattico, che infine traducono la riduzione stilistica, i cui limiti sono stati provati nella tradizionale storiografia, in una riduzione operante nel vivo delle opere reali.
Quali sono dunque le fabbriche rispondenti ai suddetti requisiti? Possiamo identificarle senz’altro con quegli edifici artisticamente emergenti che si pongono o diventano paradigmatici, ossia modelli per i successivi esemplari? Non sempre; essi sono per definizione episodi che, derogando dalle norme precedenti, pongono in crisi il preesistente codice e suggeriscono una nuova codificazione, della quale però di rado fissano interamente i caratteri.
Tale compito è invece assolto da quelle opere che si pongono all’interno della dialettica codice/messaggio non per mutare il primo termine, ma per fissarlo e riassumerlo. Questa vasta categoria di edifici dotati di artisticità inerente, consente peraltro agevolmente di paragonare l’architettura alla lingua, di parlare di un linguaggio architettonico. Essi non si possono identificare con il codice perché sono dei casi concreti e non delle astrazioni tipico-ideali, ma si distinguono dagli altri messaggi perché, nell’incarnare uno stile, nel visualizzare sinteticamente un codice, vanno ben oltre le denotazioni e connotazioni della produzione tettonica corrente.
Definiremo queste fabbriche emblematiche riferendoci all’originale significato della parola έμβλημα, ossia «cosa inserita», «ciò che è inscritto»; infatti gli edifici suddetti sono inseribili fra il codice e il messaggio. La riduzione della didattica storiografica a poche fabbriche emblematiche, come s’è detto all’inizio del presente paragrafo, rende possibile il maggior numero di riferimenti sociali, politici, religiosi, culturali ecc., ossia riconduce a pochi e concreti casi il più vasto orizzonte storiografico.
Il grado di emblematicità sta ovviamente nel numero di «informazioni» contenute in una fabbrica. È compito del ricercatore individuare e scegliere gli edifici più emblematici d’una data epoca o di un singolo architetto, in ciò rispettando i capisaldi storiografici della individualità e selettività; e tale scelta non è arbitraria perché è guidata da un ordine relazionale del caso prescelto con la struttura o stile dell’epoca.
Un esempio di quanto sopra abbiamo notato è riscontrabile nella produzione di Le Corbusier: la cappella di Ronchamp per il suo carattere artisticamente emergente ed eversivo rientra senza dubbio nel novero delle opere paradigmatiche in quanto ha posto in crisi tutta la precedente tipologia degli edifici per il culto e al tempo stesso si è posta come modello per gran parte della produzione architettonica successiva; d’altra parte non è sufficientemente emblematica perché non risulta immediatamente relazionabile ad altri eventi contemporanei.
Viceversa, l’Unità di abitazione di Marsiglia, pur carica di valori paradigmatici, è anche e forse soprattutto emblematica in quanto riassume per un verso una ricerca dello stesso architetto durata vari decenni e per un altro la problematica socio-culturale di tutto il Razionalismo. Peraltro, grazie proprio alle opere emblematiche, è possibile valutare la carica eversiva di quelle paradigmatiche.
Le obiezioni alla nostra proposta di «riduzione» storiografica possono essere molte. La più immediata può essere quella per cui, considerando alcuni la storia dell’architettura come un concatenarsi di eventi, il nostro estrapolare pochi casi emblematici produrrebbe delle irreparabili soluzioni di continuità.
Replichiamo osservando che il mero concatenamento degli eventi presuppone una causalità meccanica, una successione cronologica di cause ed effetti, laddove in realtà in questa come in ogni altra attività storiografica si tratta di una causalità condizionale, nella quale gli eventi vanno considerati come nodi di relazioni circostanziali; la nostra scelta di pochi edifici mira appunto a coglierne la più ricca storicità contro la meno significativa connessione cronologica.
Un’altra obiezione può essere la seguente: con le evidenti implicazioni semiotico-strutturali del nostro discorso riduttivo, con il porre l’accento sul «significato» delle opere emblematiche, si rischia di perdere di vista la valenza estetica specifica di queste e soprattutto delle opere che non consideriamo tali, ossia di non cogliere l’«astanza» delle fabbriche.
Tale obiezione ne richiama un’altra di segno opposto: pur nascendo la nostra proposta riduttiva delle fabbriche emblematiche dall’esigenza di relazionarle a tutte le circostanze che ne determinano la conformazione, si potrebbe rilevare che, partendo comunque da edifici reali non potremmo assolvere mai il compito di analizzare profondamente la più vasta e determinante problematica politica, sociale ed economica.
Quest’ultima, poiché ci occupiamo di una storia speciale — e non riconosciamo se non storie speciali — dovrebbe peraltro da sola cadere; tuttavia replichiamo al determinismo che la ispira contemporaneamente all’idealismo che ispira la prima, ricordando quanto già abbiamo affermato in un precedente saggio, dove muovendo da un’altra dicotomia linguistica, quella degli assi sintagmatico e associativo, abbiamo osservato che il significato dei monumenti va considerato in due modi fra loro correlati.
Esiste un significato dell’opera (sintagmatico) che va rintracciato nella struttura interna ad essa, in quella che chiamiamo la sua symmetria; e per tale indagine vanno impiegati gli strumenti critici offerti da alcune teorie specifiche delle arti visive, come per esempio l’Einfühlung, la pura visibilità, la teoria gestaltica ecc. Accanto a questo esiste un altro significato dell’opera (associativo) che va rintracciato in tutti quei fattori esterni, ma ad essa mentalmente associabili, come quelli politici, economici, culturali ecc. relativi alla sua storicità. Ora, l’individuazione e lo studio delle opere emblematiche ci sembra assolvere nel modo migliore questo duplice compito.
Un’ultima e più fondata obiezione può essere quella per cui la «riduzione» storiografica — che, è bene ripeterlo, qui consideriamo solo come proposta didattica — rischia di ridurre la storiografia in semiologia.
Ma, anche a voler considerar quest’ultima come mera scienza dei segni — cosa alla quale non crediamo perché appena definita la natura dei segni da esaminare, emergono insieme tutta la specificità e lo spessore storico di essi — applicata al linguaggio architettonico, la semiologia si coniuga inevitabilmente alla storiografia: il solo individuare dei casi emblematici (ma questo vale per qualunque definizione di un corpus da analizzare in chiave semiotica) già implica appunto un’attività individuante, ed una selettiva in relazione agli attuali interessi; tutte operazioni notoriamente appartenenti al metodo storico.
Certo, la integrazione di questo con quello semiotico-strutturale conferisce un accento particolare alla tradizionale storiografia architettonica, ma proprio in esso va individuato, a nostro avviso, l’aspetto più attendibile dell’odierna attività critica, il nostro modo d’intendere la contemporaneità della storia.
E proprio in virtù del principio di contemporaneità il nostro esempio di riduzione didattica relativo alla storiografia architettonica non può chiudersi senza un cenno al rapporto fra storia e progettazione. Diciamo subito che la storiografia, essendo coscienza critica e problematica degli eventi, ove mai non riuscisse a trovare un suo impiego «pratico», avrebbe comunque un ruolo notevole, poiché essendo tutto storicizzabile, il suo porre costantemente dei problemi inevitabilmente legati alla prassi, ci porta costantemente a rivedere i nostri giudizi e comportamenti.
Ma in questa sede non vogliamo fornire un’ennesima definizione della scienza storica che, peraltro, data l’economia dell’articolo, non potrebbe che limitarsi ad alcuni luoghi comuni; ci preme piuttosto e nel modo più esplicito, giacché siamo in tema di riduzione, accennare a quegli aspetti della storiografia architettonica che «servono» alla progettazione, presupponendo che, a sua volta, la progettazione «serva» ancora a qualcosa; dubbio legittimato dal fatto che la razionalizzazione tecnologica rende possibili costruzioni e programmi, sviluppati se non nati, fuori da ogni intenzionalità progettuale.
La storia dell’architettura, anche intesa nell’accezione più comune, imprecisa e parziale, come studio cioè degli eventi passati, ha due incontestabili caratteristiche che si traducono in altrettanti punti di riferimento: la tangibile presenza delle opere (che tuttavia non è interpretabile semplicisticamente come persistenza degli «eventi» originali, come «fonti residuali», per così dire, come storia pietrificata) e la vasta letteratura ad essa relativa (la vera e propria storiografia), che ci consente di stabilire numerosi legami fra dette opere e i vari contesti storico-culturali, da quello nel quale sono state realizzate a quelli cui sono sopravvissute.
Appare infatti evidente che la presenza delle fabbriche del passato anche recentissimo condiziona e guida, in un modo peculiare di questa storia speciale, non foss’altro perché conforma fisicamente l’ambiente, la progettazione; questa non può prescindere dalle fabbriche preesistenti e si muove comunque rispetto ad esse anche nel caso, non raro, in cui le distrugga.
In particolare, la presenza delle opere paradigmatiche ed emblematiche, nonché dell’ambiente da queste conformato (l’ambiente è in generale sempre più emblematico che paradigmatico) fornisce inoltre evidentemente alla progettazione indicazioni formali, tipologiche, tecnologiche, funzionali, di gusto, di costume ecc., che costituiscono altrettanti parametri cui commisurare gli analoghi problemi di oggi. Dalla letteratura riguardante l’architettura del passato, la progettazione riceve tutte quelle informazioni — peraltro ad uno stadio già verificato — sulle operazioni, i condizionamenti, le interpretazioni e le scelte che hanno guidato via via nel tempo i costruttori.
Questo vale non perché quegli stessi rapporti che legavano l’architettura agli altri eventi si possano riprodurre ancora oggi, ma perché proprio i modi del loro mutare nel tempo forniscono i dati più validi della nostra attuale problematica, l’unica esperienza verificabile concretamente ed estesamente; per convincersene basti pensare ad un solo rapporto, quello con la committenza: conosciamo la relazione fra architettura e società feudale, fra architettura e mondo capitalistico; quella che si instaurerà fra l’architettura e la società futura è solo ipotizzabile in base ai predetti rapporti.
In altre parole, proprio nelle sue storiche trasformazioni è possibile cogliere la relazione fra architettura e società come una caratteristica invariante. Del resto, quanto alla continuità fra esperienza storica e progettazione, la quale evidentemente non è creazione dal nulla, ma attività inventiva possibile in un delimitato arco di scelte, vale ciò che Dewey osservava a proposito del problema delle valutazioni.
In base alla continuità delle attività umane personali ed associate la portata delle valutazioni presenti non può essere validamente stabilita fino a che esse non sono inserite e viste nella prospettiva dei passati eventi di valutazione con i quali sono continue. Senza di ciò, la prospettiva futura, cioè le conseguenze delle presenti e nuove valutazioni è indefinita.
Si può giustamente osservare che non sempre le attività umane si possono valutare in maniera continua, che anzi proprio la storia dell’architettura offre innumerevoli episodi manifestamente eversivi o quanto meno rivoluzionari; ma ciò non muta sostanzialmente la relazione del prima e del dopo, né dimostra che quest’ultimo sia indipendente dal passato, anche quando intende sovvertirlo.
Ma la questione della discontinuità della storia ci induce ad altre considerazioni: proprio in vista del fatto che non ci troviamo di fronte ad un continuum, per così dire, naturale di eventi, le stesse indicazioni della storia vanno ricercate in quei nodi, in quei periodi o fabbriche che hanno oggi per noi un interesse e che danno una risposta ai nostri interrogativi. In tal senso, a riprova del fatto che la storia va interrogata in un certo modo, secondo attuali prospettive ed esigenze, non conosciamo posizione più corretta di quella indicata da Panofsky. Secondo quest’ultima è la teoria dell’arte (che guida peraltro la stessa progettazione) a porre dei problemi alla storia dell’arte, che a sua volta non offre che «soluzioni» di quei problemi.
Donde l’intima relazione fra teoria e storia, fra metodologia e «presenza» degli eventi. Che tali soluzioni interessino il presente e la progettazione dipende evidentemente dal modo di fare storiografia, di porre cioè alla storia degli interrogativi che abbiano un significato per la progettazione. In ogni caso si tratta, a nostro avviso, di «ridurre» l’attività storiografica a quei casi paradigmatici ed emblematici sopra indicati e di sceglierli in vista dei presenti valori-interessi, ma al tempo stesso di ridurre (nel senso di ricondurre) la progettazione alla coscienza della sua dimensione storica, ovvero a ciò che la lega al passato prefigurando il futuro.
Insomma, in quale altro ambito la progettazione potrebbe trovare un legame, un «precedente» (termine che persino in sede giuridica agevola le decisioni, le valutazioni e i giudizi) che gli consenta sì di tener conto degli eventi eteronomi ma di tradurli tuttavia in una sua autonoma sfera, se non nella sua propria storia? Riteniamo pertanto di poter concludere che la progettazione, se non vuole accettare un ruolo «tecnico» totalmente subordinato, deve trovare il suo punto di forza nella storiografia non solo per gli strumenti, i parametri, le indicazioni critiche che quest’ultima le offre, ma soprattutto perché la progettazione in definitiva non è che storia nel suo farsi.
La riduzione linguistica
Le precedenti considerazioni relative alla «riduzione» culturale, ossia quelle riguardanti le strutture dei singoli campi di ricerca, il problema della interdisciplinarità e della didattica, nonché in generale quelli che incontreremo affrontando il tema della cultura di massa, sottendono una riduzione linguistica. Anche sul tema del linguaggio «esplodono» ovviamente infinite implicazioni; qui ci limiteremo alle essenziali e alle più pertinenti al nostro tema.
Riferiamoci alla schematica classificazione dei principali tipi di lingue riassunta dal De Mauro: lingue comuni, lingue speciali e lingue formalizzate.
Per ciascuna di esse è possibile individuare un lessico, ovvero l’insieme delle parole, e un sistema sintattico, ovvero il sistema delle regole che le connettono. Occorre rilevare che nello strutturarsi obiettivo e nell’utilizzazione individuale del patrimonio lessicale e di regole sintattiche di ciascuna lingua si fanno valere le due esigenze che determinano a tutti i livelli la configurazione e le modalità d’uso degli elementi costitutivi del sistema linguistico: l’esigenza della massima individuazione e l’esigenza del minimo sforzo.
Riguardo al lessico, l’esigenza del massimo di individuazione, agendo da sola, porterebbe a creare una parola per ogni diversa situazione o per ogni categoria di oggetti…: in tal modo si avrebbero sistemi lessicali dotati di milioni e milioni di parole diverse. Ciò evidentemente contrastando l’altra esigenza, quella del minimo sforzo.
Questa, a sua volta, ove operasse senza remore, porterebbe a sistemi lessicali monoverbali, facilmente memorizzabili e utilizzabili, ma costituzionalmente incapaci di individuare attraverso parole diverse situazioni diverse. Nella loro realtà, i sistemi lessicali riflettono il coesistere delle due esigenze.
Notiamo pertanto che la stessa costituzione di un lessico è possibile grazie ad una operazione «riduttiva», che nel caso specifico è consentita dalla plurivalenza semantica e dalla contestualità sintattica. Ogni parola cioè denota diversi significati, che si selezionano e si riducono a uno quando la parola si combini ad altre nell’ambito di una frase … La plurivalenza semantica è dunque un carattere istituzionalmente connesso ai vocaboli delle lingue storiche.
D’altro canto, specifiche necessità hanno indotto gruppi particolari delle comunità umane a disciplinare in vario modo una parte degli usi linguistici, in relazione alle esigenze di tecniche particolari. La serie dei nomi dei numeri naturali è, in tutte le famiglie linguistiche, l’esempio probabilmente più antico di una sezione del lessico sottoposta a una particolare disciplina; qui la polivalenza semantica viene convenzionalmente sacrificata a vantaggio d’una rigida corrispondenza biunivoca che lega ogni numero ad una sola parola ed ogni parola ad un solo numero: tale corrispondenza biunivoca fa sì che le regole di combinazione dei nomi di numero siano interamente determinate dalle regole di combinazione delle quantità numeriche.
Ogni volta che ci troviamo dinanzi a un gruppo di elementi lessicali legati da corrispondenze biunivoche a una serie determinata di oggetti non parliamo più di «parole», ma di «termini» … Quando una terminologia sia completamente autosufficiente, ossia quando i suoi elementi vengono adoperati senza il sussidio di parole del linguaggio comune, parliamo di una lingua «formalizzata».
Tra questi due tipi di lingua che si differenziano sia per il lessico (plurisemantico il primo e biunivoco il secondo), sia per la sintassi, si estende il campo delle cosiddette lingue speciali; il carattere speciale degli usi linguistici risulta soprattutto da fatti lessicali, ossia da usi particolarmente frequenti di certe parole o di certe accezioni di talune parole, ma può talvolta risultare anche da qualche particolare atteggiamento stilistico, cui tutti i membri del gruppo cercano di uniformarsi nel parlare.
Ritornando al nostro specifico tema della riduzione ed ovviamente con tutta l’approssimazione inevitabile nel toccare argomenti linguistici tanto ampi e dibattuti, notiamo che:
a) per quanto concerne i linguaggi formalizzati, si può osservare che essi operano una riduzione non nel senso del lessico (la cui corrispondenza biunivoca richiede anzi un numero infinito di termini com’è nel caso dei nomi di numero), bensì nel senso della natura quantitativa delle regole combinatorie che agiscono su termini serialmente correlati; si può infatti sempre denominare un numero in base alla semplice regola del raggruppamento in unità, decine, centinaia ecc.;
b) per quanto concerne le lingue storiche la riduzione avviene, come s’è detto, grazie soprattutto alla polivalenza semantica delle parole la cui individuazione è entro certi limiti affidata alle regole del contesto sintattico. Pertanto sia nell’uno che nell’altro caso, la comunicazione è resa possibile da una riduzione alle specifiche strutture, o regole, o codici;
c) infine anche l’istituzione di lingue speciali che utilizzano la stessa sintassi delle lingue storiche (rispetto alle quali si caratterizzano quasi esclusivamente nel lessico, sia mediante una più o meno precisa determinazione biunivoca del significato di alcune parole, sia per l’introduzione di un certo numero di termini tecnici, non sempre organicamente correlati), dovrebbe giustificarsi per una specificità ed una economia funzionali rispetto ad alcuni particolari usi pratici o campi di ricerca.
Ora, se è vero che le stesse lingue formalizzate non possono prescindere nel processo comunicativo dall’uso delle lingue storiche e se addirittura, secondo alcuni epistemologi, sono esse stesse traducibili in termini «osservativi», e quindi nel linguaggio comune, sembrerebbe lecito concludere che non ha ragion d’essere l’istituzione dei linguaggi cosiddetti speciali, anche se in pratica l’introduzione di un certo numero di termini necessariamente biunivoci può legittimare la «definizione» di lingue tecniche.
Indubbiamente la specificità semantica dei termini è essenziale per la coerenza e comunicabilità a tutti i livelli di qualsiasi argomentazione logica, pertanto non si può che auspicare un particolare impegno in questa direzione, anche e soprattutto per quelle discipline umanistiche che da tempo tendono a darsi un fondamento scientifico e mirano insieme alla più larga comprensione e diffusione.
Ma ciò contrasta forse con l’uso del linguaggio comune o storico? Certamente; quando viene confuso con l’indiscriminata e arbitraria introduzione di neologismi e arcaismi che risultano spesso tanto meno specificanti delle parole del linguaggio comune da richiedere una ridefinizione per ogni contesto, con eruditi riferimenti bibliografici spesso inutili e fuorvianti: e chi è immune da tale pecca scagli la prima pietra. In realtà, un lessico correttamente usato non può che giovare insieme al rigore scientifico di ogni ricerca ed alla sua comunicatività a tutti i livelli.
Quanto alla traducibilità da un tipo di lingua in un altro, Rossi-Landi afferma: le trasposizioni o riduzioni da un universo di discorso a un altro sono sempre lecite e spesso utili; ma in pratica avvengono solo entro certi limiti, superando i quali si contraddice all’esigenza di comprendere e spiegare i fenomeni nella loro varietà. Le stesse cose possono essere dette nello stesso modo in diversi universi del discorso solo nella misura in cui questi «si coprono» l’un l’altro. Ciò che rimanda alla questione della costanza del materiale linguistico impiegato.
Il fatto che ogni universo del discorso riposi su termini o asserzioni o ipotesi fondamentali, che lo determinano dall’interno pre-indicando i limiti della sua possibile espansione, attribuisce a ognuno di essi una sua relativa indipendenza e autonomia. Ma ciò non impedisce certo di istituire rapporti e gerarchie fra i vari universi del discorso.
Non si può discordare da questo invito alla «misura» in ogni operazione traduttiva e riduttiva, tuttavia in base alle considerazioni sociologiche e didattiche che ispirano il presente studio, di fronte alla totale impermeabilità di alcuni linguaggi gergali spesso artatamente incomprensibili, che dannosamente imperversano in ogni settore dell’odierna vita associata, dalla politica alla critica d’arte, per citare i primi che ci vengono in mente, ci sembra necessario operare una scelta, per così dire, tendenziosa, di politica della cultura. Pertanto, pur consapevoli di tutti i rischi, dobbiamo auspicare che ogni discorso tenda, nei limiti del possibile, a tradursi e «ridursi» al linguaggio comune o storico che peraltro rimane sempre il più inclusivo.
La «riduzione» e la cultura di massa
La nostra preferenza per il linguaggio storico nasce dal presupposto, da verificare fino a che punto fondato, che tale tipo di linguaggio sia il più idoneo alla riducibilità degli esiti della cultura storico-scientifica nei termini della cultura di massa.
Riprendiamo il discorso iniziale sul divario fra la produzione di beni culturali e la capacità ricettiva del pubblico, anche se ne abbiamo già trattato alcuni aspetti nel parlare del problema didattico che delle due culture suddette è evidentemente uno dei principali punti d’incontro.
Premettiamo che il nostro interesse per la cultura di massa in questa sede non riguarda tanto la sua fenomenologia, cui pure accenneremo ricordando alcune indagini più recenti, bensì le indicazioni che tale cultura può offrire alla cultura istituzionalizzata al fine di modificare o rivedere integralmente il loro reciproco rapporto.
Detto diversamente, non vogliamo «ridurre» la cultura di massa (se non nel senso di rendere più critiche e produttive le scelte dei beni culturali da parte del grande pubblico), ma viceversa «ridurre» i beni culturali — in gran parte ancora prodotti dai campi di cultura specializzati — in vista delle indicazioni più autentiche ed autonome offerte dai valori-interessi del grande pubblico di cui, come s’è detto, tutti facciamo parte.
A nostro avviso tutte le indagini sociologiche sulla cultura di massa, ove si eccettuino quelle pregiudiziali pro e contro, giungono a due considerazioni fondamentali e fra loro interrelate. La prima riguarda la incontestabile, pur se incontrollata, natura dialettica di tale cultura nel rapporto produzione-consumo; la seconda riguarda le modalità d’intervento e il contributo degli intellettuali nell’ambito di quella dialettica.
Impossibile porre l’alternativa semplicistica, scrive Morin, è la stampa (o il cinema, o la radio ecc.) che fa il pubblico, o è il pubblico che fa la stampa? E la cultura di massa che si impone dall’esterno al pubblico (e gli fabbrica pseudo-bisogni, pseudo-interessi) o riflette i bisogni del pubblico? E evidente che il vero problema è quello della dialettica tra il sistema di produzione culturale e i bisogni culturali dei consumatori … La cultura di massa è dunque il prodotto di una dialettica produzione-consumo, nell’ambito di una dialettica globale della società nella sua totalità.
Quanto alla seconda considerazione sulla cultura di massa, ossia il rapporto degli intellettuali con essa, Eco, dopo aver analizzato gli opposti atteggiamenti verso tale cultura, osservava pochi anni fa che il vero problema è: dal momento che la presente situazione di una società industriale rende ineliminabile quel tipo di rapporto comunicativo noto come insieme dei mezzi di massa, quale azione culturale è possibile per far sì che questi mezzi di massa possano veicolare valori culturali?
Egli proseguiva riconoscendo i molti limiti dei meccanismi che presiedono alla cultura di massa, ma li collegava ai procedimenti industriali necessari, in ogni sistema socio-politico, per comunicare con le masse e rilevava, quale correttivo di tali limiti, alcune possibilità di intervento da parte degli intellettuali, notando, non senza un certo ottimismo, che la comunità degli uomini di cultura costituisce ancora, per fortuna, un «gruppo di pressione».
Un’altra interpretazione dei fenomeni relativi a questa cultura si ricava da un dibattito svoltosi anni or sono sulla rivista «Tempi moderni». Tra i vari interventi, quello di F. Onofri svolgeva la seguente tesi: il logoramento o la distruzione delle ideologie politiche da parte della società industriale di massa non è da credere che avvenga mediante la distruzione di ogni tipo di «ideologia»: esso anzi alle ideologie politiche totalizzanti ed utopiche (che offrono cioè un disegno di città futura su cui orientare aspettative e comportamenti) sostituisce un «sistema di valori» — benessere, sicurezza, consumi ecc. — che potrebbe anche chiamarsi, impropriamente «ideologia» del godimento presente, del consumo, del tempo libero.
Prendere atto della supremazia quantitativa (in estensione) di questo «modello» sulle ideologie politiche tradizionali, non significa arrendersi ad esso, ma semplicemente chiedersi, in termini propri, che cosa occorre per regolarlo e superarlo.
Molte di queste considerazioni sulla cultura di massa sono state rivedute ed arricchite alla luce delle più recenti vicende sociopolitiche, lotte sindacali e studentesche. Ma anche senza soffermarsi su questi temi, ci corre l’obbligo di accennare brevemente ad uno dei più recenti e sistematici contributi sull’argomento, ci riferiamo al libro di A. Moles, Sociodinamica della cultura.
Esso si inserisce nella nostra rassegna soprattutto per l’indicazione di una struttura unitaria della cultura di massa, in parallelo al nostro tentativo di individuare delle strutture per le discipline della cultura storico-scientifica, sebbene, come vedremo, Moles non vede distinzioni fra dette culture, ma parla tout court d’una cultura del nostro tempo.
Secondo questo autore, la maggior parte delle conoscenze non ci verrebbe oggi dall’educazione ma dai mass media di comunicazione. Lo schermo della nostra cultura non è più una rete lineare con tratti principali e tratti secondari, una specie di tessuto o di ragnatela. I frammenti di pensiero si aggregano gli uni agli altri, secondo la vita di tutti i giorni che riversa su di noi un flusso costante di informazioni. Ne veniamo sommersi: in realtà preleviamo a caso in questa dovizia di messaggi. Pertanto questo schermo somiglia piuttosto ad un feltro, cioè ad una congerie di piccoli elementi di conoscenza, di frammenti di significati.
Cosicché, prevalendo sulla scuola e l’educazione, i mass media danno luogo a quella che Moles definisce una cultura a mosaico soggetta a leggi statistiche in contrapposizione alla tradizionale cultura umanistica, caratterizzata, viceversa, da quella ch’egli definisce una rete lineare di tratti principali e secondari. Tuttavia anche nella cultura a mosaico è individuabile una struttura d’insieme su cui si può ragionare e dalla quale si possono dedurre delle azioni.
Tale capacità però viene riconosciuta esclusivamente ai «culturalisti», ovvero agli specialisti dei mass media, i quali sarebbero in grado di riconoscere dei «vettori di scelta» che orienterebbero i ricettori individuali e i canali che filtrano gli elementi della cultura. E Moles stesso infatti s’impegna nella analisi dei circuiti di diffusione culturale e delle tecniche di «imballaggio» dei messaggi.
Applicando la nota legge della teoria dell’informazione sull’equilibrio tra ridondanza, necessaria a decodificare un messaggio, e originalità, ovvero contenuto dell’informazione, Moles scrive che l’interesse o l’attrazione del ricettore per il messaggio si situa in una zona intermedia con una certa ridondanza ottimale per la quale il messaggio ha il massimo valore comunicativo … Nel trasferimento di elementi culturali sotto forma di items che i mass media operano verso l’individuo, i mass media troveranno una regola di efficacia in questo adeguamento della quantità di originalità proposta e accettabile … Per arrivare a questo trasferimento, è possibile modificare i messaggi, ad esempio imballandoli — se hanno una originalità troppo concentrata — in un numero più grande di segni, e cioè aumentandone la ridondanza.
I limiti di queste indicazioni non stanno tanto nell’accento «tecnico», che anzi, se opportunamente interpretato, ne segna uno degli apporti più originali, né confondiamo l’intenzione scientifica di Moles con le strumentalizzazioni che ne possono fare gli addetti all’industria culturale, ma nella presunta chiusura dei circuiti di diffusione culturali, sulla quale in più punti quest’autore ritorna. È ben vero che è necessario individuare una struttura unitaria che interessi tutti gli aspetti della cultura delle società industrialmente avanzate, ma ciò non significa considerare superate le molte contraddizioni che in realtà la caratterizzano.
In altri termini l’equivoco cui induce Moles è di dare per avvenuti l’incontro e la fusione della cultura storico-scientifica con quella cosiddetta di massa, a tutto vantaggio di quest’ultima, non solo, ma di proporre all’interno di essa una dicotomia fra una élite di «culturalisti» e la massa. Non potendosi, a nostro avviso, oggi considerare alcun circuito culturale in sé chiuso, autonomo ed insieme produttivo, quella obiettività scientifica rischia di diventare «ideologia».
D’altra parte, come osserva Bechelloni, le stesse lotte studentesche e operaie, che pure hanno trovato nell’attacco alle istituzioni culturali uno dei loro cavalli di battaglia, non sono riuscite a dare al problema un’impostazione che superasse lo schema semplicistico, e tutto sommato fuorviante, dei manipolatori e dei manipolati … lo schema è talmente rigido … che esclude di fatto qualsiasi tentativo di analisi e non consente l’elaborazione di nessun modello o strategia alternativa che non sia quello del rovesciamento degli attuali rapporti di produzione, salvo riproporsi dopo quale uso fare delle comunicazioni di massa e della cultura …
Vogliamo dire che puntando tutto sulla tesi della manipolazione si è finito per mettere l’accento su un «accidente», di per sé strettamente connaturato a qualsiasi processo di «imballaggio» di un messaggio culturale, e non si è guardato alla sostanza, cioè all’uso che del messaggio concretamente fanno i ricettori di esso al di là e spesso contro intenzioni e volontà delle emittenti e, soprattutto, come è possibile trasformare i riceventi in emittenti.
Dalle varie citazioni qui riportate, a titolo di documentazione e non sempre di adesione, emerge che nella cultura contemporanea non esistono minimamente le condizioni di un «circuito» chiuso. In realtà oggi esiste un altissimo numero di amatori delle forme di spettacolo fruite nello stesso istante da «mezzo mondo». Tale varietà e ricchezza di messaggi non avrebbe in sé alcunché di negativo se non provocasse di fatto un dannoso frazionismo, una sostanziale incomprensione, una generale alienazione.
Sembrerebbe auspicabile, almeno per l’intelligenza dell’odierna condizione, una riduzione della produzione di beni culturali a vantaggio della classe che storicamente tende a prevalere. Non si tratta di aderire o non alla previsione marxiana di una società senza classi, ma piuttosto di prevedere da parte dei produttori di beni culturali quale sarà la sfera ed il carattere della nuova committenza.
Ciò evidentemente non per calcolo opportunistico ma per la presa di coscienza d’una condizione storica che ha già visto escludere totalmente dalla committenza la figura del principe e del borghese ottocentesco e che sembra escludere da quella futura l’attuale manager neocapitalista e, auguriamocelo, il burocrate di stato.
In sostanza, il problema socio-politico della cultura di massa, ove non lo si affidi al solo rovesciamento degli attuali rapporti di produzione, è quello di individuare quegli autentici valori-interessi del pubblico che emergono al di là di ogni più o meno esplicito disegno di eterodirezione della minoranza che detiene i mezzi di produzione.
In questo senso vanno rivisti alcuni punti nei quali la moderna sociologia ha spesso introdotto più confusione che chiarezza.
Ad esempio non concordiamo con la sottile «invenzione» intellettualistica, pur prestigiosa ed intelligente, per cui i mass media contengono delle intrinseche negatività; il che, coerentemente dovrebbe portare ad affermare che anche la cultura storico-scientifica ne contenga altrettante e ben più gravi. A rischio di passare per banali, riteniamo ancora che tutto dipende dalla gestione nella produzione dei beni culturali appartenenti tanto a quella storico-scientifica quanto alla cultura di massa e dalla possibilità di garantire a tutti la facoltà del controllo critico di detta gestione.
Molto spesso i sociologi hanno proposto azioni alternative («controinformazione», «guerriglia semiologica», miglioramento del prodotto ecc.), le quali, nonché inefficaci ci sembrano aver trascurato l’effettiva analisi dei valori-interessi del grande pubblico, cui, viceversa, sembrano molto attenti, per i loro fini, i manipolatori dei mass media. Senza la pretesa di formulare qui un quadro organico di tali valori-interessi autenticamente popolari soggiacenti al circuito dei beni culturali di massa, faremo solo cenno ad alcune loro manifestazioni.
Non sfugge ad alcuno l’impegno col quale, ad esempio, vengono seguite e giudicate dal pubblico di qualunque classe sociale, età e livello culturale le competizioni sportive ed altre forme di spettacolo proprie ai più recenti mass media; impegno che manifesta un vero e proprio ciclo di apprendimento ed uno spiccato senso critico, forse degno di migliore causa. Già Benjamin rilevava che la tecnica del film, esattamente come la tecnica sportiva, implicano che chiunque assista alle prestazioni che esse rappresentano assume le vesti di un semi-specialista. Basta aver sentito anche soltanto una volta un gruppo di giovani strilloni di giornali discutere, appoggiati alle loro biciclette, i risultati di una competizione ciclistica, per giungere alla comprensione di questo stato di fatto.
D’altra parte, lo stesso autore ci fornisce anche un’indicazione sul comportamento delle masse, questa volta al livello della fruizione artistica. Contro l’accusa di ricezione passiva ed acritica che da molti viene rivolta alla maggior parte del pubblico, Benjamin, pur riconoscendo una ricezione «distratta» e distinguendola da quella frutto di «raccoglimento», non di meno rileva come anche alla prima vada riconosciuta una componente critico-valutativa. È ormai famoso l’esempio ch’egli porta a proposito dell’architettura, come tipica forma d’arte, la cui ricezione avviene nella distrazione da parte della collettività.
Delle costruzioni si fruisce in un duplice modo: attraverso l’uso e attraverso la percezione. O, in termini più precisi: in modo tattico e in modo ottico … la fruizione tattica non avviene tanto sul piano dell’attenzione quanto su quello dell’abitudine. Nei confronti dell’architettura, anzi, quest’ultima determina ampiamente perfino la ricezione ottica.
Questo tipo di fruizione colta dal Benjamin nella più antica delle arti trova la sua più moderna manifestazione nel cinema. Infatti, il cinema svaluta il valore cultuale [termine riferito chiaramente alla nozione di «aura» che secondo l’autore circondava l’opera d’arte prima dell’epoca della sua riproducibilità tecnica] non soltanto inducendo il pubblico a un atteggiamento valutativo, ma anche per il fatto che al cinema l’atteggiamento valutativo non implica attenzione. Il pubblico è un esaminatore, ma un esaminatore distratto.
Cosicché qualunque sia l’impegno posto nella fruizione di determinate manifestazioni della cultura di massa, non si può negare all’atteggiamento del pubblico una indubbia potenzialità critica. Il vero punto d’incontro fra la cultura istituzionalizzata ed i beni che essa produce, da un lato, e la cultura cosiddetta di massa, dall’altro, o meglio il punto sul quale gl’intellettuali possono intervenire a modificare le «dimostrate» storture, carenze, limitazioni, eterodirezioni di quest’ultima sta nella interpretazione della dicotomia valori-interessi.
Da questa, che riassume gli interessi degli specialisti e del pubblico, che orienta le scelte, che regola l’equilibrio fra domanda ed offerta di beni culturali — dizione che ormai va prendendo una denotazione più precisa nel superare da un lato l’aura accademica e dall’altro il vitalismo populista — deve partire, a nostro avviso, un’opera di riduzione che soddisfi, non in senso consumistico, ma criticamente avvertito, le nuove esigenze dell’aumentato numero degli «aventi diritto».
Può sembrare che identificando valori ed interessamento non si faccia che registrare pragmatisticamente e nel modo più neutrale una tendenza in atto. Viceversa, se per interesse intendiamo partecipazione, l’enunciato acquista una connotazione positiva. Ci dice cioè che non si dà cultura se i valori che essa veicola non sono ampiamente condivisi. D’altra parte, affinché ciò si verifichi è indispensabile che detta cultura venga «ridotta» ai suddetti valori-interessi.
Pertanto quel divario denunciato all’inizio tra l’offerta di beni culturali e la relativa domanda deriva non tanto dal disinteresse del pubblico, quando dall’inadeguata capacità di quei beni di soddisfare tale interesse. Ma che cosa intendiamo dunque per beni culturali? Al limite tutto è un bene culturale, dal patrimonio artistico alle manifestazioni sportive, se riesce ad incidere direttamente sulla coscienza critica del pubblico ed è oggetto di autentica esperienza e partecipazione.
Che cosa differenzia dunque la cultura di massa genericamente intesa, con le ben note connotazioni di passività e di consumismo, dalla cultura di un pubblico criticamente e politicamente avvertito? Non la rinuncia al consumo e all’edonismo diffuso, alle manifestazioni autenticamente popolari o divenute tali grazie allo sviluppo tecnologico e ai mass media, che sarebbe un invito ad un’austerità improponibile. La seconda si differenzia dalla prima, vuoi per la sua partecipazione critica, per la sua tradizione di lotta sindacale e politica, vuoi soprattutto perché non accetta che i beni suddetti divengano «compenso» dello sfruttamento e dell’alienazione.
In questo contesto il compito degli intellettuali dovrebbe quindi essere anzitutto quello di contribuire alla «riduzione» (qui ancora una volta nel senso di re-ducere) della cultura di massa ad una cultura della massa criticamente avvertita; in secondo luogo quello di cogliere — ed in questo senso ci siamo soffermati a lungo nel presente articolo — gli aspetti della cultura di massa più indicativi per gli stessi sviluppi della cultura storico-scientifica; infine, sulla base di tali esperienze e nella consapevolezza che queste costituiscono l’unica forza valida, il compito di salvaguardare un patrimonio di cultura, retaggio di una tradizione storica, inalienabile nell’interesse di tutti.
La «riduzione» nel campo dell’arte e della critica
Il campo più emblematico e riassuntivo delle suddette considerazioni, nonché della convergenza dei due tipi di cultura finora considerati, è quella vasta e circolare area che va dalla conservazione del patrimonio storico artistico alla salvaguardia dell’equilibrio ecologico.
Non dovrebbe sfuggire ad alcuno che non è possibile trovare soluzioni adeguate a questi problemi se non si riesce, prima dell’irreparabile, a mobilitare il più vasto interesse e la più ampia partecipazione della pubblica opinione. Ma ciò che risulta più pertinente al nostro discorso è la constatazione che molto spesso l’incontro fra i cosiddetti quadri tecnici ed il pubblico è fallito proprio per una mancata opera di riduzione.
Il caso di Venezia è tra i più esemplari. Le informazioni provengono da due tipi di canali: da un lato i mass media, con la loro enorme capacità di portare l’informazione dovunque, ma con nessuna attitudine a selezionare criticamente le notizie, a proporle in profondità e in un quadro d’insieme … Questo fa sì che la sopravvivenza di Venezia abbia interessato il vasto pubblico quasi esclusivamente nel quadro piccolo borghese di un sentimentalismo tra artistico e turistico … L’altro grande canale che è fonte d’informazioni su Venezia è quello del mondo tecnico e scientifico.
Qui però troviamo l’assenza dei mass media per l’impossibilità di tradurre in termini di comunicazione di massa l’astrattezza di linguaggio che sta diventando una spiacevole caratteristica dell’attuale cultura italiana. Le recensioni, i convegni, i seminari, le commissioni di tecnici … si sono risolti in «atti» voluminosissimi e di difficile lettura … senza contare che l’estrema specializzazione dei tecnici ha creato zone d’interesse riservate a ciascun addetto, da cui non sono ammessi sconfinamenti, così se il mass medium presenta una informazione globale ma superficiale, le relazioni dei tecnici presentano una visione approfondita, ma estremamente settoriale da cui è pressoché impossibile sceverare una sintesi.
Ovviamente il problema di Venezia e per esso l’intera questione della salvaguardia del patrimonio artistico ed ambientale coinvolge precisi interessi economici e contrastanti volontà politiche; tuttavia c’è da chiedersi se, ove mai fossero superate le presenti contraddizioni, gli «esperti» sarebbero in grado di orientare la pubblica opinione, di raccoglierne il consenso e di formulare piani precisi.
Molti problemi assai meno complessi e condizionati rimangono ugualmente irrisolti fra il disinteresse del pubblico e il disaccordo dei «tecnici». In quest’ambito, che possiamo far coincidere con quello della pianificazione territoriale e dell’urbanistica, rientra anche il problema della «riduzione» relativa all’esperienza artistica e alla critica d’arte, che legittima questo discorso in una rivista come la nostra.
Quel divario fra domanda ed offerta dei beni culturali denunciato all’inizio del presente articolo trova la sua forma più parossistica proprio nel settore dell’arte. La domanda del pubblico di fronte ad un’opera d’arte moderna: che cosa significa? è rimasta senza risposta. Certo, assai spesso veniva posta con malizia, conteneva già un rifiuto, contrassegnava misoneismo ecc., ma nella gran parte dei casi nasceva se non proprio da uno struggente bisogno di partecipazione, almeno da un’autentica curiosità.
Gli artisti e i critici hanno sempre colto di quella domanda l’aspetto filisteo e hanno puntualmente avversato con esso anche l’altro aspetto: il desiderio di capire. Questo atteggiamento, insieme ad una complessa serie di circostanze, ha allontanato il pubblico dalle arti figurative; in tale distacco il pubblico ha sostituito la sua potenziale domanda di oggetti artistici rivolgendosi all’antiquariato, ad una serie di surrogati, a forme nuove di spettacolo, ai mass media; dal canto loro, artisti e critici hanno fatto e disfatto teorie, poetiche, moti del gusto, hanno stabilito da soli valori e disvalori in una ridda di operazioni così caotica e contraddittoria da giungere a un punto per cui quella «ingenua» domanda: che cosa significa? devono ora porla essi stessi affinché l’arte sopravviva.
Da qui il nostro interesse per la semantica e la semiologia che consideriamo il tema dominante della nostra stagione culturale e preliminare ad ogni ulteriore sviluppo.
Il rapporto comunicativo tra arte e pubblico è stato sempre difficile; non foss’altro perché l’opera d’arte ha in generale svolto nei confronti del precedente linguaggio un’azione di rottura, è stata sempre una deroga ad una norma codificata; al tempo stesso però — come abbiamo già avuto modo d’osservare a proposito dell’architettura — nel porsi come paradigma per le altre opere della produzione successiva qualificata da una artisticità diffusa, essa instaurava un nuovo codice, destinato ad esser posto in crisi dal sorgere di un’altra opera emergente, a sua volta paradigma d’una nuova produzione e così via.
Questa successione di momenti di arte emergente e di artisticità diffusa, che consentiva al pubblico di seguire le vicende e di fruire dei prodotti, può paragonarsi all’evoluzione storica d’una lingua; con la differenza che mentre in quest’ultima le trasformazioni avvengono lentamente e in modo, per così dire, naturale, per l’arte — attività artificiale per antonomasia — si richiedeva una mediazione, un’ermeneutica, una spiegazione attuata attraverso un metalinguaggio che possiamo identificare con la critica.
Ad un tale, ovviamente qui semplificatissimo, schema s’è contrapposto il fenomeno dell’avanguardia. Questa s’è posta notoriamente contro la storia, almeno contro la processualità della storia, ha rifiutato la dimensione del passato, contestato quella del presente, giustificato il suo operare nella sola prospettiva del futuro, peraltro dando per avvenuto ciò che non era, venendo così fatalmente in collusione con l’«ideologia».
Non si vuole ovviamente qui esprimere un giudizio di valore sui vari momenti e sulle motivazioni dell’avanguardia dei primi decenni del secolo; essa ha svolto un ruolo rilevante non solo nel campo della storia dell’arte, ma in quello della più generale vicenda della cultura moderna, talvolta anticipando giudizi, condizioni e contraddizioni della stessa realtà socio-politica.
Tuttavia è innegabile che con l’avanguardia figurativa ha inizio quel distacco dell’arte dal pubblico che oggi appare incolmabile.
Se ci riferiamo al modello su esposto — codice sancito dalle opere dall’artisticità diffusa, crisi prodotta dalle opere emergenti e successiva instaurazione d’un nuovo codice — possiamo considerare l’intero fenomeno delle avanguardie storiche come un unitario atto eversivo, una clamorosa deroga alla norma del precedente linguaggio, cui però non ha fatto seguito la formazione di un nuovo codice.
Certo, ci sono state opere imitatrici di quelle più originali, ma, per il carattere stesso dell’avanguardia, esse risultavano appunto imitazioni e non esemplari dotati di artisticità diffusa come quelli del passato. Insomma la poetica dell’inedito assoluto, l’estremo individualismo espressivo, la teorizzata trasformazione dell’arte in «altro» (dal design alla critica socio-psicologica) e soprattutto la molteplicità ed eterogeneità degli atteggiamenti, spesso intrinsecamente contraddittori, che informavano l’avanguardia non hanno dato luogo ad un univoco linguaggio, né ad un preciso assetto di politica della cultura.
Oggi la neoavanguardia, la quale beninteso rimane l’unica presenza degna d’interesse nel campo della sperimentazione artistica, presenta fra le sue principali caratteristiche il rifiuto totale dell’attuale sistema socio-politico, della sua cultura più diffusa, dello stesso fare arte, considerato un produrre merce.
Tali atteggiamenti non sono privi di motivazioni; queste però sono già a monte dell’odierna situazione socio-culturale e precedono, contrariamente a quanto avveniva all’inizio del secolo, l’avanguardia artistica.
Infatti, il sistema o i sistemi politici contestati, nonché stigmatizzati e combattuti da altre e più incisive forze, versano con tutta evidenza in una loro propria ed interna crisi; quanto alla industria culturale, nell’accezione deteriore del termine, essa non può che giovarsi del mancato apporto della produzione artistica o quanto meno servirsi della sua ricerca eversiva per rinnovare in superficie il suo repertorio di mode e di manipolazioni; infine per ciò che concerne il rifiuto di produrre «merce», esso avrà un senso allorquando sarà dimostrato — a parte gli «invidiati» casi di quei pochi artisti che ancora «reggono» il mercato — che la produzione della neoavanguardia sia realmente annoverabile tra le merci.
Nel suo ultimo libro Argan conclude con un significativo dubbio: se il senso della «contestazione globale» dell’arte consiste nel non far nulla che possa essere storicizzato, fino a che punto questa negazione totale si oppone alla finalità della società opulenta, neocapitalista e tecnologica, che è appunto di mettere fine alle scienze umanistiche, fondate sulla storia, di cui l’arte è stata nel passato una componente essenziale? Fino a che punto infine, lo sciopero ad oltranza dei ricercatori e degli operatori estetici priva la società «opulenta» di qualcosa che vuole e di cui ha bisogno o, invece, non le nega qualcosa che non vuole e di cui, davvero non saprebbe che fare?.
Nel recensire questo libro abbiamo affermato di condividere pienamente tale conclusione tranne che per la sua forma dubitativa. In realtà, qualunque atteggiamento dell’arte, sia di adesione, sia soprattutto di contestazione, verso la società contemporanea avrà un senso solo quando si riuscirà a stabilire e verificare se esiste ancora un autentico rapporto di domanda ed offerta per l’arte e la progettazione. Si tratta anche in questo caso di stabilire se l’arte di oggi veicola valori-interessi.
Da più parti si ritiene che l’interesse del pubblico, o meglio di quella classe che si ritiene debba sostituire l’attuale classe egemone, sia volto ad un’arte rivoluzionaria. Tuttavia il termine è evidentemente inflazionato: ogni tendenza artistica contemporanea si definisce rivoluzionaria; a parte le dichiarazioni verbali, che cosa distingue in una delle tante manifestazioni dell’arte d’oggi la presenza d’un giocoliere paziente da quella di un autentico avversario del potere costituito?
In ogni caso, senza negare il contributo che l’arte potrebbe dare alla rivoluzione politica, questa non starà certo ad attenderlo. Che quella artistica, nella maggioranza dei casi, sia una rivoluzione meramente verbale è dimostrato dal fatto che essa non può assolutamente contare sul proletariato, del quale ha sempre parlato, ma che in realtà ha sempre ignorato.
Cosicché, in un’epoca in cui il numero conta ed ogni azione in un modo o nell’altro è legata al consenso delle masse, dalle quali anzi nel loro processo di conquista del potere dovrebbe essere elaborata, l’arte non darà alcun contributo alla rivoluzione se continuerà ad essere completamente incomprensibile alla più vasta sfera sociale; né alcuno autorizza altri a porsi come sua coscienza di classe, compito che arbitrariamente si assunsero le avanguardie storiche più politicizzate.
Se l’esperienza estetica è l’esperienza non-condizionata come può essere stimolata o suscitata da una categoria di «operatori»? E chi, poi li ha investiti di un tale mandato? Non si tratterà ancora di una élite, anzi di una burocrazia privilegiata?
Nonostante tutte le precedenti riserve, non riteniamo affatto che l’arte abbia esaurito la sua funzione sociale.
Se l’idea che l’arte, il design e l’architettura possano cambiare da soli il mondo s’è rivelata un’ingenua utopia, d’altra parte abbiamo quanto basta per prevedere tutto lo squallore d’un mondo privo della sua dimensione estetica. Anzi, può essere proprio l’arte uno dei campi più pertinenti ed utili a quella «riduzione» culturale, cui stiamo dedicando le nostre considerazioni.
La funzione riduttiva dell’arte è già stata rilevata da Marcuse nel pensiero di Hegel: La razionalità tecnologica dell’arte sembra essere caratterizzata da una «riduzione» estetica … Secondo Hegel, l’arte riduce la contingenza immediata in cui un oggetto (o una totalità di oggetti) esiste, ad uno stato in cui l’oggetto assume la forma e la qualità della libertà. Tale trasformazione ha carattere riduttivo perché la situazione contingente sopporta requisiti che sono esterni, e che si oppongono alla sua libera realizzazione. Questi requisiti costituiscono un «apparato» giacché essi non sono puramente naturali, ma son piuttosto soggetti a mutare ed a svilupparsi in modo libero e razionale.
La trasformazione artistica viola l’oggetto naturale, ma l’oggetto violato è pur esso oppressivo; perciò la trasformazione estetica è una liberazione.
La riduzione estetica appare nella trasformazione tecnologica della Natura se e quando riesce a collegare dominio e liberazione, a dirigere il dominio verso la liberazione. In questo caso la conquista della Natura riduce la cecità, la ferocia e la fertilità della Natura — il che implica ridurre la ferocia dell’uomo contro la Natura.

La coltivazione del suolo è cosa qualitativamente diversa dalla distruzione del suolo, l’estrazione delle risorse naturali è cosa diversa dal loro sfruttamento dissipatorio, lo sfoltimento delle foreste non vuol dire disboscamento indiscriminato.
Nel contesto della filosofia di Marcuse il senso liberatorio dell’arte consiste in una sua «razionalità» che si oppone alla razionalità della società unidimensionale rivelatasi nei suoi effetti come il dominio dell’irrazionale. Se la società stabilita governa ogni comunicazione normale, convalidandola o invalidandola a seconda delle esigenze sociali, allora può essere che i valori estranei a tali esigenze non abbiano altro mezzo di comunicazione che quello anormale della finzione artistica.
Quest’ultimo accento sull’individualismo e l’«irrazionalità» dell’arte può sembrare in contraddizione con quella funzione sociale che riteniamo l’arte non abbia ancora esaurito. Tale aporia trova soluzione nella prospettiva fenomenologica e in particolare nella dimensione intersoggettiva che sola rende possibile ogni comunicazione. Nella «Lebenswelt», scrive Paci, non solo gli uomini si comunicano delle nozioni ma si incontrano, si riconoscono, vivono uno nell’altro, si convincono e si persuadono.
Il loro mondo più che comunicante, è intersoggettivo. Gran parte del mondo precategoriale e intersoggettivo è fondamento dell’arte, così come è persuasione senza dimostrazioni astratte. Una società viva è sempre una società estetica e l’arte come tale è fondamento di ogni uomo nell’altro: di ogni uomo come soggetto, in modo che nessuno sia reso oggetto o sfruttato da un altro. Così l’arte vivente è continua fondazione e riproduzione di vita sociale.
Pertanto, la dimensione estetica, per la sua relazione col mondo precategoriale ed intersoggettivo e in ciò assicurando la potenziale comunicazione ad ogni livello di cultura, costituisce il più radicale sostegno dell’attività riduttiva. E non a caso la nostra rassegna si conclude proprio col tema della riduzione estetica.
Quanto all’aspetto sociale, la dimensione estetica non può essere oggi che una potenziale alternativa alla cultura ufficiale, una continua tensione riformatrice che, ove riesca a tradursi in modi accessibili a tutti — nel parlare del linguaggio abbiamo posto l’accento sulla necessità di ridurre tutte le lingue speciali al linguaggio comune o storico — sarà il più efficace mezzo di comunicazione e l’unico forse che consentirà di «ridurre» la cultura istituzionalizzata in cultura di massa.
D’altra parte la cultura storico-umanistica, di cui l’arte rimane una componente essenziale, contenendo in sé le capacità di critica e autocritica è la sola che si ponga in quella tensione riformatrice che sembra negata alla cultura tecnologica.
Cosicché anche la «riduzione» culturale operata grazie alla dimensione estetica vale nel doppio senso: a) di «semplificazione» e selezione quantitativa della sovrapproduzione dei beni culturali in vista dei reali valori-interessi della società di massa, in ciò contestando la tendenza in atto alla incentivazione dei falsi bisogni; b) di ricondurre i vantaggi offerti dal progresso tecnologico alla più generale e inclusiva sfera storico-critica.
All’inizio del presente studio abbiamo definito in prima approssimazione l’attività riduttiva come scelta rispetto alla quantità e alla qualità. Abbiamo successivamente cercato di specificare i vari aspetti di tale operazione. Ora possiamo affermare che essa dà comunque luogo a una dequantificazione; la dimensione estetica dovrebbe garantire la qualificazione di quest’ultima e, grazie al suo particolare linguaggio, teoricamente il più universale, contribuire alla più vasta comunicazione.
Il numero conta e saranno i valori più condivisi che finiranno per prevalere; nel più ampio orizzonte di una politica della cultura, spetta ad un’arte socialmente impegnata contribuire alla indicazione o, comunque, alla critica di detti valori.
Non ignoriamo che di tale dimensione estetica, ove si eccettuino quelle ricerche semiotiche, semantiche e critico-sociologiche, cui più volte abbiamo accennato, per vari motivi, non esiste attualmente alcun segno concretamente intenzionato agli scopi suddetti.
Quello dell’arte — come del resto quasi ogni settore della cultura contemporanea — sembra tendere più alla specializzazione e alla separatezza che all’unificazione; cosicché l’intero nostro discorso rischia di rimanere volontaristico.
In ogni caso nella congerie di contraddizioni, di proposte, di informazioni, di propositi; nell’ipertrofia di parole, immagini, oggetti ecc., che caratterizzano il nostro tempo e il nostro ambiente urbano, ci sembra certo che un’attività riduttiva sia indispensabile per la reale conoscenza dei problemi e per orientare i nostri comportamenti.
Inoltre, data l’urgenza della «riduzione», questa sarà comunque operata da qualcuno: lo stato, i partiti, i gruppi di potere ecc.; tocca agli intellettuali decidere se affidarsi a costoro o assumersi, nei limiti della dialettica autonomia-eteronomia, questo difficile compito.
Di fatto non ci vogliono molte parole per convincersi che molti dei nostri errori derivano dalla riduzione che la prassi fa delle nostre teorie o, viceversa, dell’inadeguata riduzione (in questo caso una vera e propria diminuzione semplicistica) operata in teoria rispetto alla realtà, che risulta molto più complessa o, comunque, decodificabile in tutt’altra logica.
tratto dal numero 23