Utilità storiografica di una dicotomia linguistica

RENATO DE FUSCO
Alcuni articoli pubblicati sulla nostra rivista, che costituiscono dei tentativi di applicazione semiologica alla «lettura» storica di monumenti famosi, sono stati accolti dalla critica con pareri discordanti. Accanto ai numerosi giudizi positivi, espressi in via «amichevole» o in modo esplicito quanto autorevole da studiosi come Sergio Bettini, non sono mancate una serie di riserve, che giudichiamo altrettanto fondate non foss’altro perché riflettono i nostri stessi dubbi.

In sostanza ci si chiede se il metodo storico non contenga già gli elementi necessari per accertare i valori semantici e in genere comunicativi dell’architettura; in tal caso non si giustifica il ricorso alla disciplina semiologica ed al suo apparato teorico.
Ora, a parte la necessità di un maggiore approfondimento come tale, anche noi ci siamo posti ovviamente lo stesso interrogativo e di volta in volta abbiamo trovato una motivazione che, moda strutturalista a parte, giustificasse la nostra ricerca: prima convincendoci che l’architettura sia un linguaggio, poi paragonando la semiologia all’iconografia e più recentemente riflettendo sulle indicazioni di una celebre dicotomia saussuriana, quella sintagmatico-associativa, cui dedichiamo il presente articolo. A tale recente riflessione peraltro siamo stati indotti dalla lettura del libro di Brandi La prima architettura barocca, e da quello di Koenig, Architettura e comunicazione, entrambi pubblicati l’anno scorso.
La posizione di Brandi è nota; egli riconosce due vie per l’indagine artistica, quella basata sull’«astanza» e l’altra sulla semiosi e, privilegiando la prima, ha fornito nel volume suddetto una stimolante lettura strutturale delle opere di Pietro da Cortona, Borromini e Bernini. Più avanti vedremo la relazione tra l’assunto di Brandi e la dicotomia di cui ci occupiamo. Il libro di Koenig è una estensione metodologica del suo precedente vol. Analisi del linguaggio architettonico; in particolare, il confronto tra la sua concezione del segno architettonico e la nostra è stato determinante per le riflessioni sulla suddetta dicotomia saussuriana.
Partiamo quindi proprio da tale confronto. Com’è noto, Koenig, nella linea Peirce-Morris, sostiene che il segno è qualcosa che sta per un’altra, anzi considera tale condizione indispensabile per poter definire un linguaggio: Il messaggio significante, nel processo di significazione archica (contrazione che sta per architettura), è tutto ciò che i nostri organi ricettori percepiscono nel segnale; e che, attraverso i codici e lessici di ricezione, viene tradotto in un significato. Se il messaggio significante coincidesse fisicamente con il segnale, crollerebbe ogni concezione linguistica ed ogni analisi della comunicazione archica… la forma archica non trasporterebbe nessun messaggio… e significherebbe solo se stessa, senza nessuna caratteristica di «rimando ad alcunché», che è il fondamento di ogni segno linguistico.
Dal canto suo Eco condivide l’assunto di Koenig che identifica il significato architettonico con la funzione, riconoscendo nel segno architettonico la presenza di un significante il cui significato è la funzione che esso rende possibile. Ed inoltre indica nei segni dell’architettura un significato originario e denotativo, ossia la funzione, e un significato assunto da una storica stratificazione o connotativo, ossia la valenza simbolica.
Per parte nostra, abbiamo proposto una interpretazione del segno che tiene conto e associa gli esiti della pura visibilità e della definizione saussuriana del segno linguistico come unione di un significante e di un significato. A tal proposito abbiamo affermato che, riconosciuto come carattere peculiare dell’architettura, conformazione spaziale tridimensionale cava, la presenza di uno spazio interno agibile, ragion d’essere della sua pratica attuazione, possiamo considerare tale spazio come il significato e lo spazio esterno come il significante. L’unione dialettica e indissociabile di tali entità ci sembra la legittima estensione di quell’unione tra immagine acustica e concetto che definisce le componenti del segno linguistico.
Inoltre recentemente, per smentire l’idea che la nostra proposta contenga un certo automatismo, abbiamo precisato che nell’associare i due binomi interno-esterno e significato-significante, non intendiamo stabilire una corrispondenza di termine a termine, bensì una equivalenza tra i due binomi nella loro globalità.
In altri termini, poiché non operiamo su strutture tettoniche, semplici e schematiche, ma su organismi architettonici, generalmente articolati e complessi, se è vero che lo spazio esterno svolge il ruolo del significante e quello interno il ruolo del significato, non si verifica tuttavia una identificazione, a due a due, fra i quattro termini suddetti, né una netta separazione fra le due entità spaziali considerate; infatti, data la natura omogenea di queste, non è possibile — così come avviene in linguistica per l’immagine acustica e il concetto corrispondente — ritrovare l’esatto punto di passaggio fra interno ed esterno, fra significato e significante, che varia da un’opera all’altra ed è ricco di problematiche articolazioni.
Comunque l’assunto di identificare nella loro globalità il binomio spaziale e quello semiologico consente peraltro di rispondere alle seguenti esigenze: 1) non contraddice quella che ci sembra un’obiettiva conquista dell’estetica moderna, l’unione cioè di forma e contenuto, la quale viene inevitabilmente compressa dai sistemi semiotici dove segno e significato vengono divisi; 2) si lega a quel carattere di autonomia sistematica di un campo semiotico, senza rimandi eteronomi ad altri sistemi, che costituisce quel criterio di pertinenza considerato uno dei principi-base del metodo strutturale.
Tuttavia se la nostra concezione del segno architettonico è, o ci sembra, teoricamente più corretta delle altre, va riconosciuto a queste un grado di maggiore operatività. Infatti, anche dissentendo, non è chi non veda come il comportamentismo che ispira la prospettiva di Koenig abbia, ad esempio, una indubbia incidenza sociologica, e come le denotazioni e connotazioni proposte da Eco riflettano tra l’altro una processualità storica quando spiegano il variare dei significati delle fabbriche col passare del tempo: la storia non fa altro che riempire di sensi e di interpretazioni successive questi fatti fisici osservabili, continuando a considerarli come segni, per quanto appaiano ambigui e misteriosi.
A questo punto viene fatto di chiedersi da che cosa derivi la maggiore operatività, o meglio, la capacità di dire o far dire all’architettura più cose secondo la linea seguita da Koenig ed Eco.
Non affrontiamo in questa sede il problema di verificare fino a che punto intervenga il talento e la capacità analitica degli autori citati che potrebbe dar forse buona prova anche da una prospettiva erronea; se il metodo di Eco sia più proficuo per le valenze peculiari alla semiologia che per quelle filosofiche o antropologico-culturali che vi sono connesse; né se Koenig riesca a dire di più come storico assai informato sulle vicende del Movimento Moderno, specie quelle tedesche, che come semiologo comportamentista.
Quel che è certo, essi, distinguendo i segni (ma non sono forse sintomi, per dirla con Segre?) dai significati, le forme dalle funzioni e queste in prime e seconde, denotative e connotative, sembrano in grado di articolare un discorso assai ricco di facoltà applicative. È possibile che questa ricchezza di strumenti dipenda proprio dal fatto che la loro impostazione prescinde deliberatamente dalle acquisizioni estetiche, mentre la minore operatività della nostra idea di segno architettonico derivi dallo sforzo di tenere unita la semiologia all’estetica? Non si corre il rischio, così come abbiamo detto all’inizio, dalla nostra visuale di ripetere in termini diversi le stesse cose acquisite con il metodo storico-critico e per giunta al suo stadio più empirico?
Questo interrogativo evidentemente pone in crisi la funzione di politica della cultura, di riduzione storiografica e progettuale che attribuiamo alla semiologia architettonica.
Di fronte alla scarsa operatività della nostra impostazione, e in considerazione del fatto che, dopo aver postulato l’unità di tali componenti, in sede applicativa (l’analisi della Rotonda palladiana ad es.) ci siamo in definitiva riferiti a dei simboli, ossia a fattori esterni al segno, si pone la seguente alternativa: o è sbagliata la nostra concezione del segno architettonico, oppure, oltre l’unione significativa data dal binomio spazio interno-esterno, esiste un altro parametro indispensabile al processo di significazione.
Riformulando il problema in termini più corretti si tratta da un lato di affermare l’autonomia significativa del segno architettonico senza ricorrere a «qualcosa d’altro», ossia a simboli, e dall’altro di non rinunziare al compito di approfondire, allargare, esplicitare il processo di comunicazione, inclusivo dei parametri più eterogenei, in omaggio al rigore vero o presunto d’una coerenza teorica. In altri termini, è lecita la coesistenza di una significazione autonoma e di una eteronoma?
La risposta a tutti i precedenti interrogativi si trova in quella dicotomia saussuriana, oggetto del presente scritto, ossia il piano dei sintagmi e quello delle associazioni, che ha avuto finora scarso rilievo nelle ricerche di semiologia architettonica.
Eppure, proprio parlando di questi due assi, de Saussure trova nell’architettura la loro più calzante esemplificazione. Attingiamo direttamente dal capitolo in cui egli, dopo aver affermato che nel linguaggio tutto poggia su rapporti, parla di quelli sintagmatici ed associativi.
Da una parte, nel discorso, le parole contraggono tra loro, in virtù del loro concatenarsi, dei rapporti fondati sul carattere lineare della lingua (sul carattere spaziale dell’architettura possiamo dire nel nostro caso). … Queste combinazioni che hanno per supporto l’estensione possono essere chiamate sintagmi. Il sintagma dunque si compone sempre di due o più unità consecutive… Posto in un sintagma, un termine acquisisce il suo valore solo perché è opposto a quello che precede o a quello che segue ovvero a entrambi.
D’altra parte, fuori dal discorso, le parole offrenti qualche cosa di comune si associano nella memoria, e si formano così dei gruppi nel cui ambito regnano rapporti assai diversi: Così, la parola enseignement farà sorgere inconsciamente nello spirito una folla di altre parole (enseigner, renseigner ecc., oppure armement, changement ecc., o ancora éducation, apprentissage ecc.); per qualche aspetto, tutte hanno qualche cosa di comune tra loro.
Ognuno vede che queste coordinazioni sono d’una specie affatto diversa rispetto alle prime. Esse non hanno per supporto l’estensione; la loro sede è nel cervello… Noi le chiameremo rapporti associativi.
Dopo aver affermato che il rapporto sintagmatico si basa su uno o più termini realmente presenti nel discorso e quello associativo in una serie mnemonica virtuale, l’uno cioè in praesentia l’altro in absentia, de Saussure ricorre al famoso esempio architettonico: colonna e architrave stanno in un rapporto sintagmatico, ma appena si pone mente al fatto che quella colonna è d’ordine dorico, ecco che questo determina un rapporto associativo con gli ordini ionico, corinzio ecc.; il primo rapporto è determinato da elementi realmente presenti nello spazio, il secondo determina una associazione mentale.
Come abbiamo notato altrove, in qualunque sistema semiologico ogni segno implica (almeno) tre relazioni: quella interna delle sue componenti, il significato e il significante; quella che lega il segno agli altri in una determinata struttura (relazione sintagmatica); quella che lega il segno per associazione mnemonica ad altri appartenenti a diverse strutture (relazione associativa o paradigmatica o sistematica).
Ma in quello scritto che risale ad alcuni anni fa non eravamo in grado di cogliere tutte le valenze della dicotomia sintagma/associazioni così come si rivelano oggi dopo aver effettuato alcuni tentativi di applicazione semiologica. Dopo tali esperienze e gli interrogativi che queste hanno prodotto, nonché le altre riflessioni sul rapporto fra metodo storico e metodo strutturalista, ci sembra di poter affermare che la dicotomia in esame non solo risolve alcuni problemi semiologici, ma risulta utile anche per la metodologia storiografica.
Anticipando una conclusione, riteniamo che la dicotomia in parola, in semiologia, consente di indagare il processo di significazione tenendo rigorosamente uniti i significanti coi significati e al tempo stesso di non rinunziare a quelle significazioni indotte di tipo simbolico, metaforico, virtuale, associativo-mentale ecc., che sembrano esclusivo appannaggio di quelle semiotiche dove il segno sta per qualcosa d’altro.
L’estensione alla storiografia architettonica e artistica delle caratteristiche della stessa dicotomia consente, tra l’altro, di indagare sulla struttura dell’opera, grazie all’idea d’un asse sintagmatico, e di indagare sul suo contesto, sulle influenze eteronome, sulle ideologie, sui valori e significati ch’essa ha assunto nel tempo ecc., grazie all’idea di un asse associativo. Insomma, salvo errore, la dicotomia di cui ci occupiamo sembra introitare le due vie indicate da Brandi, quella dell’astanza e della semiosi, senza peraltro privilegiare l’una rispetto all’altra.
A tal proposito ci pare che la via dell’astanza altro non sia che una indagine basata, sia pure con pregevoli risultati, sulla sola linea dell’asse sintagmatico. Sull’utilità storiografica della dicotomia saussuriana, che costituisce il tema del nostro discorso, torneremo più avanti per specificare ora i caratteri particolari dei due assi.
Pur avvertiti che il piano sintagmatico e quello associativo fanno parte di una esperienza globale, essi si possono distinguere per motivi metodologici e didascalici. Quanto al primo, l’unione di due o più elementi architettonici (chiamiamo qui elementi sia quelli provvisti di spazio interno, ovvero i segni, sia quelli puramente tettonici, costitutivi dei segni fino a quelli meramente decorativi), cioè di segni e sotto-segni, dà luogo ad un sintagma.
Questo con altri determina una catena sintagmatica, ovvero il sistema costitutivo di una fabbrica, la sua struttura. Il significato di tale sistema è dato non dalla somma dei significati (per noi gli spazi interni) di ciascun segno, ma da quello dell’intero insieme, come sappiamo dall’antica nozione di symmetria, dalla teoria gestaltica e dal concetto di struttura.
Parlando della solidarietà sintagmatica de Saussure scrive: il tutto vale per le sue parti, le parti valgono altresì in virtù del loro posto nel tutto, ed ecco perché il rapporto sintagmatico delle parti al tutto è tanto importante quanto quello delle parti tra loro.
È questo un principio generale che si verifica in tutti i tipi di sintagmi enumerati più in alto; si tratta sempre di unità più vaste, composte di unità più ristrette, le une e le altre poste in un rapporto di solidarietà reciproca… Di regola, noi non parliamo per segni isolati, ma per gruppi di segni, mediante masse organizzate che sono esse stesse segni.
La precisazione è di grande importanza per la semiologia architettonica. Qui possiamo aver solo eccezionalmente un unico segno, ovvero un unico ambiente dotato di spazio interno non più scomponibile; in generale le fabbriche si presentano «mediante masse organizzate che sono esse stesse dei segni»; parleremo allora di edifici polisegnici, le cui parti sono strutturate in maniera sintagmatica.
Ritornando al significato che si addice all’asse dei sintagmi, tale significato è di tipo gestaltico, conformativo, fa capo ai principi della pura visibilità, riguarda i fenomeni ottico-percettivi con tutte le loro implicazioni conoscitive indicate appunto dalla teoria purovisibilista, dall’Einfühlung, dalla Gestalttheorie, dalla psicologia transazionale ecc. Possediamo quindi tutto un bagaglio di strumenti suggeriti dall’estetica, dalla teoria dell’arte e da altre scienze per poter analizzare e cogliere il senso di una struttura architettonica attenendoci in prima istanza ai suoi valori fenomenici e spaziali.
Ancora appartenenti alla struttura sintagmatica possiamo considerare quei fattori preiconografici e iconografici di cui parla Panofsky. Insomma si tratta di escludere da questo primo scandaglio tutto quanto esula dai tangibili valori strutturali e conformativi, denotativi o interni, come le informazioni sul contesto storico-sociale, i significati connotativi acquisiti da una fabbrica nel tempo, le implicazioni ideologiche e soggettive dello storico.
Viceversa nell’analisi associativa è legittima ogni classificazione, tipologia, ricorso a tipi-ideali, impiego di metafore, riferimento eteronomo; si tratta di cogliere, descrivere e classificare i valori connotativi o esterni d’una fabbrica, dando soprattutto conto del suo storico contesto, indicando il suo significato originario e le sue mutazioni di senso dalla sua costruzione sino ad oggi. Qui ogni illazione ideologica, politica, sociologica ecc. trova il suo terreno d’elezione.
Sulla maggiore flessibilità del piano associativo rispetto a quello sintagmatico, de Saussure s’è espresso in tutta evidenza: l’associazione può poggiare… sulla sola analogia significati (enseignement, instruction, apprentissage, éducation ecc.) o, al contrario, sulla mera comunanza delle immagini acustiche (per esempio enseignement e justement). Dunque vi è talora comunanza duplice, del senso e della forma, talora comunanza di senso o di forma soltanto. Una parola qualsiasi può evocare sempre tutto ciò che è suscettibile di esserle associato in una maniera o un’altra.
Tutto è quindi lecito rapportare al piano delle associazioni? Sebbene de Saussure esemplifichi sempre in base ad un dato tangibile, il radicale, il suffisso, la forma, il senso, si può rispondere affermativamente. Ma, e qui sta, a nostro avviso, uno degli aspetti metodologicamente più utili della dicotomia in parola, dichiarando esplicitamente che si tratta di una operazione connotativa e non denotativa, mentale e non fenomenica, riguardante valori soggettivi e virtuali, non obiettivi e reali.
Abbiamo già accennato all’utilità semiologica della dicotomia sintagmi/associazioni. Essa consente di indagare il processo di significazione sia per quanto attiene all’internità di un sistema, caratterizzata dai segni, sia per ciò che riguarda l’esternità di esso, ossia i rimandi referenziali, i simboli cosicché grazie ai due assi in esame possiamo dire che la semiologia inglobi la iconologia. Ma al di là del taglio puramente semiotico, come s’è detto, vogliamo mostrare l’utilità della dicotomia saussuriana, oltre i cenni già dati, nella metodologia storiografica.
È noto che la storia dell’architettura e dell’arte si presenta come una storia speciale, in quanto, a differenza della storia civile, dove i fatti vivono nella dimensione della memoria e per ciò che ancora influenzano oggi, gli oggetti artistici conservano (o dovrebbero) la loro originaria struttura; sono, per così dire, degli eventi viventi.
Inoltre, mentre tutti gli altri fatti storici vengono tradotti in un linguaggio ad essi eterogeneo per sopravvivere, quelli artistici si basano anzitutto sulla loro tangibile presenza (l’astanza di cui parla Brandi). Ora questa storiografia particolare, che in gran parte si attua in praesentia, non possiede in quanto tale la prima caratteristica dell’indagine sintagmatica? Non si basa anche questa sulle relazioni realmente esistenti in un sistema strutturale? Evidentemente sì. Ma è altrettanto chiaro che non basta l’analisi e neanche l’interpretazione fattuale di un’opera architettonica per farne la storia; è necessario collegarla con eventi omogenei ed eterogenei, comunque esterni a tale opera, per fissarne il contesto e la storicità.
Sembra pertanto lecito definire questa seconda operazione come una attività di tipo associativo, attuabile in absentia. Ad affrancare quanto diciamo dal sospetto di una meccanica trasposizione dalla linguistica alla storiografia, basterà indicare l’utilità dell’analogia proposta che, come tutte le questioni di metodo, si giudica dai risultati, dalle aporie che riesce a risolvere, dalla capacità di chiarire qualche problema.
Consideriamo alcune questioni rientranti nei principali capisaldi della storiografia: il principio di individualità, quello di causalità e quello di selettività.
Quanto al primo, è noto che, a differenza di altre scienze miranti a formulare leggi generali, la storia tende a cogliere l’aspetto individuale, unico ed irripetibile di un evento. Tuttavia, è stato dimostrato che, mentre le une non possono trascurare l’individualità, l’altra non può prescindere dalla generalità. Siamo quindi in presenza di un rapporto dialettico in ogni caso; nella storiografia architettonica i caratteri inediti e irripetibili d’una fabbrica vanno colti in relazione ad alcune caratteristiche generali della cultura del tempo e, d’altro canto, gli aspetti generali di tale cultura, per esempio lo stile di un epoca, non sono delle astratte generalizzazioni, ma vanno colti nei tratti comuni offerti dalle specifiche conformazioni delle singole opere.
Il modo di risolvere questo nodo dialettico, che in pratica si affronta empiricamente o, peggio, privilegiando talvolta il momento individuante e talaltra quello generalizzante, potrebbe più utilmente effettuarsi riportando il primo all’analisi sintagmatica dell’opera in esame e il secondo a quella associativa. L’analisi dei sintagmi darebbe conto di tutto quanto è unico, peculiare ed irripetibile d’un edificio, mentre quella associativa, chiamando in causa fattori iconologici, tipologici, ideologici, stilistici ecc. indicherebbe tutti quei fattori che legano l’opera al contesto e magari alla sua influenza futura. Inoltre, ricordando sempre la relazione dialettica dei due momenti, si eviterebbe tra l’altro di ridurre tutta l’indagine ad una lettura formale dell’opera e all’opposto di ridurla alla sua sola interpretazione ideologica.
Il caposaldo della causalità può anch’esso giovarsi della dicotomia in esame. Infatti, se per spiegazione causale d’un evento (problema da molti ritenuto non pertinente alla storia dell’arte, mentre noi lo consideriamo perfettamente legittimo anche in questo campo) s’intende una ricerca mirante ad individuare le cause esterne, socio-politiche, ideologiche ecc., che hanno contribuito a, o influenzato la realizzazione d’una fabbrica, il fatto che tale ricerca sia condotta — ed esplicitamente — secondo l’ottica di tipo associativo ci sembra che chiarisca un procedimento di metodo, affrancando peraltro da ogni intonazione deterministica, in quanto fa salva l’altra indagine, quella sulla struttura sintagmatica che è tutta ancora da compiere.
Se per spiegazione causale, come abbiamo proposto altrove, s’intende un processo mirante a vedere un’opera come causa d’un’altra, allora appare evidente che la linea d’indagine più adatta è di tipo sintagmatico, tende cioè a riconoscere fattori conformativi derivanti da altri di analoga natura; ma anche qui non si cade nel formalismo in quanto, esplicitamente dichiarando il tipo d’operazione che si compie, si riconosce che, a completamento del quadro storiografico, occorre ancora tener conto di ciò che deriva da una parallela indagine di tipo associativo.
L’utilità storiografica della dicotomia linguistica può riconoscersi infine nella risoluzione di un problema rientrante nel caposaldo della selettività storiografica, ossia quello della contemporaneità della storia.
Non c’è dubbio che ogni vera storia muove da interessi attuali, ma se ciò ridimensiona l’erudizione e la filologia, letteralmente inteso, comporta una deformazione della storicità delle opere, degli autori e dei periodi esaminati ed un loro forzato adattamento agli interessi di oggi. La contemporaneità della storia si riduce quindi, nel migliore dei casi, ad una equilibrata interazione tra i fatti e lo storico, ad un suo «senso di misura», in realtà assai poco verificabile.
Si può obiettare che tale fenomeno rientra appunto nel carattere selettivo della storiografia, giustificante appunto un certo grado di indeterminazione oggettiva; ma quando si tratta di dire in che modo avviene tale selezione, ecco che il metodo storico-empirico mostra tutti i limiti del suo soggettivismo ed intuizionismo. Se anche di fronte al problema della contemporaneità della storia utilizzassimo gli assi sintagmatico ed associativo potremmo in gran parte risolvere la suddetta aporia.
Infatti, l’uno, indagando sui rapporti strutturali d’un’opera, potrebbe meglio dar conto della sua originaria storicità, mentre l’altro, utilizzando la stratificazione delle conoscenze ottenuta col tempo, potrebbe dar conto della sua attualità.
Certo, anche l’esame più rigorosamente pertinente agli aspetti conformativi, ossia quelli rimasti entro certi limiti immutati delle fabbriche, quelli che, come s’è detto, rendono la storia dell’arte una storia di organismi ancora viventi, risente d’una «deformazione» attuale, non foss’altro per le tecniche e i criteri di lettura, ma — salvo ad intendersi nei termini — nella sostanza l’analisi sintagmatica, operando sul contesto reale d’una struttura, sui valori di contiguità delle parti, sui loro rapporti gestaltici ecc., non dovrebbe fornirci un quadro dell’opera molto diverso da quello originario e, per estensione, un’idea dell’originario contesto. Si tratta in definitiva di «far parlare» quelle opere per ciò che esse realmente dicevano e dicono ancora per le loro caratteristiche rimaste invariate.
E questa operazione, finora appannaggio della pura filosofia, o, nel migliore dei casi, d’una lettura unilateralmente visibilista, diventa pienamente storica e critica perché muove da un interesse attuale, qual è quello della significazione. Ma non è una storia ideologica perché tiene ben distinto, per quanto è possibile, ciò che l’edificio conserva del suo originario significato da ciò che oggi esso significa per noi. A questo secondo compito provvede l’analisi di tipo associativo con i suoi parametri mentali, virtuali, eteronomi ecc., registrando le mutazioni diacroniche del senso, quel cambiamento connotativo di cui parla Eco o il «consumo» di significato indicato da Dorfles.
Riassumendo il lato storiografico del tema discusso, possiamo dire che le seguenti alternative o antinomie: individualità e generalità; causalità, per così dire, autonoma (opera che genera opera) e causalità eteronoma (contingenze che condizionano opere); storicità e contemporaneità possono tradursi in altrettante dicotomie risolvibili secondo il modello di quella saussuriana. Una dicotomia del genere, applicata alla storia ha soprattutto il merito di indurre il ricercatore a dichiarare di volta in volta lungo quale asse sta operando, in ciò fornendo una indubbia garanzia di verificabilità del suo metodo.
tratto dal numero 20