La critica discorde

DE FUSCO-DE SETA-PASCA- SCALVINI
La presente rassegna intende raccogliere le opinioni di alcuni autori che hanno avuto verso l’arte moderna un atteggiamento ostile, svalutativo o anche di consenso ma per motivi tuttavia diversi da quelli delle poetiche e della critica moderna.

Si tratta in una parola d’una critica discorde avanzata da una visuale più radicale e anticonformista o, spesso, più reazionaria di quella visione ormai schematica che ha accompagnato gli sviluppi dell’arte moderna. Definire tale visione e conseguentemente la critica con essa discordante è assai difficile; riteniamo però che sia l’una che l’altra emergeranno volta a volta citando i vari autori.
Per il lettore disattento o malevolo, premettiamo di non condividere, quasi per intero, la critica discorde, ma che ne riteniamo utile una rassegna in un momento come quello attuale dove la noia del neo-conformismo rischia di paralizzare tanto la produzione quanto la fruizione artistica, e dove, come dice H. Rosenberg, la famosa «rottura con la tradizione» è durata tanto a lungo da aver dato origine a una tradizione sua propria.
Procedendo in ordine cronologico, iniziamo la nostra rassegna con la citazione del pensiero di Spengler su alcuni aspetti dell’arte. La sua generale teoria sullo sviluppo storico delle civiltà, espressa nel famoso saggio Il tramonto dell’Occidente, pubblicato in prima edizione nel 1918, si basava sull’osservazione del passaggio dall’organico all’inorganico, dal vivente al meccanico, dalla direzione soggettiva a quella oggettiva. Questi stadi comportavano un processo automatico di ascesa e caduta delle civiltà. Soggetta allo stesso meccanismo era la sua interpretazione del fenomeno artistico.
«L’impressionismo, egli scrive, è ridisceso dalle altezze della musica beethoveniana e dagli spazi planetari di Kant sulla crosta della terra. Lo spazio del plein air è conosciuto ma non vissuto, osservato ma non contemplato; esso implica uno stato d’animo ma non un destino ; ciò che è dipinto nei paesaggi di Courbet e di Manet è l’oggetto meccanico d’un fisico e non il mondo sentito nella musica pastorale. La
toccante profezia di Rousseau, tragicamente espressa come il “ritorno alla natura”, si compie in quest’arte agonizzante… Il nuovo artista è operaio non creatore. Egli giustappone i colori non separati dallo spettro solare… Arte pericolosa, tormentata, fredda, malata, fatta per nervi raffinati, ma estremamente scientifica, efficiente in tutto quel che concerne il dominio delle difficoltà tecniche, semplificata come un programma, vera satira che si prende gioco della più grande pittura da Leonardo a Rembrandt. Quest’arte non poteva trovar posto che nella Parigi baudelairiana».
Più oltre Spengeler accentua il giudizio di disorganicità, accenna alle cause di essa e decreta addirittura la fine della moderna civiltà artistica: «Tutto quanto Nietzsche ha detto di Wagner è vero anche per Manet. Ritorno apparente all’elementare, alla natura, in opposizione alla pittura sostanziale e alla musica assoluta dei periodi precedenti, la loro arte significa una concessione gratuita fatta alla barbarie delle grandi città, alla dissoluzione commerciale che si esprime concretamente in un miscuglio di brutalità e raffinatezza… Un’arte artificiale non è suscettibile di alcuno sviluppo organico. Essa segna la fine.
«Ne consegue – amara confessione – che la fine dell’arte plastica occidentale è suonata inevitabilmente. La crisi del secolo XIX è stata una lotta mortale. L’arte faustiana muore di vecchiaia, come l’apollinea, l’egiziana, come tutte le altre… Quel che si fa oggi in fatto d’arte è impotenza e menzogna, tanto nella musica postwagneriana quanto nella pittura posteriore a Manet, Cézanne, Leibl e Menzel».
Se in altri campi Spengler anticipò le irrazionalità e le violenze del nazismo (per cui, come ha scritto Mumford, «chi comprese il significato dell’atto di profezia di Spengler ebbe poco da apprendere dai successivi sviluppi della storia europea») nessun carattere anticipatore ebbe la sua riflessione artistica. Infatti l’impressionismo non solo non ha segnato la fine dell’arte occidentale, ma, svolgendosi in perfetta continuità storica, neanche la fine di un determinato stadio o concetto dell’arte per far posto ad un altro – tipico tema spengleriano – in cui ricade spesso la critica contemporanea. L’interesse attuale per il pensiero artistico di Spengler, qui citato essenzialmente come capostipite della critica discorde, vale soltanto come indicazione di quello che non si può e deve profetizzare.
Com’è noto, uno dei critici più severi delle moderne arti figurative fu Croce che, dalla sua visione artistica quale espressione di individualità, negava ogni valore estetico ai programmi, ai movimenti, alle poetiche rifiutando come tali l’arte impressionistica, cubista, futurista e, in genere, decadentistica moderna.
Inoltre Croce rimprovera la critica delle arti figurative pel suo trascurare le personalità e guardare all’evoluzione degli stili. «(Questa critica) non aiuta forse, come dovrebbe, il lavoro… di sceverare le vere e geniali personalità artistiche (relativamente poche come in poesia) dalla turba degli imitatori, dei plagiari, dei meccanici combinatori… degli intellettualistici autori di “arte nuova”, e programmisti, e fondatori di scuole, e morbosi dilettanti di sensazioni e di bizzarrie; tutti fornitori di molta materia alla storia della cultura, ma di scarsa o nulla a quella dell’arte propriamente detta».
A parte la discordanza di un tale atteggiamento con le intenzioni della gran maggioranza delle moderne poetiche, rimane tuttavia ancora attuale il senso prevalente ed emergente delle personalità creative, mentre risulta inattuale e inattuabile una così netta distinzione tra arte e cultura così come Croce riteneva in questo saggio del 1919.
Di tipo diverso dall’opposizione crociana è quella di Ortega y Gasset; anzi la sua è una posizione favorevole per molti aspetti all’arte moderna, discostandosi dal filone critico nato dall’avanguardia, nel ravvisare in essa una qualità estranea alla massa, una impopolarità che per il pensatore spagnolo è un attributo di valore.
Nella parte conclusiva dei suo principale saggio sull’arte Ortega scrive: «Si dirà che l’arte nuova non ha prodotto finora niente che meriti la pena e io sono molto vicino a questa opinione. Dalle giovani opere ho cercato di estrarre la loro intenzione, che è ciò che vale, e mi sono disinteressato della loro realizzazione. Chissà cosa darà questo nascente stile!
L’impresa che intraprende è favolosa – vuole creare dal nulla. Spero che più avanti si contenti di meno e realizzi di più». Ma l’aspetto più peculiare del pensiero di Ortega è quello artistico-sociologico. «Il romanticismo – egli scrive – è stato per eccellenza lo stile popolare. Primogenito della democrazia fu lo stile favorito dalla massa. Viceversa, l’arte nuova tiene la massa contro e la terrà sempre.
È impopolare per essenza; ma è anche antipopolare. Una qualsiasi opera d’arte moderna produce nel pubblico automaticamente un curioso effetto sociologico. Lo divide in due parti: una, minima, formata da un ridotto numero di persone che le sono favorevoli; l’altra, maggioritaria, innumerevole, che le è ostile. (Tralasciamo la fauna equivoca degli snobs)… La musica di Strawinsky o il dramma di Pirandello hanno il potere sociologico di obbligare la massa a riconoscersi in ciò che è, come “solo popolo”, mero ingrediente, tra gli altri della struttura sociale, inerte materiale del processo storico, fattore secondario del mondo spirituale. D’altra parte l’arte giovane contribuisce a che i “migliori” conoscano e riconoscano tra il grigiore della folla e si rendano conto della loro missione, che consiste nell’essere pochi e combattere i molti».
Evidentemente una posizione tanto elitaria è lontanissima dal pensiero critico attuale. Ma, nonostante la repulsione che genera un tale atteggiamento, la posizione di Ortega può fornire, come vedremo, e forse suo malgrado, alcune indicazioni utili. Intanto va ricordato che per Ortega la nozione di massa assume un particolare significato. La massa è l’insieme di persone non particolarmente qualificate. «Non s’intenda, però, per masse, soltanto, né principalmente, “le masse operaie”. Massa è l’uomo medio. In questo modo si converte ciò che era mera quantità – la moltitudine – in una determinazione qualitativa: è la qualità comune, è il campione sociale, è l’uomo in quanto non si differenzia dagli altri uomini, ma ripete in se stesso un tipo generico».
A parte tale precisazione, la posizione di Ortega d’una arte per la minoranza contrasta con la concezione più diffusa della critica d’avanguardia che ha generalmente sostenuto, ad eccezione di qualche poetica irrazionalista, un parallelo tra progressismo artistico e democrazia, una confluenza di arte colta e gusto popolare, la coesistenza d’un’arte difficile e della cultura di massa.
Le cose sono evidentemente molto più complesse della distinzione semplicistica proposta da Ortega, tuttavia bisogna tenerne conto se vogliamo, come vogliamo, conciliare la tradizione dell’arte moderna e la cultura per molti, poiché in definitiva i molti concordano sostanzialmente con la concezione del pensatore spagnolo, accettando le limitazioni e i privilegi dell’essere massa. Per smentire il giudizio di Ortega, coincidente ora con quello dell’uomo medio, è chiaro che la nostra intenzione d’un’arte, che sia allo stesso tempo colta e democratica, necessita di basi affatto nuove.
Il distacco dell’arte moderna dal pubblico ha inizio secondo alcuni autori con la crisi del naturalismo. Per Huizinga l’allontanarsi dalla natura è un fatto irrazionale e tale da compromettere la comunicazione artistica. «L’allontanamento della poesia dalla ragione corrisponde nelle arti figurative allo stornarsi dalle forme visibili della realtà… La sottomissione alla natura per l’espressione plastica significava in un certo senso sottomissione alla ragione in quanto questa è l’organo mediante il quale l’uomo interpreta e chiarisce ciò che lo circonda…Questo accordo con una dottrina oggi professata da molti (la filosofia vitalistica) significa per l’arte una pura fonte di forza? C’è da dubitarne.
Proprio questo rifiuto di tutto ciò che è ragione e natura dà l’arte in balia di tutti gli eccessi e di tutte le degenerazioni. La permanente spasmodica ricerca dell’originalità – una delle piaghe dell’epoca moderna – rende l’arte assai più accessibile della scienza a tutti i deleteri influssi sociali del di fuori. L’arte, così, manca non solo di disciplina, ma dell’indispensabile isolamento. Nella sua produzione lo sfruttamento lucrativo dello spirito altra piaga della vita moderna ha una parte molto maggiore che nella scienza.
La necessità, che in una società fondata sulla concorrenza obbliga i produttori a sorpassarsi continuamente nell’uso dei mezzi tecnici, conduce l’arte, sia per sete di pubblicità che per vanità pura, a quei malinconici eccessi d’insensatezza che dieci anni fa si spacciavano per espressione di un’idea: poesia formata di onomatopee o di segni matematici, e simili».
Ancora di tipo razionalistico, fu l’avversione all’arte moderna di Julien Benda. Egli, se da un lato si oppose costantemente al vitalismo biologico bergsoniano, stigmatizzò in arte anche l’atteggiamento opposto, ossia l’astrazione intellettualistica. «È risaputo che esiste anche il fenomeno diametralmente opposto: quello della pittura sintetica (cubismo), dell’astrazione ad oltranza, che vuoi ridurre la rappresentazione delle cose a poche forme elementari, pure creazioni dello spirito. E là il caso d’un altro romanticismo, il romanticismo della ragione».
Benda indica così due tipi di romanticismo: il romanticismo della ragione e il romanticismo della passione. Al primo farebbero capo cubismo e futurismo, al secondo, surrealismo ed espressionismo.
Un altro critico discorde è Arnold Toynbee, che nella sua massiccia opera di filosofia della storia considera l’arte moderna come un consapevole tradimento di una nobile e antica tradizione, corrotta peraltro da elementi di cultura e di razza eterogenei. Di particolare interesse è il pensiero di Toynbee circa i fenomeni ricorrenti dell’arcaismo e del futurismo, presenti in molti e differenti campi dell’attività sociale.
«Futurismo e arcaismo sono entrambi tentativi di evasione da un presente sgradito per mezzo di un salto inteso a portare in un altro punto, sul fiume del tempo, senza abbandonare il piano della vita moderna terrestre. E questi due modi alternativi di evadere dal presente, ma non dalla dimensione-tempo, si somigliano anche perché consistono in tours de force che si dimostrano, all’esame, speranze vane (…). Possiamo definire il futurismo come un ripudio di qualsiasi mimesi e anche come uno di quei tentativi di produrre cambiamenti forzati che producono nella misura in cui riescono, rivoluzioni sociali che falliscono il loro scopo cadendo nella reazione».
Pensiero e letteratura non sono, naturalmente, le uniche sfere della cultura in cui ciò che il presente ha ereditato dal passato sia esposto all’attacco del futurismo. Ci sono altri mondi da conquistare per il futurismo nel campo delle arti visive e uditive. Sono infatti i lavoratori nel campo dell’arte visiva che hanno coniato il nome « futurismo» per descrivere i loro capolavori rivoluzionari.
Ma vi è una nota forma di futurismo, nel campo delle arti visive, che sorge sul terreno comune tra le due sfere della cultura secolare e della religione, ossia l’Iconoclastia. L’iconoclastia somiglia al moderno campione della pittura cubista che ripudia un tradizionale stile d’arte, ma sua caratteristica è di limitare l’ostilità all’arte associata alla religione, e di essere mosso all’ostilità da motivi che non sono estetici ma teologici.
D’ordine morale e religioso è anche l’opposizione all’arte moderna dell’esistenzialista russo Berdjaiev che considera l’avanguardia come decadenza rispetto a tali principi. Analogamente Müller-Armack osserva: «La dissoluzione della fede non è affatto un problema puramente teologico… Essa è invece un fenomeno concreto, dalle conseguenze spirituali e sociali estremamente reali… Essa racchiude addirittura valide leggi intrinseche del comportamento religioso, che seguitano a sussistere anche in un mondo completamente secolarizzato… L’uomo è libero di rifiutare la fede. Ma non è capace di vivere senza trascendenza.
«La sua libertà di negar Dio, l’uomo la sconta con la necessità di popolare il suo mondo di idoli e di fantasmi». Tale posizione diventa più pertinente al nostro tema dell’arte quando Müller-Armack afferma: «In seno alla cultura secolarizzata si cerca, è vero, di ricavare fonti di un’etica personale e terrena dalla coscienza o dalla legge morale ma simili tentativi vivono della sostanza di tempi passati, poiché i loro concetti sono ricavati dalla sfera religiosa, e da questa soltanto ricevono un vero senso».
Una conferma dell’assunto citato viene fornita da Peter Meyer che nella sua opposizione al razionalismo nelle arti e nell’architettura in particolare osserva: «Il carattere quasi religioso del materialismo si rivela nel fatto che le sue manifestazioni (…) vengono giudicate da un punto di vista morale: l’ornamentazione è definita una menzogna e una mascherata, la forma tecnica è detta vera e sincera (…). La coscienza della personalità, nel profano, abdica dinanzi alle forme tecniche; egli le accetta come un miracolo… e appunto questo atteggiamento passivo di fronte ad un ambiente anonimo ed autoritario significa diventare massa. In tal modo il mondo tecnico è sulla strada di scivolare sul piano quasi-religioso: appunto sul piano “magico”».
Un accenno al vuoto lasciato nella cultura contemporanea dalla crisi religiosa si trova anche in Brandi. Ne La fine dell’avanguardia egli scrive: «Abbiamo cominciato questo saggio partendo dall’ avanguardia: avanguardia come predicato stesso del Romanticismo. Giungiamo a dover riconoscere in atto una crisi metafisica che è al tempo stesso crisi religiosa. Lo sforzo orgoglioso del pensiero romantico era stato di riassorbire la metafisica e la religione, non tanto per staccarsi dall’uomo vecchio della civiltà settecentesca, quanto per concludere, saldare su se stesso, l’universo dell’uomo nuovo (…). Altri potranno vedere nelle passioni politiche la manifestazione inconscia d’una Fede religiosa, perduta, e insinuatasi con spoglie diverse nell’anima umana. Il pellegrino di Emmaus che solo alla fine si fa riconoscere. Ma noi non potremmo accettare una interpretazione simile se non rivolta all’Età che si conclude, a quel Romanticismo che, di discesa in discesa, ci ha lasciato soli, di fronte alla nuda flagranza del presente».
Alla nozione di decadenza d’ordine religioso – cui non si può negare la previsione d’una fruizione estetica o para estetica basata appunto su nuovi miti che si va attuando sotto i nostri occhi – si può obiettare che, per quanto alimentata dal pensiero laico, l’arte moderna ha avuto, generalmente, più di tanti altri settori, un suo riferimento religioso. S’è trattato ovviamente d’una religiosità sui generis, eterodossa, che solo qualche critico benintenzionato è riuscito ad indicare, mai però priva di quella trascendenza che la critica ostile non poteva o voleva riconoscere.
Una delle opposizioni più articolate e complete all’arte moderna è quella di Hans Sedlmayr. Per questo Autore l’arte moderna, la cui origine egli lega in senso negativo all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese, avrebbe quattro principali caratteristiche: l’aspirazione alla purezza, il dominio della geometria e della costruzione tecnica, la pazzia come rifugio della libertà (il surrealismo), la ricerca delle origini (l’espressionismo).
Non appena ciascuna delle arti (architettura, pittura, scultura) si sia liberata al massimo da mescolanze di ogni altra – e questo stadio è sostanzialmente raggiunto nel primo decennio del sec. XX e ben presto superato – ognuna di esse è qualcosa di «tutto diverso» da ogni altra. Non vi sono mediazioni di trapasso fra esse, o almeno non vi dovrebbero essere.
L’aspirazione alla purezza fa sì che l’arte scioglie il legame con l’ordine dell’essere e dei valori, vorrebbe «fare» arte «prescindendo da ogni riguardo etico e religioso». Vorrebbe essere arte pienamente autonoma. Astratta è quell’arte che prescinde da tutto ciò che non è arte.
Quest’arte autonoma, però, non è altro che estetismo inteso come esteticità pura, valore superiore ad ogni altro ed autosufficiente. Conquistata l’autonomia, questo è il momento in cui l’arte «pura» diventa priva d’impulso, è afferrata dalla forza d’attrazione di una nuova tendenza. Divenuta inerte, essa cade, per così dire, nel campo di gravitazione della tecnica moderna, che allora appunto sta raggiungendo la sua prima perfezione e che aspira alla «totalità». In tutte le arti si manifesta la tendenza a confondersi a questa nuova grande potenza, nella quale si scorge erroneamente una potenza «spirituale» e a diventare «tecnoidi» Il trapasso si compie prendendo a modello la geometria.
Circa la terza delle caratteristiche attribuite dal Sedlmayr all’arte moderna, egli scrive, tra l’altro: «la molla dell’irrazionalismo surrealista è assolutamente razionale. Tale irrazionalismo deriva infatti non da una pazzia reale, ma da una pazzia deliberata, premeditata. Del resto lo stesso tentativo di rappresentare allo stato “puro” l’irrazionale dell’inconscio, è di una razionalità estrema. Ridotto al principio astratto il surrealismo, come ha notato giustamente il Weidlé, è semplicemente il rovescio degli errori razionalistici. Se, al polo razionalistico dell’arte moderna, l’artista è divenuto un costruttore, al polo opposto, irrazionalistico, è divenuto un automa».
Pur discordando con l’espressionismo che occupa il quarto posto del suo schema, Sedlmayr lo giudica in modo meno severo. «Tutta l’impresa, in ultima analisi, è condannata al fallimento. Non è possibile risalire alle origini sacrificando la ragione e l’intelletto. Non è possibile ripristinare il mito e la religione mediante l’arte. Ma il tentativo ha qualcosa di eroico, e perfino nel suo fallimento ha spesso una certa grandezza».
Le caratteristiche suddette generano dei fenomeni secondari che, sostituendosi agli aboliti valori morali e religiosi, secondo il principio di Müller-Armack sopra citato, generano dei veri e propri idoli dell’arte moderna: l’estetismo, lo scientismo, ii tecnicismo, la pazzia deliberata. A parte il dissenso sui contenuti di un tale sistema, notiamo di sfuggita che all’espressionismo l’Autore non fa corrispondere nel suo schema alcun falso mito, per non contraddire la sua interpretazione dell’espressionismo come movimento che è, nell’intenzione, arte religiosa anche quando rappresenta oggetti profani.
Nella parte conclusiva del saggio, Sedlmayr afferma: «il suo più peculiare punto di vista. La vera natura di questa rivoluzione consiste appunto in ciò che.., l’arte o si è orientata verso potenze extra-artistiche, oppure si è proclamata autonoma e, come conseguenza di questa autonomia, si è dissolta in non-arte. Ma non solo dissolta, quanto proclamata non-arte». A questo punto il discorso di Sedlmayr tocca il rapporto tra avanguardia e politica.
Le estreme tendenze rivoluzionarie dell’arte non volevano più essere arte. Ciò è stato proclamato apertamente dagli artisti d’avanguardia intorno al 1920, nell’epoca della grande sincerità, quando la democrazia popolare si chiamava apertamente ancora dittatura del proletariato… L’aver proclamato solo per breve tempo l’abolizione dell’arte e l’aver mantenuto il vecchio nome, sono fatti che hanno motivi evidenti e ben comprensibili.
«Infatti, nella fase involutiva, in cui l’alleanza fra la moderna arte rivoluzionaria e le potenze socialrivoluzionarie è stata sciolta da queste ultime, per cui l’avanguardia dovette inserirsi in un mondo fondamentalmente borghese, quel programma scoperto è stato velato». Non è chi non veda, tra l’altro, una palese contraddizione nel rimproverare da un lato all’arte la sua autonomia e dall’altro il suo legame socio-politico. In realtà c’è stato un divario tra Rivoluzione e avanguardia, ma le cause furono d’ordine storico e non nominalistico, vanno riferite all’intenzionalità dell’uno e dell’altro settore e alle divisioni interne di ciascun settore.
Com’è da respingere un generico parallelo tra progressismo artistico e politico, avanzato da sinistra, a maggior ragione va respinto se avanzato da destra. Se il primo può sbagliare sulle previsioni future, il secondo sbaglia anche sui giudizio del passato. Sedlmayr a proposito dei cosiddetti architetti dell’Illuminismo osserva: «C’è quasi un che di tragico nel fatto che già il primo tentativo, compiuto da un ramo dell’arte per rendersi autonomo, sia subito fallito. Involontariamente si pensa che anche la grande rivoluzione francese ha posto ben presto l’individuo liberato sotto un nuovo e più crudele sovrano: lo Stato assoluto della democrazia popolare giacobina».
Ostile verso l’arte moderna è spesso l’atteggiamento dei cultori di arte antica; tipico è il caso di Bernard Berenson. «Mi sento tentato – egli scrive – di chiedere se Platone nel Filebo possa per caso aver pensato alla linea in movimento quando dice che per bellezza formale egli intende linee rette e circoli e le figure piane e solide che sono formate da torni che girano, e da regoli e da goniometri. Egli afferma che esse non solo son belle in modo relativo come le cose ordinarie, ma belle in modo eterno e assoluto.
C’è da temere che Platone avesse in mente proprio ciò che stanno producendo ora i pittori astrattisti e “non oggettivi”. Ma se egli tornasse ora fra noi, troverebbe il suo desiderio esaudito non tanto dalle pitture astratte e “non oggettive”, che pel momento sono in voga, quanto dalle nostre macchine e dalle nostre armi». A parte le armi che trovarono posto forse solo in una fase della poetica futurista, è da supporre che l’eminente studioso americano non avesse la dimestichezza sufficiente con le poetiche d’avanguardia per riconoscere che quel paragone con le macchine non era affatto sgradito, rientrava nel gioco, era in molti casi previsto dal programma.
Ma meccanica o non, l’arte moderna non riscuoteva presso Berenson quello spirito di simpatia necessario ad ogni forma di comprensione. «Oggi viviamo una decadenza che, come tutte le decadenze culturali, ignora i suoi sintomi ed euforicamente immagina di stare rivoluzionando il mondo mentre bamboleggia soltanto imbrattando o impastando con i colori e l’argilla. Ciascuno ammira estaticamente i propri prodotti, e ciascuno crede di essere l’iniziatore di un’epoca nuova».
Ritorna qui la nozione, generica quanto polivalente, di decadenza. Come ha giustamente osservato Renato Poggioli, la critica di destra è quasi per definizione quella che deduce il corollario del tradizionalismo culturale ed estetico dal postulato del tradizionalismo civile e politico. In essa vengono a ritrovarsi tutti i nemici dei tempi nuovi, che li condannano in blocco sotto l’accusa di decadenza. Analogamente, se pure in senso opposto, la critica di sinistra condanna l’avanguardia come decadenza legata alla condizione civile e politica della borghesia e del capitalismo».
In altri termini, – scrive ancora il Poggioli – «tanto la critica di destra quanto la critica di sinistra condannano l’arte d’avanguardia in nome d’un presente che entrambe rinnegano, né importa molto che l’una lo respinga in nome del passato, e che l’altra lo rifiuti in nome dell’avvenire».
Tipico esempio di rimando al futuro per giudicare la stessa avanguardia di oggi è offerto da Lukács, il più illustre critico discorde di sinistra. «La grande missione storica dell’avanguardia letteraria consiste nell’afferrare e nel prefigurare queste tendenze sotterranee (d’indole sociale e politica). Soltanto l’evoluzione può dunque stabilire se un dato scrittore è realmente d’avanguardia, dimostrando ch’egli ha individuato e prefigurato, con esattezza e con durevole efficacia, le qualità fondamentali, le tendenze evolutive e le funzioni sociali di determinati tipi umani. E da quanto è stato detto finora, non dovrebbe essere più necessario riaffermare che a una simile avanguardia possono soltanto appartenere i realisti più significativi».
Per Lukács l’arte progressista, quindi, è un’arte di opposizione d’indole sociale e politica e non di ordine linguistico-formale. Lo stesso espressionismo, al quale egli generalmente si riferisce quando parla d’avanguardia, non è immune dal formalismo. Nella Breve Storia della letteratura tedesca, egli scrive: «Un panorama storico d’insieme come il nostro deve porre a ogni “rivoluzione letteraria” la domanda: quale nuovo contenuto umano e sociale ha rivelato? In che cosa la nuova fisionomia artistica di una giovane generazione, in essa emersa, ha contribuito a illuminare la via della nazione tedesca? E qui il bilancio dell’Espressionismo è alquanto povero.
«Ciò si può vedere ancor meglio nel dramma espressionista. Non parliamo nemmeno della teoria, che è piena di frammenti di idee prese da Husserl, Bergson ecc., e che, per esempio, nel dadaismo (fenomeno senza dubbio periferico) offre solo una variante del peggiore cinismo nichilistico del periodo imperialistico».
Lukács riconosce nell’espressionismo una letteratura di decisa opposizione, ma il confronto tra l’espressione soggettiva e la situazione storica oggettiva rivela che questa « rivoluzione letteraria » visse solo sulla carta, in esperimenti formali, senza incidere sulla vita del popolo stesso, senza cioè educano a rischiarare le oscurità attraverso la configurazione del più profondo contenuto dei problemi reali dell’epoca. «Brecht crede che un’arte “radicalmente nuova” abbisogni di mezzi espressivi del tutto diversi e originali per eliminare l’indegnità e l’influsso nocivo del “culinario” nell’arte (soprattutto nell’arte drammatica), e per reintegrare quest’ultima nella sua necessaria funzione sociale.
Così anche la critica di Brecht rasenta il contenuto sociale senza toccano e riduce l’auspicato rinnovamento sociale della letteratura a un esperimento formale: indubbiamente interessante e intelligente».
L’espressionismo, pur avendone in parte l’intenzione, se non ha assolto i precisi compiti assegnatigli da Lukács, certamente non è stato una rivoluzione sulla carta, generando la gran parte delle poetiche ad esso successive e includendo tali e tanti caratteri da interessare, sia pure parzialmente, visuali opposte come quelle di Lukács e di Sedlmayr.
Ancora nell’ambito marxista è l’opposizione all’arte moderna di T. W. Adorno, esponente della più recente e «fortunata» letteratura moralistica. Sul rapporto tra l’alienazione e l’arte, Adorno scrive, riferendosi specificamente all’architettura: «A che punto siamo con la vita privata, si vede dalla sede in cui dovrebbe svolgersi. “Abitare” non è più praticamente possibile (…). Le abitazioni moderne, che hanno fatto tabula rasa, sono astucci preparati da esperti per comuni banausi, o impianti di fabbrica capitati per caso nella sfera del consumo, senza il minimo rapporto con gli abitanti: esse contrastano brutalmente ad ogni aspirazione verso un’esistenza indipendente, che del resto non esiste più (…). Vista da lontano, la differenza tra Wiener Werkstätte e Bauhaus non è poi considerevole. Nel frattempo, le curve della forma puramente funzionale si sono rese indipendenti dalla loro funzione e trapassano nel decorativo come le “forme elementari” del cubismo. (…). “Fa parte della mia fortuna – scriveva Nietzsche nella Gaia scienza – non possedere una casa”. E oggi si dovrebbe aggiungere fa parte della morale non sentirsi mai a casa propria».
Anch’essa basata sulla critica all’american way of life, cui va sempre riferito il giudizio di Adorno, è la posizione di Thorstein Veblen. La sua critica sociologica non è centrata direttamente sui prodotti dell’arte moderna, ma insiste genericamente sugli articoli di consumo e sul giudizio di valore dato agli oggetti in funzione del loro costo. La maggiore soddisfazione che deriva dall’uso e dalla contemplazione di prodotti costosi ritenuti belli, è ordinariamente in gran parte una soddisfazione del nostro gusto della dispendiosità, mascherato sotto il nome di bellezza (…). È a questo punto, in cui s’incontrano e si fondono il bello e l’onorifico, che nel caso concreto è assai difficile una discriminazione fra utilità e sciupio (…). Con un’ulteriore assuefazione a percepire, da una punto di vista valutativo, i segni della dispendiosità dei beni, e con l’identificazione abituale di bellezza e rispettabilità, succede che un oggetto bello che non sia costoso non viene stimato bello».
Questi rilievi che si integrano alle precedenti riflessioni moralistiche di Adorno, spiegano in parte la crisi del design, nell’orientamento datogli dal Bauhaus, a contatto con la classe agiata americana e successivamente con la borghesia internazionale. La relazione bellezza=prestigio=dispendio chiarisce, in particolare, alcuni artifici atti a tener alto il prezzo dei prodotti, specie d’arredamento, nonché quelli, in generale, del mercato artistico. Ma se l’arte moderna è tradita in tal modo nelle sue premesse sociologiche, essa, secondo Veblen, è complice del malcostume per il suo ermetismo. Eccetto là dove sia adottato come mezzo indispensabile di comunicazione segreta – scrive Veblen l’uso di un gergo speciale in qualsivoglia attività è sostanzialmente un’ostentazione.
Nell’ambito della sinistra radicale americana la critica discorde presenta aspetti quantitativi e qualitativi assai rilevanti. Nei limiti della nostra rassegna citeremo il caso più noto e forse più pertinente alle arti figurative: il saggio di Clement Greenberg, Avant-Garde and Kitsch, che apparso nel 1946 ha, tra l’altro, il merito di aver anticipato una condizione ancor oggi attuale.
«L’avanguardia – egli scrive – una volta staccatasi dalla società si è rivolta a ripudiare la politica rivoluzionaria al pari di quella borghese (…). Allontanandosi dal pubblico, il poeta o l’artista d’avanguardia cercava di mantenere alto il livello della sua arte restringendola e sollevandola alla espressione di un assoluto in cui tutte le relatività e le contraddizioni apparissero risolte […]. È stato nella ricerca dell’assoluto che l’avanguardia è arrivata all’arte «astratta» o «non-oggettiva» nelle arti figurative come nella poesia.
Il poeta o l’artista di avanguardia cerca in sostanza di imitare Dio creando qualcosa che sia valido solo nei suoi propri termini… Ma l’assoluto è assoluto e il poeta o l’artista, così com’è, accarezza determinati valori relativi a preferenza di altri. Gli stessi valori nel nome dei quali egli invoca i valori assoluti sono valori relativi, i valori dell’estetica. E così egli ci appare imitare non Dio ma le discipline e i processi della stessa arte e letteratura; e qui uso imitare nel senso aristotelico.
Questa è la genesi dell’ “astratto”. Distogliendo l’attenzione dagli oggetti della comune esperienza, il poeta o l’artista la rivolge ora sul mezzo del suo proprio mestiere. Il non-rappresentativo o 1’“astratto”, se deve avere una validità estetica, non può essere arbitrario o accidentale. Questo vincolo può essere fondato solo nei vari processi o discipline coi quali l’arte e la letteratura hanno già imitato il precedente. Questi stessi processi diventano il nucleo dell’arte e della letteratura. Se, seguendo Aristotele, tutta l’arte e la letteratura sono imitazione, allora quel che abbiamo ora è l’imitazione dell’atto di imitare».
La gran parte degli artisti contemporanei, secondo Greenberg, rientra in questo schema. Picasso, Braque, Mondrian, Mirò, Kandinsky, Brancusi, lo stesso Klee, Matisse e Cézanne traggono ispirazione principalmente dal medium con cui operano.
Se l’argomentazione di Greenberg non è priva di interesse, appare tuttavia evidente l’angustia del suo sillogismo nel contenere artisti e poetiche tra loro tanto differenti. Più convincente appare il rapporto tra avanguardia e Kitsch stabilito da questo Autore che, dopo aver trattato isolatamente i due termini, conclude: se l’avanguardia imita i processi dell’arte, il Kitsch imita l’effetto dell’imitazione, intendendo che nei mezzi della cultura di massa sono già inclusi e previsti gli effetti ch’essa produrrà sul pubblico.
Una posizione particolare rispetto al problema in esame è quella di Cesare Brandi. Nella vasta e complessa attività di ricerca di questo studioso, l’interesse verso l’arte moderna è prevalentemente angolato nel senso di una critica discorde. Tuttavia, anche se tra consapevoli incertezze e ambiguità, questa si svolge come una analisi, per così dire, interna al processo formativo dell’arte d’oggi e, quel che più conta, come una indagine mutevole, una continua e costante messa a fuoco. Tali ci sembrano le modificazioni di giudizio che vanno dal famoso saggio La fine dell’avanguardia del 1949, a Segno e immagine del ‘60 fino alla recente monografia su Burri.
In un brano che sembra riassumere la nostra rassegna Brandi afferma: sostanzialmente una «Crisi dei valori veniva avanti anche dall’antagonista più aspro dell’Arte moderna, il Sedlmayr, nel suo Verlust der Mitte, come perdita tu quel mezzo in cui stat virtus: perdita d’umanità, d’organicità, del senso della realtà e del divino.
Perdite, queste, che non è certo il solo Sedlmayr a lamentare, ma che, da più di trent’anni a questa parte, costituiscono l’amaro basso continuo del pensiero europeo, da Spengler a Berdjaiev, da Huizinga a Ortega y Gasset. La giustezza e l’inefficacia di queste lamentazioni sulla “disumanizzazione dell’arte”, sta proprio nel fatto che, né un ritorno alla natura né l’umanesimo, né la fede in Dio possono far nulla per l’arte, come invece vorrebbe far credere il Sedlmayr, mentre può farlo il ristabilimento di quella autonomia strutturale fra segno e immagine, la cui confusione è sintomo di una civiltà viziata in tutti i suoi rami e non solo nell’arte.
Ma prima di chiarire il senso di questa interferenza è necessario risalire ai precedenti scritti di Brandi per ritrovare il filo della sua requisitoria agli aspetti più diffusi dell’arte moderna. Nel primo dei saggi citati l’Autore parlava di fine dell’avanguardia come fine del Romanticismo; indicava i caratteri esponenti dell’avanguardia in quelli della rivolta e della novità e considerava l’astrattismo, in ripresa negli anni ‘50, come la poetica che concludeva il movimento artistico iniziatosi nell’800.
Nel saggio L’Arte oggi prendono corpo due nozioni che saranno al centro della critica di Brandi. La prima è l’assunto per cui l’astrattismo non si conforma in immagini e l’altra è la concezione che la cultura contemporanea non ammette altro che il tempo presente. Per quanto riguarda il primo punto l’Autore scrive: «l’astrattismo avendo svuotato l’immagine di un contenuto intelligibile, al momento stesso ha tagliato l’ormeggio all’immagine e questa fluttua alla deriva. Dove va, va. E cioè è disponibile.
Imbarca quel che ognuno ci vuol mettere, accetta quel che ognuno le affida: sbatte, naufraga, s’arena. La sua disponibilità è proprio la sua generica decoratività. Quel minimo anche si fa guardare, riesce a farsi guardare. Non è immagine». È oggetto In riferimento al secondo punto, l’aspetto temporale, si legge più avanti: «il nostro tempo vuol vivere: è un tempo ad una dimensione. Non ha che il presente. L’arte, che è il presente in assoluto, svaluta il presente come continuo trapasso del futuro nel passato. È troppo pura, immobile, disinteressata. Va perciò ridotta in modo da non nuocere».
Entrambe queste critiche saranno riprese in Segno e immagine e svolte l’una in chiave linguistica e l’altra sociologica. L’interpretazione dell’astrattismo come d’una poetica che ha degradato l’immagine nel segno e addirittura nel segno-non-significante, nonché l’analisi del costume contemporaneo, portano Brandi ad affermare: «Di fronte a questo congegno sempre più ingrato e implacabile, che diviene l’esistenza umana… il ricorso all’arte, come ad un’immagine al di fuori della gravitazione quotidiana, diviene impossibile, se l’arte non si accordi ad accorciare le distanze: nulla è più adatto, allora, ad accorciare tale distanza, che ridurre l’immagine sotto il segno, che non si pone al di là dell’interpretante… Quindi l’arte, per sopravvivere, è costretta a divenire segno per un’interpretante e a subire il traguardo incessante del presente».
In questa riduzione, nell’interferenza tra segno e immagine, come s’è detto, l’Autore vede un sintomo della grave alterazione in atto nella civiltà contemporanea.Abbiamo affermato che la posizione di Brandi, pur nell’ambito della «letteratura sulla crisi» (come Garroni definisce un atteggiamento culturale, cui partecipa anche quella che abbiamo chiamato critica discorde), indica all’interno della stessa fenomenologia artistica i limiti di questa e, forse, i modi per superarli.
«L’avanguardia è finita – egli ribadisce in Segno e immagine, non solo perché è finito il Romanticismo come aveva detto in precedenza, ma per un motivo interno all’avanguardia stessa. L’avanguardia è concepibile solo in termini di immagine, non in termini di segno. Poiché il segno varia ma non evolve: in quanto segno, vale per quel che designa, è nel presente, o non è, come segno.
Mentre l’avanguardia è un tiro d’interdizione nel futuro, un modo di precorrere se stessi e il tempo che deve venire, predisponendone la nuova clausola formale, con un’immagine di contro alla quale quella subito precedente o la prevedeva o apparirà definitivamente conclusa. Ma le vere avanguardie, per ciò stesso, sono il tessuto connettivo della tradizione… Ma non c’è avanguardia dove questa continuità dal passato al futuro si nega, dove solo conta l’eruzione astorica nel presente, e di questa eruzione non rimane che un’impronta».
La nostra inchiesta, indubbiamente sommaria e lacunosa di fronte ad una letteratura così vasta, che ha ormai l’autorità di una tradizione e la compattezza di un genere, potrebbe continuare citando gli autori più recenti. Ma la gran parte dei più giovani critici discordi, eleggendo l’ambiguità e l’interdisciplinarità a guida della loro indagine, se offre tesi più nuove e stimolanti, non presenta tuttavia quella costanza, magari a volte ingenua, di molti autori citati, che vale almeno come punto di riferimento.[…]
tratto dal numero 4