Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky

ALDO MASULLO
[…]L’estetica può diventare un validissimo strumento di arricchimento culturale e in definitiva critico solo se non si riduce a concettualizzare secondo un certo linguaggio costituito più o meno ad arbitrio del filosofo ciò che abbiamo già compreso, ma ci aiuta a comprendere più profondamente e a vivere quindi più intensamente l’emozione artistica, soprattutto quella di «contemplatori», e a comprendere più efficacemente l’altrui comprensione, cioè l’arte stessa in una sua determinata effettuazione storica.

L’estetica può allora diventar capace di alimentare la critica d’arte, la quale non è tanto un’astratta valutazione dell’«artisticità» o meno, della «bellezza» o meno di una opera, quanto una sua lettura, un’analisi cioè del suo discorso per accertare se, dato un certo linguaggio adottato e le sue regole sintattiche e semantiche, essa dica qualcosa, abbia un senso. Si tratta dunque non di riflettere sull’atto artistico, bensì di saperne ritrovare la concreta individuatezza nell’opera prodotta.
L’estetica, salvo che non voglia essere oziosità metafisica, aspira sempre ad essere un’ermeneutica (si badi, ho detto «oziosità metafisica», e non «metafisica» semplicemente, poiché ogni autentica metafisica è stata sempre, nel suo mondo culturale proprio, un dispositivo ermeneutico).
La riconduzione dell’estetica ad ermeneutica artistica comporta la presa di coscienza della situazione linguistica propria di ogni approccio ad una produzione artistica. Ci si trova qui dinanzi all’intersezione di almeno tre linguaggi: a) il linguaggio proprio del documento artistico; b) il linguaggio estetico capace di fornire certi strumenti ermeneutici; c) il linguaggio della critica d’arte che, utilizzando gli strumenti ermeneutici, le categorie interpretative fornite dall’estetica, ed applicandole alla materia costituita dal «discorso» artistico da interpretare, compie l’effettiva lettura dell’opera o per lo meno delle esplorazioni volte a individuare dei vettori di senso nella cui direzione va effettuata un’approfondita lettura.
Si pone, a questo punto, il problema di fondo di come sia possibile costruire un
linguaggio estetico che renda possibile l’adeguata lettura del discorso compiuto secondo un certo linguaggio artistico, e l’esplicitazione del senso di tale lettura in un terzo linguaggio, che è quello critico.
Certo, il linguaggio artistico è quello che di volta in volta si suppone come dato da interpretare. Ma, come si costituisce il linguaggio estetico? Non può, dopo quanto s’è detto, ammettersi ch’esso si costituisca a priori, per deduzione formale di concetti puri, poiché d’un tal linguaggio, a prescindere dal suo fondamento equivoco, non si saprebbe che uso fare, data la sua genericità. Deve esso allora costruirsi empiricamente, a partire cioè dalla lettura dei discorsi artistici effettivi? E non è questo un circolo vizioso, dovendosi con il linguaggio estetico imparare appunto a leggere i discorsi artistici?
Di fatto, ad onta del circolo vizioso, il critico d’arte procede proprio così: per successivi tentativi di lettura giunge a farsi un suo modo di leggere, non diversamente da come il bambino impara a leggere, leggendo. Certo la cultura del critico è una condizione obiettiva indispensabile, un livello di maturazione umana, senza di cui non si potrebbe imparare a leggere l’opera d’arte, ma non è la lettura: così come, perché il bambino possa imparare a leggere, è necessario che abbia già raggiunto un certo livello di maturazione psichica e di culturalizzazione, ma non è questo il leggere che egli deve ancora imparare.
Tuttavia, ciò lascia insoddisfatti in linea di principio, poiché un siffatto sistema di lettura è troppo immediato per avere garanzie di correttezza, e il linguaggio estetico vi si riduce ad un certo solidificarsi abituale di ripetizioni nel mero linguaggio quotidiano del critico.
Come allora può costituirsi un linguaggio estetico rigoroso senza essere aprioristico e formale, e al tempo stesso specificamente efficace senza essere la meccanica ripetizione di una lettura «ingenua »?
Mi sembra che un tentativo molto stimolante per dare risposta a questo problema di fondo di ogni possibile estetica sia quello compiuto da Erwin Panofsky e che nella sua intelaiatura teorica si riassume in tre saggi, pubblicati rispettivamente nel 1915, nel 1920 e nel 1925 nella «Zeitschrift für Aesthetick und Allgemeine Kunstwissenschaft», e tradotti in italiano in una raccolta di scritti dell’illustre studioso delle arti figurative.
Nel primo di questi saggi, intitolato Il problema dello stile nelle arti figurative, il Panofsky svolge una critica acutissima contro la celebre tesi di Wöllflin, secondo cui lo stile pittorico avrebbe due radici, l’una contenutistica consistente nel sentimento che si esprime, l’altra formale consistente nell’«ottica», nel modo di vedere, nel «rapporto dell’occhio con il mondo», il qual rapporto sarebbe del tutto indipendente dalla psicologia e, diciamo pure, dalla spiritualità di un’epoca.
Il Panofsky osserva che il vedere, se va inteso, né può certo essere inteso diversamente, nient’affatto come la mera fisiologia della visione, bensì come la percezione visiva animata e organizzata unitariamente e significativamente dall’attività spirituale, allora non è più fuori e indifferente rispetto al contenuto che in esso e per esso si esprime.
«In quanto momento stilistico generale», il vedere, cioè il «mondo di raffigurazione si distingue sì da quello individuale (durezza o morbidità della linea, disposizione a masse o elasticità dei sistemi di macchie) per il fatto che esprime non i sentimenti personali di un singolo individuo, bensì l’atteggiamento sovrapersonale di tutta un’epoca, ma questa differenza è soltanto una differenza di portata e di grado e non di sostanza: i modi di raffigurazione sono l’espressione indifferenziata di una grande pluralità, ma sono pur sempre espressione».
Il compito di una scienza dell’arte, al di fuori di ogni formalismo naturalistico, è «di indagare il senso metastorico e metapsicologico della raffigurazione artistica, cioè di chiedersi che cosa significhi il fatto che un’epoca raffigura in modo lineare o pittorico, in superficie o in profondità. Ma la scienza dell’arte si alienerebbe la possibilità stessa di porre queste domande, che sono infinitamente feconde, se, invece di concepire i grandi fenomeni rappresentativi come imponenti manifestazioni dello spirito, volesse per così dire determinarli mediante leggi naturali e se volesse vedere in essi modalità della visione che non sarebbero più in alcun modo interpretabili»
Si pone così l’esigenza di un principio fondamentale per la costruzione di una dottrina metodologicamente utile per la comprensione del fenomeno artistico, sì da penetrare «oltre la sua esistenza empirica, nelle condizioni della sua esistenza» e, al di là «dei fattori determinanti l’opera d’arte (del carattere materiale, della tecnica, della sua determinazione finale, delle condizioni storiche)», cogliere «la somma o l’unità delle forze creative che in essa si esprimono, che l’organizzano sia formalmente sia contenutisticamente dall’interno», la quale unità è pensata con «il concetto di volere artistico » (Kunstwollen) .
A questo concetto, enunciato per la prima volta da Alois Riegl, è dedicato il saggio di Panofsky, intitolato appunto Il concetto del Kunstwollen, in cui il «volere artistico» è ricondotto a quello di «intenzione artistica»: il secondo «sembra distinguersi dal primo soltanto convenzionalmente, cioè in base alla portata del suo ambito di applicazione; il concetto di volere artistico si applica infatti prevalentemente a fenomeni artistici globali, alle creazioni di un’intera epoca, di un popolo o di una personalità nel suo complesso, mentre il termine di intenzione artistica si usa in genere piuttosto per caratterizzare la singola opera d’arte».
Però sia il concetto di «volere artistico» che quello di «intenzione artistica» vanno liberati da ogni possibile interpretazione realistico-psicologica: essi non vanno intesi né nel senso della psicologia dell’artista, né nel senso della psicologia dell’epoca, né nel senso della psicologia dell’appercezione dello spettatore.
Il saggio del Panofsky è di singolare rilievo, non solo perché il fenomeno artistico vi è spostato dal piano del πραττειν al piano del ποιειν, e ci si oppone ad ogni idealistica risoluzione dell’arte nell’atto, ma soprattutto perché vi è utilizzato il concetto di «volere» o «intenzione» in un’accezione radicalmente anti-psicologistica che rivela una straordinaria vicinanza alle posizioni della fenomenologia di Husserl, il che si spiega con la influenza dell’oggettivismo e antipsicologismo della scuola di Marburgo, di netta ispirazione neokantiana, la quale influenza è presente tanto in Husserl, quanto, soprattutto attraverso Cassirer, in Panofsky.
Invero, se il termine «volere artistico» deriva a Panofsky da Riegl, il termine «intenzione» artistica, che egli riconosce «parallelo» al primo, gli deriva proprio da Husserl, e proprio sullo sfondo della fenomenologia appare con il suo carattere decisamente anti-psicologistico.
Tutte le ricerche logiche di Husserl, dal 1900 in poi, influenzate da coloro che come Lange, Bolzano, Lotze, e appunto i teorici della scuola di Marburgo, Cohen e Natorp, riprendono in un modo o nell’altro il motivo kantiano di un piano di validità trascendentale conferendo significato agli atti umani indipendentemente dalla loro fattualità, sono volte alla confutazione della tesi psicologistica.
Secondo l’assunzione psicologistica «la logica è una disciplina psicologica, così sicuramente come la conoscenza non si produce se non nella psiche, e il pensiero, che si attua in questa conoscenza, è un avvenimento psichico»: le forme logiche non sono che i modi del combinarsi dei contenuti rappresentativi elementari secondo leggi meramente empiriche; le connessioni logiche non sono dei significati propri, oggetti di atti psichici, ma semplicemente maniere costanti di rappresentare, condizionate dalle capacità aggregative di elementari contenuti rappresentativi empirici, sono dunque dei meri atti psichici, e cioè fatti reali, accadenti nello spazio e nel tempo.
Per lo psicologismo, eminentemente associazionistico, il fondamento della verità, cioè della validità di un rapporto enunciato nel discorso a proposito di uno stato di cose, può trovarsi esclusivamente nel rapporto di fatto che quell’enunciato è.
Il superamento dello psicologismo sembra a Husserl realizzabile soltanto se si fonda la validità del rapporto enunciato in un atto di coscienza originario, che non sia esso il rapporto di fatto, ma l’evidenza vissuta e perciò non rifiutabile del rapporto di fatto, rispetto alla quale evidenza il rapporto enunciato non sia che l’esplicitazione discorsiva. Ciò è possibile, poiché per Husserl la coscienza non è un atto astrattamente soggettivo, ma è originariamente correlazione di soggetto e oggetto.
Questo a-priori-di-correlazione(Korrelationsapriori), in quanto struttura della coscienza fa della coscienza stessa non un ente trasceso dalla «realtà», ma il trascendere-verso-la-realtà e in tal senso il trascendentale. Il superamento dello psicologismo è fondato da una parte, dunque, su quella scoperta della struttura della coscienza, cui Brentano ha avviato Husserl mediante il concetto d’intenzionalità, dall’altra parte sulla riduzione fenomenologica, in virtù della quale Husserl toglie all’intenzionalità il suo significato brentaniano, realisticamente anche se non associazionisticamente psicologico, cioè il carattere di legge governante un settore della «realtà» accanto ad altri, e le conferisce invece il significato di modo essenziale dell’esistenza, cioè dello stesso trascendere-verso-la-realtà.
Brentano aveva sostenuto che «ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli Scolastici del Medioevo chiamarono l’inesistenza intenzionale (ovvero mentale) di un oggetto e che noi chiameremmo relazione ad un contenuto, direzione verso un oggetto (non nel senso d’una realtà) o oggettività immanente». Che la coscienza sia intenzionale vuol dunque dire che è impossibile un qualsiasi atto di coscienza che non sia la coscienza-di-qualcosa, non abbia il suo oggetto immanente, indipendentemente dall’esistenza o meno di tale oggetto fuori dell’atto mentale.
Husserl, rivendicato il carattere ideale e non reale degli enti logici, può aprire tutto l’infinito mondo dell’esperienza ad un tipo di analisi che ne consideri non la realtà empirica, ma la portata ideale, adottando un metodo, quello dell’epoché che permetta d’isolare in ogni atto di esperienza, in ogni Erlebnis, il piano intenzionale, cioè appunto quello degli oggetti e quindi della portata ideale dell’atto, dal piano reale, della sua situazionalità e processualità effettive, spazio-temporali.
Ciò è esemplarmente chiaro nell’analisi del fenomeno dell’espressione verbale: «Se noi ci poniamo sul piano della pura descrizione, il fenomeno concreto dell’espressione animata da senso [Phänomen des sinnlebten Ausdrucks] si scompone da una parte nel fenomeno fisico, in cui si costituisce l’espressione per il suo aspetto fisico, e dall’altra parte negli atti, che gli conferiscono la significazione ed eventualmente il riempimento intuitivo e in cui si costituisce la relazione ad un’oggettività espressa. In forza di questi ultimi atti, l’espressione è più che un mero suono verbale. Essa intende [meint] qualcosa e, in quanto la intende, si riferisce ad un che di oggettivo»
L’«intenzione artistica», cui Panofsky riduce in fondo la nozione di «volere artistico», comporta, analogamente a quanto fa la fenomenologia nell’analisi degli Erlebnisse in generale, l’applicazione dell’operazione epochizzatrice l’Erlebnis artistico qual esso si manifesta nell’opera d’arte.
Il fenomeno artistico viene cioè depurato di ogni sua componente effettuale (la storia individuale dell’artista e la sua intenzione psicologico-empirica, la storia collettiva con le tendenze, consce o inconsce, dell’epoca, le reazioni soggettive degli spettatori, ecc.), e se ne lascia così affiorare la portata estetica, quel senso ultimo e autentico che ne costituisce l’originaria oggettività, quel che appunto si può chiamare il «volere artistico»: «se quest’espressione non deve designare una realtà psicologica né un concetto specifico attinto per via astrattiva – il volere artistico non può essere altro che ciò che “sta” (non per noi, bensì obiettivamente) come un senso ultimo e definitivo del fenomeno artistico»
In altri termini, come la portata gnoseologica di un giudizio non sta nel suo contenuto in quanto tale, né nel suo confronto con situazioni esterne, ma nel modo con cui io penso il rapporto oggetto del giudizio (per es., secondo il concetto di causa), così la portata artistica di un’opera d’arte può essere reperita a priori come suo senso immanente, prescindendosi da ogni suo legame con la fattualità storico-empirica e quindi da ogni elemento rilevabile a posteriori.
Una scienza dell’arte dev’essere allora in grado di pervenire ad enunciare dei concetti fondamentali a priori, i quali non pretendono di essere concetti generali sussuntivi del fenomeno artistico nella sua effettività, bensì di cogliere «le condizioni della sua esistenza e del suo essere-così-e-così» e sono quindi «categorie che non dovrebbero designare la forma del pensiero che produce l’esperienza, bensì la forma dell’intuizione artistica».
In qual senso si può parlare di concetti fondamentali a priori e proposito di una scienza dell’arte, senza cadere nell’apriorismo dogmatico delle estetiche speculative o nel formalismo idealistico? A questa questione di fondo Panofsky abbozza una risposta nel terzo dei saggi sopra accennati, e precisamente in quello intitolato Sul rapporto tra la storia dell’arte e la teoria dell’arte, dove la rilevabilità a-priorica delle categorie artistiche si scioglie da ogni equivoco metafisico-sostanziale o speculativo-formale.
I «concetti fondamentali» della scienza dell’arte non sono astrazioni generalizzanti indotte a partire dai dati empirici, non sono fondati sulla fattualità dell’opera compiuta in quanto tale, bensì sono «coppie di concetti», nella cui struttura antitetica si esprimono i «problemi fondamentali» a priori dell’operare artistico: per esempio, nelle arti figurative, le opposizioni tra valori ottici (spazio aperto) e valori aptici (corpi), valori della profondità e valori della superficie, valori della compenetrazione e valori della contiguità.
I «problemi fondamentali» a priori dell’operare artistico sono concetti dialettici, antitesi tra limiti astrattamente opposti, entro cui ogni opera d’arte rappresenta una concreta sintesi risolutiva.
A priori sono i problemi, non le soluzioni.
Tutti i problemi peraltro «sono inclusi in un unico grande problema originario, il quale ha a sua volta la forma di un’antitesi e – in quanto risulta necessariamente dalle condizioni dell’operare artistico come tale – si pone a priori: in quel problema che probabilmente si può circoscrivere nel modo migliore con i termini plenum e forma ».
L’arte infatti, comunque venga definita, adempie il suo compito specifico plasmando (forma) i dati della sensibilità (plenum). Come si vede, qui l’arte viene pensata secondo «concetti fondamentali» che, pur non essendo a posteriori, non emergono che dal contenuto proprio del concetto dell’arte quale questa effettivamente si dà e che riescono a fissarne teoricamente non l’effettività mutevole, ma l’immutabile problematicità.
Dire che il problema originario dell’arte è quello dell’antitesi tra plenum e forma, tra la sensibilità e l’attività plasmatrice di essa, significa muovere dalla considerazione dell’operare artistico effettivo, mettere tra parentesi l’effettività e, applicando al residuo ideale di questa operazione riduttiva il metodo tipicamente fenomenologico delle «variazioni», attinto da Husserl a Stumpf, pervenire a evidenziare l’eidos dell’arte, cioè quella necessaria oggettività di ciò che si pensa quando si pensa l’arte, e che non può essere diversa da quella che è, dato il fenomeno dalla cui effettività si son prese le mosse dell’indagine: e non soltanto l’eidos dell’arte in genere, ma gli eide delle singole arti nella loro più sottile specificità.
Si tratta dunque, nella teoria dell’arte, di concetti, i quali non sono a priori nel senso di un’origine puramente speculativo-deduttiva, essendo invece la loro genesi da ricercarsi esclusivamente nella esperienza concreta: «Se i concetti che formulano questi problemi avanzano una pretesa di validità a priori, questa pretesa non significa che essi possano venire scoperti a priori, bensì soltanto che possono venire legittimati a priori».
Né tali concetti sono empirici nel senso dell’a-posteriori, di una mera induzione selettrice e classificatrice dei fatti, dal momento che non generalizzano i fenomeni nella loro effettività, bensì definiscono i caratteri della possibilità dei fenomeni, non ne sistemano l’effettività data, ma ne chiariscono quella problematica, cui ogni effettivo fenomeno artistico dà una sua, singolarissima risposta.
A priori, e quindi pertinenti ad una scienza «trascendentale» dell’arte sono i problemi dell’operare artistico. Le soluzioni nella loro effettività sono invece di esclusiva competenza di una scienza storica dell’arte. L’analisi trascendentale di tipo kantiano viene da Panofsky applicata sui piano estetico attraverso l’adozione delle due grandi operazioni della fenomenologia husserliana: l’epoché o riduzione idealizzante e la «variazione» o riduzione eidetica.
Si può così progettare di costituire una scienza dell’arte, che sia empirica, senza essere empiristica, apriorica senza essere aprioristica. Come osserva Panofsky stesso, da una parte i concetti della scienza dell’arte, «pur essendo a priori, non possono venire scoperti a prescindere da qualsiasi esperienza»; dall’altra parte, «i problemi artistici sono riconoscibili soltanto a partire dalla loro soluzione, cioè a partire dalle opere d’arte »
Accanto ad una così impostata scienza dell’arte trova la sua possibilità di fondazione anche una storia dell’arte.
Questa, per sottrarsi all’intimidazione crociana che proclama l’impossibilità di una storia dell’arte, non essendo concepibile una storia della forma dell’arte, finisce spesso per cercare il fondamento della sua storicità fuori di se stessa, in un contenutismo astrattamente sociologico o psicologico o genericamente culturale.
Panofsky, invece, concepita la scienza dell’arte come la conoscenza delle antitesi costituenti i problemi necessari cui son volte le possibili risposte dell’operare artistico, restituisce alla storia dell’arte la sua possibilità come scienza indicativa e descrittiva, ad un primo livello, e interpretativa, ad un secondo livello, costituita di concetti, i quali, a differenza di quelli apriorici della scienza dell’arte, «non si muovono tra opposizioni assolute, bensì su una scala graduale» : essi caratterizzano storicamente ogni singola opera d’arte proprio sul piano formale, in quanto evidenziano la singolarità della soluzione che essa rappresenta in risposta ai problemi dell’arte, e mettono in rapporto tale singolarità con le altre più vicine soluzioni. In tal modo, l’individuale e l’universale dell’arte riescono a mediarsi storicamente, sì da recuperare all’indagine sul l’arte quegli «universali medi» che, negati nel formalismo speculativo crociano, sono stati felicemente rivendicati alla loro funzione analitico-interpretativa dell’esperienza dal Carbonara: solo così è possibile conferire un significato critico alle «scuole», agli «ambienti», ai «secoli», al «gusto», e dare i punti d’attacco legittimi per indagini di carattere sociologico e culturale in sede estetica.
Il rapporto tra la scienza dell’arte e la storia dell’arte è in fondo tra una scienza dell’eterno e una del temporale, ma l’eterno non ha qui alcun preoccupante peso metafisico, anzi è esso medesimo pertinente alla storicità: l’eterno non è se non il passaggio al limite, l’astratta assolutizzazione del sempre relativo, e perciò graduale, coesistere di opposti nella soluzione artistica di fatto. Così ad esempio il «plastico» è il punto d’incontro, il «punto zero» tra le due tendenze «pittorica» e «stereometrica»: di fatto però tale «punto zero» varia continuamente nelle diverse condizioni storiche.
La storia dell’arte «designa mediante concetti indicativi-dimostrativi le proprietà sensibili delle opere d’arte, e mediante concetti interpretativi-caratterizzanti lo stile nel suo senso esterno, come un aggregato di criteri stilistici». V’è poi una storia dell’arte in quanto scienza dell’interpretazione, che «mira al riconoscimento del volere artistico». Per far ciò, essa deve richiamarsi ai risultati della scienza dell’arte, poiché allora «non si rivolge più soltanto a una realtà storica, ma anche a un rapporto tra la posizione e la soluzione dei problemi»
Mentre lo «stile nel suo senso esterno» è quello che si scopre empiricamente nella pura e semplice storia dell’arte, lo «stile nel suo senso interno» è lo stesso «volere artistico», cioè quella presa di posizione dell’artista rispetto al problema artistico originario, che viene rilevata mediatamente attraverso il rapporto strutturale tra i problemi fondamentali e particolari dell’operare artistico e le soluzioni singolari che l’artista ne dà. Questa rilevazione mediata Panofsky considera il compito proprio della scienza dell’interpretazione, che è per lui la vera e propria scienza trascendentale dell’arte.
Da queste rapide note risulta chiaramente come in Panofsky convergano e si fecondino a vicenda in sede estetica due filoni filosofici già per proprio conto, in una ben più ampia e complessa cornice culturale, intimamente connessi anche se con legami a volte controversi e a volte tutt’altro che scoperti: il trascendentalismo kantiano e la fenomenologia husserliana.
Del primo, Panofsky ritiene con rigore la nozione di a-priori formale: « se i concetti fondamentali della scienza dell’arte sono indubbiamente fondati a priori e se perciò valgono indipendentemente da tutta l’esperienza, ciò non significa naturalmente che essi potessero venire scoperti a prescindere da qualsiasi esperienza, cioè per vie puramente intellettuali».
Del secondo, Panofsky echeggia l’aspirazione a istituire una scienza dei fenomeni, i cui concetti servano non a fornire risposte sulla loro consistenza, ma a porre semmai ad essi correttamente le domande, sì che essi finalmente possano «parlare», mostrare il loro autentico senso: «I concetti fondamentali della scienza dell’arte riducono sotto una formula la posizione, ma non la soluzione dei problemi artistici e perciò determinano solo le domande che noi dobbiamo rivolgere agli oggetti, ma non le risposte individuali, e sempre imprevedibili, che questi oggetti ci possono dare». Essi servono a «far parlare» i fenomeni.
Il tentativo di Panofsky mostra esemplarmente come, senza negare la legittimità di un’estetica filosofica, «la quale si proponga di stabilire le premesse e le condizioni che rendono l’opera d’arte possibile a priori», e aspiri quindi a elucidare le condizioni di pensabilità di un operare umano artisticamente qualificabile, possano utilizzarsi in sede estetica concetti filosofici con funzioni operative, anzi ché speculative, e come, nella specie, i principi dell’analisi trascendentale e il metodo fenomenologico possano servire a costruire una scienza interpretativa, un’ermeneutica rigorosa per ogni settore artistico, cioè il lessico e la sintassi di un linguaggio adeguato ad operare la lettura corretta di un’opera d’arte.
Probabilmente lo sviluppo di un siffatto piano ermeneutico, colmando il vuoto esistente tra l’estetica filosofica e la critica d’arte, contribuirebbe a mediare e rendere finalmente comunicabili questi due ultimi piani e insieme a risolvere la crisi interna di ciascuno di essi.
tratto dal numero 3