Che cos'è la critica?

RENATO DE FUSCO
Una delle parole più usate nel linguaggio moderno è «critica» e con un senso, per un verso, tra i più banali, per un altro, tra i più problematici.
Secondo Wikipedia, «la critica, dal greco κρὶνω (distinguo) è un esame circostanziato di un fatto o di un’opera letteraria, scientifica, teatrale, artistica, valutandone gli aspetti contenutistici, estetici e storici.

Spesso per critica si sottintende che in essa si debbano riportare, prevalentemente, pareri antitetici e negativi: ciò non è sempre vero, ma va notato che ha spesso maggior rilevanza la confutazione o stroncatura di un’opera rispetto a una descrizione elogiativa della stessa».
Insomma anche il sapiente web conferma che, almeno in parte, solitamente per critica s’intende dir male di qualcuno o qualcosa.
Per una prima identificazione della critica leggiamo dalla stessa fonte: «Lo sviluppo storico delle forme culturali evidenzia una stretta connessione tra la critica sia con la creazione artistica sia con i modelli ed il pensiero filosofico, estetico ed etico.
Quindi esiste una “saldatura” fertile fra le idee sviluppatesi in un contesto sociale nei riguardi delle attività artistiche e la produzione di tipo intellettuale che viene denominata “critica”, che consente un passaggio di influenze reciproche. Per quanto riguarda la cultura occidentale, la nascita della critica può coincidere con le prime tracce di valutazioni estetiche-critiche presenti nelle opere di Aristotele, di Platone e nelle commedie di Aristofane.
Oggetto del saggio
In questa sede, oltre a smentire la suddetta rilevanza negativa, si vuole indagare sul significato più profondo del termine «critica», ovvero conoscerne la natura, la struttura, il suo statuto; e ciò al di là della «critica d’arte» che fa la parte del leone nell’uso del nostro termine, mentre nella realtà quotidiana si parla di critica a proposito di tutto l’agire umano, dalla religione alla politica, dai fatti
della cultura a quelli dell’economia, dai mass-media alla cronaca da strapaese.
Che proprio il mondo della critica d’arte abbia offuscato la critica nell’accezione più generale è già stato notato da qualche autore. «La maggior parte dei critici, assorbiti dal loro oggetto – le opere esistenti, o le opere da fare – dimenticano di interrogarsi sulle ragioni e le implicazioni della propria attività.
Ai loro occhi è sufficiente che essa appaia come una risposta adeguata alle opere, senza che sia necessaria una messa in causa riflessiva del proprio statuto» All’osservazione appena citata fa seguito il consiglio di Doubrovski per cui «una critica degna di questo nome comincia con l’esser un’autocritica. Deve conoscere i propri postulati per rivendicare le proprie certezze».
Avvertita l’esigenza di ricercare tale statuto e accantonata, ripeto, in questa sede, la critica d’arte (almeno fin dove è possibile, poiché da quest’ultima sono ricavabili assunti utili al più generale concetto di critica) va anzitutto posta la domanda se esista veramente una «sostanza» della critica o, almeno, un denominatore comune nell’esercizio critico nei campi più diversi.
È lecito pensare che in presenza di tanti termini applicativi, ognuno legato ad uno specifico settore, esista un sostantivo che funga da univoco legame. In altre parole, è così largo l’uso del termine «critica» e la funzione del criticare in ogni campo, da dover necessariamente ammettere l’esistenza di un concetto generale, donde derivano le critiche particolari.
Alcune definizioni della critica
«Termine con cui s’indica in primo luogo la facoltà intellettuale che rende capaci di esaminare e valutare gli uomini nel loro operato e il risultato o i risultati della loro attività per scegliere, selezionare, distinguere il vero dal falso, il certo dal probabile, il bello dal meno bello o dal brutto, il buono dal cattivo o dal meno buono, ecc.
Il termine indica quindi anche il complesso delle indagini volte a conoscere e a valutare, sulla base di teorie e metodologie diverse, i vari elementi che consentono la formulazione di giudizi sulle opere dell’ingegno umano, in partic., specificando il campo dell’indagine: c. artistica (o c. d’arte), c. letteraria, estetica, musicale, teatrale, cinematografica; c. storica, politica; c. testuale, c. delle fonti».
In un altro testo si legge che la critica è un «esame rigoroso a cui la ragione sottopone le cose (e si riferisce in particolare a fatti, notizie, dottrine, istituzioni, opere scientifiche e artistiche) per determinare il loro grado di verità, certezza, bontà, bellezza, anziché accettarle immediatamente così come vengono proposte (dall’autorità, dalla tradizione, dall’opinione comune, ecc.). Anche: il giudizio con cui si esprime il risultato dell’esame»
Nel Lalande si afferma: «Critica. Originariamente la parte della logica che tratta del giudizio. “Critica, pars dialecticae de judicio, quasi judiciaria” (Goclenius, 492a)». E inoltre: «Esame di un principio o di un fatto, nell’intenzione di portarvi un giudizio valutativo. In particolare vi sono una critica d’arte (estetica) e una critica della verità (logica).
È definita da Kant in questo senso ampio: “Un libero e pubblico esame” (eine freie und öffentliche Prüfung). (Critica della Ragion pura, Prefazione, 1 ed., nota). In questo senso si chiama spirito critico quello che non accetta alcuna asserzione senza dapprima chiedersi il suo valore, sia dal punto di vista del suo contenuto (critica interna), sia dal punto di vista della sua origine (critica esterna).
Applicazioni particolari: critica storica, critica verbale». Anche il dizionario francese rimarca il significato di giudizio sfavorevole da attribuire alla critica. «Questo senso per il verbo criticare, è il più frequente» . Nella raccolta delle definizioni non manca quella che considera la critica come aggettivo del tutto negativo, si dice infatti «momento critico», «situazione critica», «punto critico» per designare una fase difficile e/o di crisi.
Passando ad alcune definizioni date da maestri della critica (d’arte), per Argan quest’ultima è una disciplina autonoma e specialistica, che opera secondo proprie metodologie, ha come fine l’interpretazione e la valutazione delle opere artistiche, e, nel suo sviluppo, ha dato luogo al formarsi non soltanto di metodologie appropriate, ma di un vero e proprio linguaggio speciale.
Anche accantonando il riferimento alla critica d’arte, la definizione resta generica, a meno di quel cenno riguardante il carattere autonomo della critica. Secondo Dorfles, «può essere che il destino della critica sia in parte segnato, allo stesso modo di quello dell’estetica. Nel senso d’un loro convergere (dell’estetica e della critica) verso altri settori delle scienze umane: verso la psicologia, l’antropologia, la sociologia, la semiotica, la psicanalisi».
Anche Dorfles tocca il campo della critica d’arte, peraltro il suo intervento ricorda, per analogia, ciò che a suo tempo dichiarò Vitruvio: Architecti est scientia pluribus disciplinis et variis eruditionibus ornata, non solo, ma il cuius iudicio probantur omnia quae ab ceteris artibus perficiuntur opera, vale a dire che tutte le altre arti sono sottoposte al suo giudizio, il che conferma il suo superiore prestigio; quasi che, per riportare il discorso nel nostro campo, l’architettura valga come critica per gli altri settori.
Per Garroni, la critica è come un procedimento che «consente di abbracciare in un’unica classe non totalizzante tutti i fenomeni linguistici e tutti i fenomeni non linguistici che possono essere tradotti entro certi limiti in fenomeni linguistici».
La citazione delle varie definizioni potrebbe continuare, risolvendosi quasi sempre in riferimento alla critica d’arte, nonché in una concezione della critica come facoltà intellettuale e/o in quella di una metodologia operativa.
I criteri
Alle definizioni della critica fanno seguito quelle dei «criteri», che, anticipando una conclusione, vanno considerati gli elementi costruttivi della critica, condividendo peraltro la stessa radice, κρὶνω (distinguo).
Secondo Abbagnano: «criterio è una regola per decidere ciò che è vero o falso, ciò che si deve fare o non fare, ecc. Il problema di un criterio adatto a dirigere l’uomo si affacciò solo nel periodo post-aristotelico della filosofia greca, quando la filosofia assunse un carattere prevalentemente pratico. Così Epicuro fece della sensazione il criterio della verità e del piacere sensibile il criterio del bene (Diog. L., X, 31).
Gli Stoici fecero della rappresentazione catalettica il criterio della verità (Ibid., VII, 54) e del vivere secondo natura il criterio della condotta (Ibid., VII, 87). E a loro volta gli Scettici, negando la validità di questi criteri, stabilirono come criterio loro proprio l’aderire ai fenomeni e il vivere secondo i costumi, le leggi, le istituzioni tradizionali e secondo le proprie affezioni (Sesto Em., Ip. Pirr., 21-24).
È chiaro che ogni filosofia, anche se non elabora a tal proposito una dottrina esplicita, tende sempre a fornire all’uomo un criterio per dirigersi nelle sue scelte, e specialmente in quelle che hanno un’importanza decisiva per la sua vita. Kant ha usato invece di criterio, la parola canone» .
Comunemente si parla di criterio come parametro, guida per i comportamenti, le scelte e i giudizi. Legati alla critica, i criteri sono, tuttavia, in generale mutevoli nel tempo ed evidentemente condizionati dalla storia, dalla teoria, soprattutto dalla convenzione che costituisce la specificità del loro apporto alla critica. Detto diversamente, i criteri costituiscono i fattori più caratterizzanti il vario potenziale della critica e possono considerarsi le braccia operative di un corpus, pensato come un denominatore comune a ogni tipo di applicazione della critica.
Secondo Battaglia, il criterio è «1) Principio di distinzione e di scelta (fra il vero e il falso, il bello e il brutto, il bene e il male); regola, strumento di giudizio. 2) Principio informatore di un’attività, norma che determina un qualsiasi giudizio o scelta; intendimento, valutazione in senso generale. 3) Facoltà di giudicare rettamente, discernimento. Anche: senso dell’opportunità e della natura, buon senso.
Tra i criteri più ricorrenti è il «gusto», che, a mio avviso, rappresenta uno dei più importanti per «costruire» il concetto di critica; caratterizzato per lo più in senso estetico, esso contribuisce a spiegare perché la critica d’arte continua a essere il campo critico più privilegiato. Ma è opportuno sottolineare che il gusto non riguarda solo l’artistico e l’estetico, bensì ogni prodotto e comportamento di qualità. Proprio la ricchezza problematica del gusto costituisce, come vedremo, il cavallo di Troia per penetrare nella cittadella della critica tout court.
Critica e filosofia
Al fine di ricercare la sostanza concettuale della critica è d’obbligo tenere in gran conto l’apporto della filosofia, con un’avvertita premessa. Una delle maggiori difficoltà che ho incontrato nella ricerca dei materiali per comporre il presente saggio stava paradossalmente nel consultare i maggiori testi filosofici e letterari, perché sia negli uni che negli altri lo specialismo era tale e le pretese, certamente legittime, così alte da offuscare la definizione stessa di critica.
Voglio dire che sia i filosofi sia i letterati, più che far chiarezza su quest’ultima, la utilizzano ai loro fini. Ciononostante, il punto di partenza per conoscere il concetto di critica, fuori dalle sue applicazioni a questo o a quel fenomeno, resta quello del tardo-illuminismo e segnatamente del criticismo, ossia della sintesi di razionalismo ed empirismo.
Richiamando alcune nozioni di filosofia, è noto che il razionalismo di Cartesio spiegava tutta la realtà tramite la ragione, partendo dall’autocoscienza, il cogito ergo sum, avvalendosi del solo strumento della conoscenza a priori, cioè prima dell’esperienza. Poco convincente risultava tuttavia la possibilità di affermare con certezza che il pensiero logico corrispondesse all’essere, che il piano logico corrispondesse a quello ontologico.
Altrettanto noto è che l’empirismo di Locke, Hume e Hobbes affermava l’esatto contrario del razionalismo. Per essi la conoscenza della realtà circostante era affidata ai sensi e alle percezioni, ovvero ad un conoscere a posteriori. In tal modo però le idee che ne derivavano non avevano valore universale, ma solo quello legato a un certo momento e a una situazione particolare; donde l’impossibilità di conoscere qualcosa con certezza e lo scetticismo gnoseologico.
Il criticismo di Kant opera una sintesi delle precedenti tendenze in base alla cosiddetta rivoluzione copernicana, ossia l’inversione dei rapporti tra soggetto e oggetto della conoscenza. Contro il precedente pensiero dogmatico, per cui le forme del soggetto si adattavano passivamente alla natura, col criticismo è l’esperienza sensibile a venir modellata dalle nostre strutture mentali.
L’accordo tra la conoscenza dei razionalisti e quella degli empiristi si effettua come una sintesi tra gli elementi a priori, già presenti nella mente del soggetto (le categorie, o il concetto di spazio e tempo), ed elementi a posteriori provenienti dall’esterno, dall’oggetto da conoscere: il fenomeno.
In questa nuova filosofia gioca il ruolo centrale il concetto di critica; per critica Kant intendeva lo studio dei limiti dell’intelletto umano, che lui chiamava ragione pura. Come s’è appena ricordato, la conoscenza come sintesi di elementi a priori e i dati dell’esperienza sensibile è regolata dalla critica.
«Il termine fu introdotto da Kant per designare il processo attraverso il quale la ragione intraprende la conoscenza di sé; e cioè “il tribunale che garantisca la ragione nelle sue pretese legittime ma condanni quelle che non hanno fondamento”. La critica non è pertanto “la critica dei libri e dei sistemi filosofici, ma la critica della facoltà della ragione in generale riguardo a tutte le conoscenze alle quali essa può aspirare indipendentemente dall’esperienza” (Crit. R. Pura, Pref. alla 1 ediz.). […]
La critica così intesa appariva a Kant come uno dei compiti dell’età sua […] e costituiva infatti l’aspirazione fondamentale dell’Illuminismo che, deciso com’era a sottoporre ogni cosa alla critica della ragione, non si rifiutava di sottoporre la ragione stessa alla critica, in vista di determinarne i limiti e di eliminare dal suo ambito i problemi fittizi […]. Il titolo che Kant aveva pensato di dare alla Critica della Ragion Pura, e cioè I limiti della sensibilità e della ragione […] esprime bene il significato che è rimasto attaccato alla parola “critica”»
Il vero titolo della sua opera maggiore ci suggerisce che non lo statuto della critica cercava Kant, quanto piuttosto quei limiti della ragione umana ch’egli chiamava critica, ma che avrebbe potuto intitolare diversamente.
Né molto di più si ricava dai suoi seguaci, per i quali la critica è un esame che accerta le capacità conoscitive della ragione, e non qualcosa contraddistinta da una propria struttura, chiamata poi in causa per distinguere, scegliere, giudicare e simili. Insomma, quella che cerchiamo, la definizione della critica tout court non risulta esaurientemente definita dalla filosofia.
Critica e storia
Notiamo anzitutto che con grande disinvoltura, molti autori usano il termine storia al posto di storiografia e viceversa, bollando come «scolastica» la distinzione fra res gestae e historia rerum gestarum – recentemente definita storia-realtà e storia-studio – che resta invece il principale caposaldo di ogni riflessione storica.
Per Croce, la filosofia non è altro che metodologia della storia, fino a sostenere l’identificazione dell’una con l’altra. Non condivido questa unità, semmai riconoscendo un legame della filosofia non con la storia ma con la storiografia, nell’ambito della quale è da collocare la critica che non è un fatto, ma appunto un discorso sui fatti: in più, un discorso metalinguistico se consideriamo l’oggetto d’arte, solitamente il più esaminato, come fenomeno linguistico.
Tra le componenti della storiografia – la narrazione, la filologia, la statistica, le previsioni, ecc. – la critica assume, come s’è detto, un ruolo primario perché sottopone tutto alla ragione e nei limiti delle capacità conoscitive umane. Svolgendo questa funzione, la critica elimina dal suo ambito tutto il naturalismo, il mimetismo, i preconcetti ed altro. Tuttavia, neanche la storia-storiografia esaurisce l’esame delle potenzialità della critica, tale da fornire una sua esatta e generale definizione.
La storiografia è, a sua volta così ricca di aspetti problematici, da essere non sempre chiarificatrice del concetto di critica, quanto più spesso in debito rispetto a quest’ultimo. Peraltro, la storiografia è tanto ricca di ideologia, sia pure intesa come presa di posizione, da non consentire un esame univoco, con buona pace del «tribunale della ragione».
Dobbiamo dedurre che dalla critica non possiamo pretendere l’oggettività del giudizio, salvo ad ammettere la sua dichiarata soggettività, ovvero una scelta selettiva quale caposaldo della stessa storiografia. Se, provvisoriamente, ammettiamo quella particolare critica rivolta all’arte, abbiamo conferma della soggettività della critica. Per Baudelaire, «la critica deve essere parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti» .
Restando nell’ambito del rapporto storia-critica è opportuno un cenno alla vicenda cronologico-concettuale di quest’ultima. Benché si ritenga che la critica sia nata in Grecia, «dev’esserci stata a un certo momento l’origine in cui qualcuno si è preoccupato di scrivere su quel che aveva scritto un altro.
In occidente probabilmente ciò risale ai commenti medioevali sulla Bibbia e alla riscoperta dei classici, che porterà all’esegesi biblica e all’Umanesimo, due manifestazioni di rispetto del testo, posto a livello superiore della propria lettura, quasi si trattasse di fare agiografia o mistica del testo. Infatti uno dei fenomeni più interessanti, assolutamente non metodico ma di valorizzazione del testo in quanto tale, è quello del Talmud, che nell’intreccio di parole tra Torah, Mishnah e Ghemarah (e livelli successivi) offre anche una discussione di critica interpretativa». Queste osservazioni, sia pure legate alla letteratura, contribuiscono a sostanziare la critica, assegnandole il ruolo di un denominatore comune a vari campi, ma come tale al di sopra della specificità di ciascuno.
La cronistoria della critica prosegue, come già accennato, durante l’umanesimo e il rinascimento, finché, tramite le anticipazioni di Gianbattista Vico e sempre prevalendo nel settore letterario, ha il suo pieno e proprio sviluppo col Romanticismo. A tale sviluppo contribuisce altresì l’Estetica di Baumgarten, che teorizza l’arte e con essa la critica moderna.
La critica secondo McKeon
Un notevole apporto alla individuazione della sostanza della critica si deve al filosofo americano Richard McKeon. Questi individua una struttura o sistema culturale generale all’interno del quale agiscono tre fattori atti a fornire una definizione della critica. «Le diverse concezioni della figura del critico sono illustrate storicamente in una discussione che dura fin da quando ricevette la sua prima formulazione dai filosofi e retori greci, fra artisti, critici e filosofi.
Nel corso di questa discussione, la funzione del critico fu talora limitata a compiti meno costruttivi e immaginosi di quelli dell’artista e meno teorici e intellettuali di quelli del filosofo; talora fu estesa fino a includere le funzioni esercitate da entrambi, mentre ciascuno degli interlocutori rivendicava per sé le funzioni dell’altro; e le tre figure, di volta in volta, si sono fuse o separate».
Cosicché, per questo autore, la materia delle discussioni sull’arte è formata da tre principi: in primo luogo, la determinazione del genere di cose che si convengono alla discussione è espressa nella forma di principi filosofici generali; in secondo luogo, la determinazione del modo di classificare tali cose dipende dalla definizione metodologica dei principi; in terzo luogo, la determinazione delle caratteristiche rilevanti nella valutazione delle cose stesse è espressa nei principi della critica.
Il significato e l’oggetto di ogni giudizio critico dipendono da tutte le considerazioni, per quanto autori che usano termini uguali o simili possano concordare su una o più di esse, pur differendo in altre determinazioni dei loro significati. Filiberto Menna prosegue: «In sostanza, McKeon propone qui una definizione metacritica della critica, di cui individua il funzionamento costante nell’articolazione di diversi momenti che possiamo rendere ancora più espliciti e definirli, come un momento teorico (i «principi filosofici generali»), un momento storico (la ricerca delle cause e degli effetti nonché la determinazione metodologica dei principi) e un momento critico in senso proprio, riguardante il giudizio valutativo.
Una ipotesi che non ha come oggetto di riflessione i contenuti della critica ma la sua struttura, appunto, la sua forma, non i suoi sensi pieni, storicamente variabili, ma, come direbbe Barthes, il senso vuoto che li sorregge tutti». .MacKeon precisa che il suo saggio tratta «rispettivamente degli oggetti della critica, della critica stessa, e dei termini della critica» e aggiunge che «il saggio non riguarda però direttamente la critica d’arte, ma la critica della critica».
La stessa esigenza viene affermata da Doubrovski: «Come ogni tentativo innovatore la critica odierna suscita parecchie obiezioni, presta largamente il fianco essa stessa alla critica. Una critica della critica ecco precisamente ciò di cui ci sarebbe bisogno».
Il modello McKeon viene fatto proprio e sviluppato da Menna che, sempre legato alla critica d’arte, avanza, come già accennato, una ipotesi per individuare lo statuto della critica riconducibile a tre cardini fondamentali, a tre momenti o funzioni costitutive: la funzione storica, la funzione teorica e la funzione critica in senso proprio Quanto alla prima, egli le riconosce il ruolo fondamentale in ogni atto critico; la capacità di cogliere la realtà concreta dei fatti, le loro relazioni verticali e orizzontali con il contesto in cui si manifestano e con quello più generale della cultura; il merito di collocare l’opera in una serie cronologicamente ordinata in modo da poterne cogliere lo scarto eventuale che essa rappresenta; di qui anche la necessità di una indagine sui materiali che entrano a far parte dell’opera e sulla loro origine.
Tuttavia, la funzione storica non è in grado di assolvere pienamente il suo stesso compito se non procede insieme alla funzione teorica che introduce nella serie continua e praticamente infinita dei fatti un elemento di pertinentizzazione e una ipotesi di definizione di campo, ossia dei limiti della serie di oggetti che si intende analizzare.
A sostegno della sua tesi, Menna cita ancora Starobinski: «quel che manca maggiormente non sono i fatti in se stessi, ma i principi di selezione e di coordinamento. Non tarderemo ad accorgerci che il fatto non diventa pertinente se non attraverso il suo inserimento in un certo ordine di fatti (o piano di realtà) e che quest’ordine di fatti non si risveglia e non si configura che a seguito di una questione posta.
È nella serie nella quale si coordina che un fatto diviene interessante» E Menna precisa: «il momento teorico interagisce così con il momento storico contribuendo a delimitare un sistema generale di riferimento in cui l’opera si definisce per differenze e similarità. Ma vale esattamente il ragionamento reciproco: la teoria, da sola, non è in grado di cogliere il momento puntiforme dello scarto, della novità dell’opera, se non si rapporta, a sua volta, all’indagine storica che le fornisce le indispensabili coordinate temporali».
Condivido pienamente queste considerazioni; dissento invece laddove, dopo aver chiamato in causa la componente storica e quella teorica della critica Menna ne aggiunge una terza, come già detto, ossia «la funzione della critica in senso proprio».
Per motivare quest’ultima, l’autore adduce le più sofisticate ragioni, ma è sul piano logico che il terzo momento in esame non regge. Infatti che senso ha parlare della critica in senso proprio, parte di una triade, quando l’intero saggio vuole proprio definire un tutto, lo statuto della critica? Cosicché, posto che per definire quest’ultima, occorrano almeno tre momenti, il terzo va sostituito con un altro parametro con caratteri propri ma che consenta l’interazione con gli altri due. Questo fattore è, a mio avviso, la «convenzione consolidata».
Convenzione consolidata
Si dice basata sulla convenzione ogni dottrina secondo la quale la verità di alcune proposizioni valide in uno o più campi è dovuta all’accordo comune o alla stipulazione (tacita o espressa) di coloro che si servono delle proposizioni stesse.
Nonostante riguardasse l’ambito linguistico, è il dibattito antico che contrapponeva una semanticità per convenzione (thèsei) ad una semanticità per natura (physei).Ad esso è dedicato il dialogo platonico del Cratilo, in cui l’autore ironizzando su ciascuna delle due interpretazioni lasciava di fatto aperto il problema.
Nell’età moderna il convenzionalismo è stato sempre più condiviso. Hume notava che la convenzione «deve essere intesa non come una promessa formale, ma come un sentimento dell’interesse comune, che ognuno trova nel suo cuore» aggiungendo: «così due uomini muovono le vele di una barca con comune accordo per il comune interesse, senza alcuna promessa o contratto; così l’oro e l’argento sono fatti misure dello scambio; così il discorso, le parole, la lingua sono fissati dalle convenzioni e dall’accordo umano».
Nel sostituire la «critica in senso proprio» indicata da Menna con la «convenzione consolidata», ci corre l’obbligo di definirla meglio, specificando l’interazione con la storia e la teoria. Anche la convenzione interagisce con il momento storico, con il contesto, rispetto al quale l’oggetto della critica si caratterizza per differenze e similarità; è comune esperienza del resto che «dalla storia non si esce».
Analogamente, la convenzione interagisce con il momento teorico dal quale è nata e dal quale riceve fondamento. Beninteso, non va dimenticato che la convenzione è una proprietà della critica, una sua componente, e non la critica stessa. Che sia «consolidata» si spiega col fatto che, mentre i criteri – anch’essi soggetti alla storia e alla teoria – sono variabili sia nel tempo, sia in relazione al campo in cui si applicano, la componente della convenzione, riferita allo statuto della critica, presenta una certa costanza; si pensi alla longue durée teorizzata da Braudel per la storia.
Sul concetto di convenzione, va detto che non si tratta di cosa da poco dal momento che la stessa lingua è considerata un sistema convenzionale. Torna utile al nostro discorso quanto ebbe a sostenere Cesare Brandi sul significato delle parole: «il monema, o, se si vuole essere meno esatti, la parola, non ha come significato la cosa, ma lo schema preconcettuale della cosa o al più il concetto empirico della cosa; questo schema o concetto tuttavia non è un surrogato o un simulacro della cosa, rappresenta bensì il risultato gnoseologico della cosa secondo che una determinata società – quella che parla la lingua – l’ha prelevato e sintetizzato dall’esperienza» .
In questo giudizio c’è un’indicazione preziosa: come il significato delle parole è il risultato gnoseologico che una determinata società assegna agli oggetti, così si potrebbe dire che la critica, almeno per una sua parte, quella della convenzione, è il risultato gnoseologico-estetico di tutti i criteri ad essa assegnati dalla società.
Critica e gusto
Il termine «gusto» presenta, se è possibile, più interpretazioni semantiche dello stesso termine «critica»; esso è definito giudizio, discernimento, criterio, disposizione individuale e soggettiva a percepire, a giudicare e apprezzare qualcosa; capacità di distinguere e di apprezzare ciò che è bello e conveniente, sensibilità estetica; insieme di tendenze, di scelte, di sentimenti, di miti, ecc., propri della cultura di un determinato periodo di tempo o di un determinato paese o di una cerchia o classe di persone, o di una corrente artistica o letteraria, o anche di un singolo artista, moda, voga, maniera, stile, modo con cui una cosa è fatta, aspetto col quale si presenta; abilità; capacità artistica; ecc.
Per completezza di informazione e per avvicinare il suo significato a quello funzionale alla nostra ricerca sullo statuto della critica, risaliamo al più antico uso del termine. Nell’Orator di Cicerone, il gusto è presente e posto in contrasto con il giudizio, per cui esso non opererebbe per conoscenza razionale, ma avvertirebbe al modo del senso; «ci sono cose, scrive a sua volta Quintiliano in Institutio oratoria, che si giudicano non tanto con la ragione quanto col senso; e ai sensi non si insegna: c’è una capacità di apprezzare che non si trasmette con l’arte, esattamente come nel caso del gusto e dell’olfatto».
Più tardi ai tempi di Isidoro di Siviglia si stabilirà un nesso fra «sapere e sapore». Come si vede, sin dalle sue prime apparizioni il gusto conserverà il suo doppio significato e in pari tempo la sua distanza dal sapere concettuale. La parola ricorre nel Rinascimento, sia in opere critiche e letterarie, sia presso gli artisti; essa si trova, nell’accezione di giudizio sull’arte, in Ariosto, Varchi, Michelangelo, Tasso, ecc.
L’espressione «gusto», nel significato di una speciale facoltà o atteggiamento dell’animo, sembra trovarsi per la prima volta in Spagna nel ‘600 ad opera del gesuita Baltasar Gracián. Anticipando molti altri, egli enuncia «un concetto del gusto come capacità di giudizio non riducibile a regole intellettuali, ma legata a una facoltà autonoma di orientamento, che si configura come un’abilità o un dono non ulteriormente spiegabile».
Oltre a tale significato, in Gracián ne troviamo un altro che è storico in quanto la storiografia è anche scelta, ed etico in quanto riferito al comportamento. «Tutto il sapere umano si riduce oggi alla destrezza di una saggia scelta.
Ma saper scegliere è uno dei doni più preziosi della natura, un dono che viene elargito a pochi. Perciò vediamo ogni giorno uomini dall’ingegno sottile, dal giudizio acuto, perfino studiosi ed eruditi, i quali, dovendo scegliere, si perdono e tutto questo perché manca loro il gran dono del saper scegliere: quindi non bastano né lo studio né l’ingegno là dove manca la capacità di scegliere.
Ma incapacità di scegliere significa appunto difetto di gusto: nessuno conquisterà mai credito di eccellenza in una mansione qualsiasi senza la dote di un gusto attendibile». Si conferma così che sin dall’origine si attribuisce al gusto una valenza soprattutto critica e selettiva.
Ho ragionato intorno al gusto in un precedente studio, nel quale definivo il «gusto», per i suoi legami al tempo e al luogo, «come convenzione storica nelle arti», qui ribadendo tuttavia che il gusto è riscontrabile in ogni campo del comportamento umano che implica il momento estetico e non solo quest’ultimo. Per il tema del gusto come convenzione, a sua volta indispensabile per definire la critica, è necessario smentire qualche luogo comune.
È diffusa opinione che il gusto sia un sentimento così soggettivo da non ammettere alcuna discussione; donde il popolare slogan de gustibus non est disputandum. Se così fosse non ci sarebbe manufatto, comportamento, rapporto sociale avente qualcosa in comune; di più, non ci sarebbe il linguaggio e altro modo di comunicare, segno d’intesa, accordo su un tema, tutto riducendosi a quanto detta l’istinto personale.
Viceversa, la presenza della componente del gusto è riscontrabile in ogni manifestazione sociale, dalla politica alla cultura, dall’economia al lavoro, dagli usi ai costumi; il che già vale a indicare che il gusto non è tanto materia di opzione individuale quanto piuttosto fenomeno dotato di una certa invarianza collettiva.
A che serve parlare del gusto quando ci occupiamo di cogliere lo statuto della critica? Serve non solo per le analogie che i due concetti hanno con la storia, le teorie e la convenzione, ma perché il fattore gusto ci suggerisce un’ulteriore e, a mio parere, fondamentale motivazione per definire la struttura della critica. Infatti, il gusto va inteso come criterio o canone per giudicare gli aspetti del sentimento.
«Poiché solo nel ‘700 il sentimento veniva riconosciuto come facoltà a sé, distinta dalla facoltà teoretica e dalla pratica, la nozione di gusto si è venuta determinando correlativamente nello stesso periodo come quella del criterio cui si adegua o deve adeguarsi tale facoltà nelle sue valutazioni. Alla facoltà del sentimento fu subito attribuita come attività propria quella estetica: così s’intese per gusto prevalentemente il criterio del giudizio estetico, nel qual senso la parola è rimasta nell’uso corrente.
Nel suo significato più generale, il gusto è definito da Vauvenargues come “la disposizione a giudicare rettamente gli oggetti del sentimento” (Intr. à la connassaince de l’esprit humain, 1746, 12)». Anche David Hume in alcuni dei suoi saggi morali e politici (1741) connette il gusto col sentimento in generale. La bellezza è difatti un sentimento; e poiché ogni sentimento è giusto, non riferendosi a nulla al di là di sé, ogni spirito percepisce una bellezza differente.
Questo tuttavia non impedisce che ci sia un criterio del gusto perché vi è una specie di senso comune che tende a oggettivare il gusto. Si ricava un criterio del gusto solo ricorrendo alle esperienze e alle osservazioni dei sentimenti comuni della natura umana senza pretendere che in ogni occasione i sentimenti degli uomini siano conformi a quel criterio. Il senso comune si ritrova in Kant.
Alla domanda: posto che il gusto sia un modo di sentire distinto dalla facoltà teoretica e dalla pratica, come si concilia il modo di sentire soggettivo con quello oggettivo? Kant risponde, mediante il sensus communis: «per sensus communis si deve intendere l’idea di un senso che abbiamo in comune, cioè di una facoltà di giudicare che nella sua riflessione tien conto a priori del modo di rappresentarne di tutti gli altri, per mantenere in certo modo il proprio giudizio nei limiti della ragione umana nel suo complesso, e per evitare così la facile illusione di ritenere come oggettive delle condizioni particolari e soggettive, illusione che avrebbe una influenza dannosa sul giudizio»
Inoltre il senso comune nel suo significato più esatto si può definire come «la facoltà di giudicare su ciò che rende universalmente comunicabile, senza la mediazione di un concetto, il sentimento suscitato da una data rappresentazione» Pertanto l’universalità del giudizio di gusto non è quella del giudizio intellettuale perché non si fonda sull’oggetto ma sulla possibilità della comunicazione con gli altri.
In altri termini il giudizio di gusto è universale solo perché si fonda sulla comunicabilità del sentimento
In sostanza, la problematica definizione del gusto sta in ciò che, da un lato, si vuole distinguerlo dalla facoltà teoretica e dalla pratica e, dall’altro, si vuole intenderlo non limitato a un senso del piacere soggettivo, il che darebbe ragione al vecchio adagio de gustibus non est disputandum, per renderlo criterio oggettivo di scelte e rappresentazioni; ma com’è possibile una coesistenza tanto contraddittoria?
Soprattutto come poterla spiegare? Una possibile motivazione, necessaria ma non sufficiente, è la distinzione fra l’«artistico» e l’«estetico», dove col primo termine s’indica un’esperienza che comporta un impegno di studio e di conoscenza, un «artificio», nell’accezione migliore del termine, sia da parte di chi opera, sia da parte di chi ne fruisce; col termine «estetico» s’intende invece una qualità che dà piacere indipendentemente dalla cultura e dalla preparazione; l’estetico è fenomeno naturale e pertiene ai sensi, l’artistico, invece, pertiene alla cultura.
Con David Hume l’idea di gusto assume il carattere prettamente estetico, donde l’esigenza di trovare alcune «regole del gusto», come tentò di fare il filosofo inglese. Nel famoso saggio Of the Standard of Taste del 1757, Hume non si preoccupa di definire l’idea del bello, ma di trovare i fondamenti del giudizio estetico del gusto che è alla base del piacere e del dispiacere.
Con Kant il problema di cui ci occupiamo assume un carattere diverso: non si tratta più di vedere nel gusto solo una facoltà o capacità di sentire il bello e il brutto e basare sull’immediatezza di questo atto un giudizio, ma di fare «critica del gusto cioè l’arte o la scienza che riporta a regole il rapporto reciproco dell’immaginazione e dell’intelletto nella rappresentazione data.
Riassumendo sul termine di gusto, esso nasce come fenomeno soggettivo salvo a modificarsi nel tempo come ogni altro fatto storico, acquistando una certa oggettività, quella cioè che denota le caratteristiche del contesto socio-culturale di una comunità.
Se questo è vero il naturale istinto dell’inizio si trasforma in una convenzione, allo stesso modo di come si forma una lingua, che consente l’espressione individuale condizionata al tempo stesso da una codificazione, certo non meccanica, ma propria di una innere Sprachform, per dirla con Humboldt, che intende la lingua come una forma interna, espressione della visione del mondo del popolo che parla quella lingua.
Possiamo quindi sostenere che il gusto è una convenzione, rispetto alla quale consentiamo o dissentiamo, ma che comunque si evolve, s’impara, si corregge; è soggetto ad influenze, ad alterne fortune come tutti i fenomeni storici; che soprattutto, problematico com’è, risulta materia altamente discutibile.
Non ancora sufficienti sono i legami tra critica e gusto in ordine alla storicità. «Il gusto è sempre storico, e varia col variare dei tempi, perché nel tempo variano le forme di civiltà e di spiritualità: l’esercizio del gusto segue quelle segrete affinità elettive, quelle nascoste parentele, quelle istintive congenialità che venano, anzi regolano tutta la vita spirituale, e collegano fra loro, in modo che appare sempre sorprendente e meraviglioso, le opere di diversi campi, o artistico o filosofico o pratico o religioso o politico, ma d’una stessa epoca, con vincoli occulti, ma non per questo meno reali» .
Da quanto precede risulta che intorno alla critica e ai relativi criteri esiste una interpretazione semantico-concettuale varia e molteplice che giustifica il prevalente orientamento verso il campo dell’arte, a sua volta altrettanto problematico; è certo comunque che non tutta la critica possa risolversi in critica d’arte, specie in ordine all’arte contemporanea, insofferente ad ogni definizione e giudizio.
Quanto alla crisi attuale della critica e del gusto, ritengo che essa stia, sia pure in parte, nella sua origine concettuale, in quell’assunto, condiviso dagli autori maggiori, per cui il gusto sarebbe la facoltà di giudicare ciò che rende comunicabile il nostro sentimento rispetto a una data rappresentazione, senza la mediazione di un concetto.
Peraltro l’idea che il sentimento possa agire solo per se stesso senza l’apporto della ragione è per me incomprensibile quando la semplice percezione è già una presa di coscienza di una sensazione.
Nonostante il ricorso al senso comune che contribuisce a rendere più oggettivo un piacere che si ritiene soggettivo, la separazione tra sentimento e concetto è inaccettabile.
Lo è altresì il principio per cui la qualità che dà piacere non sta nell’oggetto della contemplazione quanto in quella che noi gli attribuiamo, vanificando così tutta la cultura dell’empatia. Non è casuale che, muovendo da questi illogici principi, nessuno, a mio giudizio, ha individuato un’utile e funzionale regola del gusto.
Forma e funzione della critica
Lo scarso interesse per lo statuto della critica da parte dei critici militanti non deriva forse dalla confusione tra la funzione critica – distinguere, scegliere, giudicare – e la sua «sostanza»? Poiché in qualunque settore si richiede sempre la stessa funzione critica, è possibile pensare che esista un denominatore comune funzionale che tuttavia non può prescindere da un denominatore comune «formale», poiché non si dà funzione senza forma.
Donde la possibilità che la critica, intesa in generale, – oltre ad essere una struttura unitaria, un denominatore comune a tutti i campi, oltre ad avere componenti storiche, teoriche, linee della ragione, del sentimento, del senso comune, della convenzione, ecc. – vada colta nel binomio forma/funzione.
La forma della critica è una sintesi dei modelli storici, filosofici, tipico-ideali, ecc. tale da formare una saldatura tra le idee sviluppatesi in ogni contesto socio-culturale; detta sintesi si integra con la definizione kantiana di critica, che comporta I limiti della sensibilità e della ragione; la forma della critica risulta quindi da una struttura invariante nei limiti del possibile.
Dal canto suo la funzione della critica resta quella nata dall’etimo greco citato κρὶνω: distinguere, scegliere, giudicare; in essa risultano variabili quelli che abbiamo definito gli «elementi costruttivi della critica», ossia i criteri, che, come già detto, sono mutevoli non solo storicamente ma anche in ordine ai campi cui si applica la critica.
Il dualismo forma/funzione nulla toglie alla nostra esigenza di pensare alla critica come «qualcosa in sé»; non sono infatti rari altri concetti che conservano la loro unità pur fondata su un binomio; valga per tutti il concetto di segno linguistico che si compone di significato e significante.
Nel nodo formato dalla forma, dalla funzione e dai criteri, quest’ultimi non sono leggi, fisse ed immutabili nel tempo, somigliando piuttosto alle norme, delle quali, per dirla con Mukarovsky è sempre pensabile la modificazione.
Tuttavia, pur ammettendo quest’ultima, i criteri non possono definirsi tout court delle norme (queste restando sempre nell’ordine pratico), in quanto appartengono a un livello concettuale superiore, alla dialettica propria di forma e funzione della critica. Parafrasando una citazione iniziale, sia la critica che i criteri devono conoscere i propri postulati per rivendicare le proprie certezze.
tratto dal numero 145