Architettura e decostruzione

LIVIO SACCHI
Nell’estate del 1988 Philip Johnson e Mark Wigley allestiscono una piccola mostra al Museum of Modern Art di New York intitolata «Deconstructivism». Viene messo a confronto il lavoro di sette architetti: Frank Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenrnan, Zaha Hadid, Coop Himmelblau e Bernard Tschumi.

Si tratta in realtà di non molto di più della curiosa intersezione di esperienze diverse, tutte però fortemente legate ad un comune referente linguistico, il Costruttivismo russo, all’idea di dislocazione, deviazione, distorsione, alla tensione verso l’inesplorato potenziale della modernità.
A quasi sessant’anni di distanza dalla storica «Modern Architecture» del ’32, curata dallo stesso Johnson assieme a Henry-Russell Hitchcock e ad Alfred Barr – che celebrava gli eroi degli anni venti, Mies, Le Corbusier, Gropius, Oud – il Decostruttivismo non si pone come un nuovo stile. Piuttosto è la confluenza del lavoro di alcuni importanti architetti che dal 1980 ad oggi hanno adottato approcci simili che hanno avuto come risultato forme molto simili.
Ma già qualche mese prima la Tate Gallery, assieme all’Academy Group, aveva organizzato il primo «International Symposium on Deconstruction», con una parte dedicata all’architettura ed una che ne copriva le questioni più strettamente filosofiche, oltre a quelle connesse alle arti visive. Con i contributi del convegno è nato un numero speciale di «Architectural Design» intitolato Deconstruction in Architecture e curato da Charles Jencks, che raccoglie progetti di Tschumi, Hadid, Coop Himmelblau, Zenghelis, OMA, Gehry e Morphosis, oltre che di Ambasz e di SITE.
Osserviamo tra parentesi che di decostruzione si è cominciato a parlare anche in riferimento alle arti visive, specialmente a proposito di una serie di artisti che, più o meno consapevolmente, si collocano all’interno di tale linea. Fra i decostruttivisti neomoderni spiccano Julian Schnabel, Sigmar Polke, David Salle, Malcolm Morley, Georg Baselitz, Philip Guston, lo stesso Anseim Kiefer; fra i decostruttivisti minimalisti Valerio Adami, Arakawa e Daniel Buren;
fra i decostruttivisti neo-geo o neo-dada i newyorkesi della recente mostra alla Saatchi Collection, gli ambigui Jeff Koons, Ashley Bickerton, Allan McCollum, Star Twins, ecc.
L’attenzione del dibattito architettonico si è così rapidamente spostata sul decostruttivismo. Al di là, come abbiamo detto, del diffuso interesse per il Costruttivismo russo, della riscoperta di personaggi quali Leonidov, Suetin, Rodchenko, El Lissitzky, Chernikov, Burov, Malevic, Tatlin, Krinskii, i fratelli Vesnin; al di là del non unanime richiamo alla decostruzione, così come è stata codificata da Derrida; al di là del discusso legame con la modernità (la nozione di Decostruzione di Derrida trascende categorie come il Moderno, non è una garanzia contro lo storicismo, è astorica, potrebbe essere moderna, potrebbe anche non esserlo); va detto che l’architettura del decostruttivismo costituisce il fatto nuovo in un momento in cui s’andava riproponendo un dibattito ormai stagnante.
Negli USA è stato in realtà codificato e rilanciato sul piano internazionale quanto in Europa era nell’aria da anni, e non solo all’interno della cultura filosofica, ma anche e specificamente in ambito architettonico, si pensi al trasgressivo lavoro portato avanti negli ultimi dieci anni nei circoli legati alla londinese Architectural Association di Alvin Boyarsky e a personaggi quali i già citati Bernard Tschumi, Rem Koolhaas, Elias Zenghelis, Zaha Hadid.
Per alcuni il decostruttivismo sembra cercare «identità» nel lavoro di architetti apparentemente interessati alla celebrazione delle «differenze». Si tratterebbe quindi di elaborazioni formali sul corpo stesso del modernismo, in particolare su quel momento fondativo di esso che si identifica con le avanguardie russe degli anni ’20.
Per altri esso è invece legato alla decostruzione di Derrida e a quel filone della filosofia critica post-strutturalista definita dalla iterata e ciclica sensazione di crisi propria degli esiti post-nietzscheani. La decostruzione in termini retorici del passato ne espone le contraddizioni, ne lacera la struttura senza cercare mediazioni, conciliazioni dialettiche.
La nozione di decostruzione è di origine heideggeriana: il concetto stesso di Destruktion come momento conclusivo della riduzione e della costituzione fenomenologica è indagato in Essere e tempo. Se il problema dell’essere stesso deve venire in chiaro quanto alla propria storia autentica, è necessario che una tradizione consolidata sia resa nuovamente fluida e che i veli da essa accumulati siano rimossi.
Questo compito è da noi inteso come la «distruzione» del contenuto tradizionale dell’ontologia antica, distruzione da compiersi sotto la guida «del problema dell’essere», fino a risalire alle esperienze originarie in cui furono raggiunte quelle prime determinazioni dell’essere che fecero successivamente da guida. (…)
L’aspetto di negazione della distinzione non concerne il passato; la sua critica è diretta contro l’“oggi” e il modo predominante di condurre la storia dell’ontologia, sia essa impostata dossograficamente o come storia dello spirito o come storia dei problemi. La distruzione non si propone di seppellire il passato nel nulla, ma ha un intento «positivo»; la sua funzione negativa resta inesplicita e indiretta.
La fenomenologia ermeneutica è qui già decostruzione dell’ontologia. Lo stesso Heidegger, nel medesimo anno – siamo nel 1927 – riporta esplicitamente: La costruzione filosofica è necessariamente distruzione, cioè decostruzione, compiuta attraverso un ritorno storico alla tradizione, di ciò che è trasmesso.
Ora mentre in Europa il dibattito sulla decostruzione si svilupperà esclusivamente in ambito filosofico, negli Stati Uniti esso tende a spostarsi in ambito letterario, attraverso un fenomeno che è stato definito di livellamento della differenza tra letteratura, filosofia e critica letteraria.
Sulle ragioni di ciò sono state date alcune convincenti spiegazioni; basti qui ricordare che la mediazione letteraria ha consentito un’enorme e rapida diffusione degli studi decostruttivi in campi diversi, dalla psicoanalisi al femminismo, alla giurisprudenza. Il merito va ascritto principalmente ai cosiddetti «Yale Critics», Paul de Man, Geoffrey Hartman, Harold Bloom e altri, un gruppo che ha lavorato a stretto contatto con Derrida e che è oggi sostanzialmente disperso dopo la scomparsa di Paul de Man.
La centralità di Jacques Derrida in America è assoluta: insospettata dagli europei e dagli stessi francesi. Lo testimonia Tom Wolfe in un’intervista alla rivista «Apostrophes», in cui si meraviglia di quanto poco sia conosciuto Derrida in Francia e di quanto sia invece idolatrato negli USA.
Riportiamo in proposito anche la curiosa testimonianza di Frank Lentricchia, un attento storico della scena critica statunitense: Un giorno dei primi anni Settanta ci siamo svegliati dal sopore dogmatico del nostro sonno fenomenologico per scoprire che una nuova presenza si era impadronita in modo assoluto dell’immaginazione critica della nostra avanguardia: Jasques Derrida.
In modo alquanto sorprendente abbiamo appreso che, nonostante un certo numero di indicazioni imprecise facesse pensare il contrario, egli non era un fautore dello strutturalismo ma di qualcosa che potrebbe essere chiamato “poststrutturalismo”.
Il cambiamento di rotta verso un orientamento e una discussione poststrutturalista, verificatosi nelle carriere intellettuali di Paul de Man, J. Hillis Miller, Geoffrey Hartman, Edward Said e Joseph Riddel – tutti affascinati negli anni Sessanta dall’eredità della fenomenologia – racconta la storia per intero .
Derrida è il primo ad usare il termine «decostruzione» Egli stesso riporta: Quando ho scelto quella parola, o quando mi si è imposta, mi pare che fosse in «De la grammatologie», non pensavo che avrebbe assunto un ruolo tanto centrale nel discorso che allora mi interessava.
Cercavo, tra l’altro, di tradurre e adattare ai miei scopi il termine heideggeriano «Destruktion» o «Abbau». In quel contesto, significavano entrambi una operazione vertente sulla «struttura» o sulla «architettura» tradizionale dei concetti istitutori della ontologia, o della metafisica occidentale.
Ma in francese ‘distruzione’ implicava in modo troppo palese una riduzione negativa, forse più vicina alla “demolizione” nietzscheana che non alla interpretazione heideggeriana o al tipo di lettura che proponevo io. Perciò l’ho scartata. Ricordo di aver controllato se la parola “decostruzione” (che mi veniva in modo apparentemente molto spontaneo) fosse proprio francese. L’ho trovata nel «Littré».
L’uso grammaticale, quello linguistico e quello retorico si associavano a un uso “macchinico”. Questa associazione mi sembrò felicissima, molto adatta a ciò che tentavo di suggerire. Mi permetta di citare qualche passo del «Littré». “Decostruzione”. L’atto del decostruire. Termine grammaticale. Scomporre il costrutto delle parole in una frase.
‘Della decostruzione, volgarmente detta costruzione, Lemere, «De la manière d’apprendre les langues», cap. 17, nel «Corso di lingua latina. Decostruzione», 1. Smontare le parti di un tutto. Decostruire una macchina per portarla altrove. 2. Termine grammaticale (…) Decostruire dei versi, renderli, con la soppressione del metro, simili alla prosa. Ass. Nel metodo dell’insegnamento per frasi fatte, si comincia anche con la traduzione, che fra i suoi vantaggi ha anche quello di non richiedere la decostruzione, Lemere, ibid., 3. Decostruirsi, (…) perdere la propria costruzione.
E, più oltre, A quei tempi lo “strutturalismo” era dominante. “Decostruzione” sembrava andare in quel senso perché indicava una certa attenzione alle “strutture” (che a loro volta non sono semplicemente idee, o forme, o sintesi, o sistemi).
Decostruzione era anche un atteggiamento strutturalista, o comunque un atteggiamento che faceva propria una certa necessità della pratica strutturalista. Ma era anche un atteggiamento antistrutturalista – e la sua fortuna dipende in parte da quell’equivoco.
L’attività strutturalista è stata spesso utilizzata in architettura, lo stesso termine «struttura» è di derivazione architettonica. De Fusco parla di «smontaggio» dell’oggetto architettonico, di una pratica tesa ad analizzare il significato delle parti che concorrono alla formazione del tutto; scomporre quest’ultimo per meglio descriverlo, ordinario, trovarne le regole di combinazione e di trasformazione, ecc.
Lo stesso Barthes si era d’altra parte già chiaramente espresso in proposito: Lo scopo di ogni attività strutturalista, riflessiva o poetica che sia, è di ricostruire un “oggetto”, in modo da manifestare in questa ricostruzione le regole di funzionamento (le “funzioni”) di quest’oggetto. La struttura è dunque in realtà un “simulacro” dell’oggetto, ma un simulacro orientato, interessato, poiché l’oggetto imitato fa apparire qualcosa che restava invisibile, o, se si preferisce, inintelligibile nell’oggetto naturale.
L’uomo strutturale prende il reale, lo scompone, poi lo ricompone; è ben poco, in apparenza (e c’è chi sostiene che il lavoro strutturalista è “insignificante, privo d’interesse, inutile, ecc.”).
Pure, da un altro punto di vista, questo poco è decisivo, perché tra I due oggetti, o i due tempi dell’attività strutturalista, si produce “del nuovo”, e questo nuovo è niente meno che l’intelligibile generale: il simulacro è l’intelletto aggiunto all’oggetto, e questa addizione ha un valore antropologico, in quanto è tutto l’uomo, la sua storia, la sua situazione, la sua libertà e la resistenza opposta alla sua mente dalla natura.
L’approccio di Derrida tende dunque alla de-costruzione della struttura dell’intero pensiero occidentale, rifacendosi alla metafisica heideggeriana in maniera discutibile e ambigua. Si differenzia quindi dalla lezione di Gadamer e del «pensiero debole» che non avevano smesso gli abiti razionalisti per le loro spiegazioni parziali, pur abbandonando ogni fede nei grandi sistemi unitari.
E si contrappone alle note tesi di Habermas, segnate da totale scetticismo nei confronti di ogni forma di sperimentazione decostruttiva: quando il contenitore di una sfera culturale autonomamente sviluppata viene frantumato, anche il contenuto si disperde. Niente resta di un significato desublimato o di una forma distrutta; non segue alcun effetto emancipatore.
La liquidazione habermasiana ripropone in sostanza il nesso ragione-emancipazione: Habermas rivendica la necessità di tracciare una linea di demarcazione tra una corrente della filosofia radicale che resti più fedele al progetto filosofico del moderno, rappresentata da Adorno, che “rimane, nel suo disperato perseverare, fedele all’idea che contro le ferite dell’Illuminismo non c’è alcun rimedio, tranne lo stesso Illuminismo radicalizzato”; e la posizione di Foucault, di Derrida, e in genere di tutto il post-strutturalismo, in cui prevalgono istanze che secondo Habermas sono eterogenee rispetto al più genuino progetto illuministico, quali il ricorso alla volontà di potenza (Foucault: all’orizzonte, Nietzsche) o la demonizzazione irrazionalistica della razionalità dei lumi (Derrida: all’orizzonte, Heidegger).
Habermas individua in Jacques Derrida i segni di un anti-modernismo che risale sino a George Bataille, attraverso la mediazione di Michel Foucault: è la linea dei «giovani conservatori».
Per molti versi insomma il moderno come progetto incompiuto, che è la linea al tempo stesso nostalgica e pragmatica difesa da Habermas, si connota proprio come ricostruzione del moderno in opposizione alla decostruzione di esso proposta dal post-strutturalismo francese e dal pensiero debole italiano.
Osserviamo tra parentesi che mentre, almeno sinora, il decostruttivismo architettonico sembra prevalentemente riprendere stilemi ereditati dalla modernità in palese opposizione con quanto è andato facendo il post-modernismo architettonico, dal punto di vista dei riferimenti filosofici si colloca comunque all’interno del pensiero post-moderno: la decostruzione del moderno può anzi essere un altro nome possibile per il post-moderno.
Interessanti sono in particolare i tentativi di Derrida di esplorare una sintesi tra architettura e pensiero, una sintesi che si colloca naturalmente al di là degli esiti più convenzionali e lascia intravedere la proposizione di un vero e proprio «pensiero architettonico». I rapporti tra architettura e filosofia sono ricchi di esempi illustri. Lo stesso Derrida ricorda come la tradizione filosofica si sia servita del modello «architetturale» come metafora del pensiero.
In Descartes si trova per esempio, la metafora della fondazione della città, e questa fondazione è propriamente ciò che deve sostenere l’edificio, la costruzione architettonica, la città… Quando Aristotele desidera portare un esempio per teoria e pratica prende l’«architekton»: colui che conosce la causa delle cose, un teorico che può anche insegnare e agli ordini del quale stanno i manovali, incapaci di pensare autonomamente.
E così si istituisce una gerarchia politica: l’architettura viene definita come arte dei sistemi, come arte, perciò, idonea a organizzare razionalmente interi settori del sapere.
La de-costruzione di Jacques Derrida interroga e mette in crisi le opposizioni concettuali date per scontate dalla storia filosofica, un bagaglio che tende a rivelarsi limitativo per lo sviluppo stesso del pensiero. Ora però il concetto stesso della decostruzione è assimilabile a una metafora architettonica. Sovente le viene attribuito un atteggiamento negativo. C’è qualcosa che è costruito, un sistema filosofico, una tradizione, una cultura; poi arriva un de-costruttore e demolisce la costruzione pietra per pietra, analizza la struttura e la disfa.
Questo corrisponde abbastanza spesso al vero. Si osserva un sistema platonico/hegeliano, si analizza come è costruito, quale chiave di volta, quale angolo visuale sostiene l’edificio; poi si sposta la chiave di volta e l’angolo visuale e ci si libera in tal modo dell’autorità del sistema.
Mi sembra però che questo non sia ciò che costituisce la de-costruzione. Essa non è semplicemente la tecnica di un architetto che sa de-costruire ciò che è costruito, ma una interrogazione che tocca la tecnica stessa, l’autorità della metafora architettonica e di lì costituisce la sua personale retorica architettonica.
La de-costruzione non è solo – come il suo nome sembra significare – la tecnica della costruzione alla rovescia, se essa sa pensare l’idea stessa della costruzione. Si potrebbe dire che non c’è nulla di più architettonico della decostruzione, ma anche nulla di meno architettonico. Un pensiero architettonico può essere de-costruttivo solo in questo senso: come tentativo di pensare ciò che stabilisce l’autorità della concatenazione architettonica nella filosofia.
Derrida si muove, come si vede, all’interno della generale temperie post-moderna: e post-moderno è per lui la constatazione, o l’esperienza, della fine del piano di dominazione della modernità. La decostruzione, anche in architettura, sembra così diventare un modo per approfondire l’esperienza postistorica della condizione contemporanea.
L’uso della dislocazione, il risolversi delle «differenze» in «identità» proprio attraverso la loro moltiplicazione, provocano disorientamento e confusione. E’ stato Vattimo a rilevare che la società tardomoderna funziona come mondo dell’omologazione proprio lasciando apparire le differenze, delle quali si nutre non solo o principalmente eliminandole e dissolvendole; conferisce loro, piuttosto, un’esistenza “debole”, potremmo dire, ornamentale.
È nell’epoca della fine della storia come processo lineare, gerachico, teleologico, che diventa possibile l’anamnesi come ricupero delle differenze, ritorno di ciò che era stato escluso, libera ripresa di modelli monumentali del passato senza giustificazione storicistico-metafisica.
Derrida si è a lungo ed esplicitamente occupato di archilettura: di qui la sua odierna popolarità fra critici e progettisti. In Psiché, uno dei suoi libri più noti, ritroviamo tre testi riguardanti rispettivamente Bernard Tschumi, Peter Eisenman e i rapporti fra architettura e filosofia. Con Eisenman, in particolare, Derrida ha collaborato al «Choral Work», un giardino facente parte del Parc de la Villette dello stesso Tschumi.
Eisenman da parte sua lavora da anni sulla decostruzione. Un’analisi dettagliata di quella che all’epoca veniva chiamata «decomposizione» si trova in un saggio dell’82, House X Del 1984 è il testo The Futility of the Objects: Decomposition and the Processes of Difference: un tentativo dl tracciare alcuni aspetti di questo negativo della composizione classica, per mezzo della decostruzione di una serie di edifici che sono usati come approssimazioni euristiche ditale sensibilità – come inizi più che come finì, quali essi sono in realtà.
Questi rivelano, e simultaneamente suggeriscono, un processo alternativo del fare chiamato decomposizione. E ancora: La “decomposizione”, come termine, può essere solo un’approssimazione euristica di ciò che veramente si intende.
Nel primo caso deve essere distinta dall’uso letterale del termine nel senso dl qualcosa che realmente decompone. Secondo, la decomposizione è Intesa suggerire l’antitetico dl composizione nel senso in cui è citata sopra. Cioè, è qualcosa dl latente o immanente nel processo di composizione (perciò «non» è composizione).
Il progetto per la Villette si colloca, come abbiamo detto, all’interno dell’ormai celebre «Parco del XXI secolo» di Bernard Tschumi. Tschumi rivendica la paternità del primo lavoro decostruttivista: i Manhattan Transcripts . Già nel ’76, con il «Giardino di Joyce», aveva adottato un testo letterario come programma architettonico ed aveva adoperato la griglia per punti come strumento di mediazione fra due testi eterogenei sovrapposti.
La Villette è oggi il più grande edificio discontinuo del mondo, il primo lavoro costruito che esplora specificamente I concetti di sovrapposizione e dissociazione. Parco di «folies », qualcosa a metà fra la nozione britannica di «folly» architettonica e quella di «follia» – il riferimento, esplicito, è a Foucault e alla sua Histoire de la Folie – una volta completato ne conterrà più di trenta, collegate da una « passeggiata cinematica».
Se i richiami riportano a Klee e Kandinsky, a Chernikhov, a Cedric Price, ad Archigram, ad OMA e al gruppo NATO, i singoli pezzi sono stati in realtà affidati ad una serie di eterogenei personaggi che include John Hejduk, Dan Flavin, Jean Nouvel, Gaetano Pesce, Daniel Buren con Jean-François Lyotard, gli stessi Eisenman e Derrida. Il risultato – a complesso ultimato – potrebbe essere una delle più strane agglomerazioni architettonico-artistiche del nostro tempo: una sorta di Avant-Garde-Disneyworld.
A proposito del «Choral Work» Eisenman spiega: L’idea dello scavo si trasforma in una nozione molto interessante. E ciò che stiamo usando alla VIIlette. Due temi: la cava e il palinsesto… Ora tu prendi le pietre e costruisci un progetto.
Qualcun altro prenderà le pietre dal nostro progetto e costruirà qualcos’altro… Iniziamo dal palinsesto che deriva dalla sovrapposizione di due cose (Cannaregio e Tschumi?) che poi viene scavato e tu sottrai dal palinsesto lasciando la traccia della precedente sovrapposizione, ma anche lasciando la traccia della sottrazione, in altri termini stiamo parlando del «chora».
La combinazione della sovrapposizione del palinsesto e della cava ti dà il «chora» che è il programma stabilito da Derrida per il progetto della Villette. Succedono cose da pazzi alla Villette.
Il dibattito italiano sul decostruttivismo in architettura sembra diviso fra un atteggiamento di superficiale quanto entusiastico accoglimento di esso, spesso strumentalizzato come possibile risposta all’ormai consumata proposizione del classicismo post-moderno – è la posizione di Zevi -, ed un atteggiamento di supponente superiorità, tendente ad ignorarne i contributi, quasi che lo spessore culturale del nostro paese ci rendesse immuni dai contagi delle mode.
Con maggiore consapevolezza sembrano invece aver reagito gli ambienti filosofici, interessati a comprendere e a non autoescludersi da quanto in sostanza sta monopolizzando l’attenzione mondiale.
La cultura architettonica italiana sembra oggi piuttosto sopravvivere sulle rendite delle feconde ricerche linguistiche degli anni settanta. Con il risultato di occupare oggi un posto nella scena internazionale ben più marginale di quello che aveva dieci o venti anni fa.
Pure i germi del linguaggio architettonico decostruttivista sembrano in parte rifarsi proprio al bagaglio segnico del razionalismo italiano, nelle sue varie fasi: codice-stile semplice e quindi facilmente manipolabile, sul quale pesa fra l’altro il confronto, inevitabile, con la tradizione classica. Non estranee a queste ricerche appaiono – non a caso – alcuni progetti di Franco Purini, pensiamo segnatamente al padiglione in cemento e vetro del ’76, all’ampliamento della casa P. a Terni, alla stessa difficile soluzione proposta per il Padiglione Italia all’ultima Biennale d’Architettura di Venezia.
E d’altra parte il dichiarato interesse di alcuni protagonisti stranieri per tale periodo della nostra storia contribuisce a spiegare non poche fra le loro più recenti e trasgressive scelte progettuali.
Il decostruttivismo resta comunque il fatto nuovo nella vicenda architettonica contemporanea.
Sbaglierebbe chi ne sottostimasse la portata e l’influenza, ritenendolo una sorta di sottoprodotto in ritardo di certo design radical di qualche anno fa. Riteniamo però che si tratti anche di una strada pericolosa. Il rischio maggiore sta proprio nella rapidissima e acritica diffusione della nuova moda progettuale.
Un consumo linguistico disattento e superficiale potrebbe vanificare in breve tempo i contenuti della ricerca decostruttivista e costringerla in una condizione micrologica, a somiglianza di quanto è avvenuto con la vicenda architettonica postmoderna, i cui stilemi e le cui invenzioni formali sono state ridotti in pochi anni a «canzone da organetto».
tratto dal numero 40