Design: dall'ingegnere all'edonista

GIOVANNI CUTOLO
L’obiettivo di una fabbrica è quello di produrre al meglio delle proprie possibilità, utilizzando le risorse tecniche e umane disponibili in maniera ottimale. Il risultato di questo impegno è il «prodotto», così come esso arriva nei magazzini dell’azienda.

La qualità di questo prodotto può essere espressa da un giudizio che si fonda sul processo di produzione, sicché si definisce di qualità quel prodotto che vede utilizzate al meglio le risorse tecniche e umane ed i materiali impiegati; oppure da un giudizio comparativo che giudica il prodotto dato in rapporto a tutti gli altri prodotti simili che sono reperibili sul mercato.
Insomma si può ritenere di qualità un prodotto perché rappresenta il miglior risultato possibile utilizzando quei dati materiali e quelle date macchine; oppure si dice che il tal prodotto è di buona qualità perché migliore degli altri esistenti sul mercato anche se esso non rappresenta ciò che di meglio si potrebbe produrre nella fabbrica da cui esso proviene. evidente quindi che il giudizio di qualità è influenzato da fatti interni ed esterni al processo produttivo vero e proprio.
Concorrono a definire il giudizio circa la qualità di un prodotto sia considerazioni di cultura industriale che altre di mercato o, potremmo dire, di cultura commerciale. Esiste pertanto una qualità industriale ma anche una qualità commerciale. La loro combinazione determina il successo di un prodotto, la sua durata, arrivando talvolta a modificare le caratteristiche del mercato.
Che è mercato di prodotti ma anche mercato di rapporti (mercato merci + persone). Il successo, ma soprattutto la durata del successo, sono influenzati tanto dalla qualità del prodotto quanto dalla qualità del rapporto che accompagna il prodotto dal magazzino della fabbrica, attraverso il mercato, sino alla sua destinazione finale d’uso, presso il suo consumatore finale.
È un fatto che la qualità produttiva tende oramai, almeno nei paesi più progrediti, a venir considerata un qualcosa di scontato. Si dà per implicito che, per esempio, il prodotto orologio segni il tempo e dia l’ora esatta.
Il giudizio sulla qualità ditale orologio, quel giudizio che il consumatore esprime muovendosi
e cercando all’interno del mercato che lo circonda, non è oramai più soprattutto rivolto a verificare la qualità produttiva.
Come racconta nelle sue brillanti conferenze il sociologo Domenico De Masi, i nostri nonni, al momento di acquistare un orologio, si preoccupavano soprattutto di assicurarsi della sua precisione. Produrre un orologio preciso non era facile e pertanto l’orologio più preciso era anche quello più caro. Oggi invece si stima che anche gli orologi più a buon mercato siano oltre cento volte più precisi di quanto l’acquirente medio necessiti o si attenda. Ed allora la motivazione all’acquisto non nasce più da una scelta che giudica la qualità sostanziale (la precisione) ma piuttosto la qualità formale ed estetica (il design) e la qualità distributiva (il marketing) o di immagine (la firma).
Durante un lungo periodo storico, che va dalla nascita in Inghilterra delle prime manifatture di tessili e di ceramiche (J. Wedgwood fondò nel 1769 la « Etruria », manifattura modello di poteries) sino ai nostri giorni, è avvenuta una profonda trasformazione economica, sociale e politica.
L’aspetto che ci preme evidenziare di questo grandioso cambiamento storico, è quello insito nella dilatazione semantica della parola «mercato».
Nella città medievale e fino alla fine del ‘700 il mercato era un luogo ben preciso, una piazza, una loggia, una corte dove i mercanti esponevano ai loro potenziali acquirenti i loro prodotti secondo un calendario consueto e conosciuto.
Questa consuetudine permane ed in molte nostre città si incontrano luoghi e architetture che si chiamano appunto «Loggia dei Mercanti» o «Piazza del Mercato» anche quando oramai la loro destinazione d’uso, all’interno del contesto urbano, è divenuta tutt’altra. Oggi, la parola «mercato» è usata come sinonimo di «nazione» o «paese».
E sì, ancora chiamato mercato (o, più propriamente, mercatino) quello rionale, che si tiene settimanalmente su uno spiazzo, che negli altri giorni è magari adibito a parcheggio delle autovetture, ma è divenuto frattanto di uso comune discutere di scambi e di merci facendo riferimento al «mercato» italiano o europeo o americano o cinese, perché la grande trasformazione iniziata alla fine del 1700 con la Rivoluzione industriale ha oramai raggiunto, tra i tanti risultati, quello di far coincidere il mercato con la totalità di un paese o di una nazione o di un continente.
L’Italia, l’Europa, l’America, la Cina, sono divenuti mercati in virtù della diffusione della produzione industriale e della conseguente esplosione degli scambi commerciali e quindi dei consumi. Se le idee fonte con la Rivoluzione Francese hanno ridisegnato politicamente il mondo geografico suddividendolo in nazioni, le idee che hanno animato la nascita e lo sviluppo della Rivoluzione industriale hanno determinato una nuova ripartizione delle tradizionali unità geografiche, storiche e politiche in unità omogenee in quanto identificano un mercato.
Alle preesistenti omogeneità geografiche ereditate da milioni di anni di movimenti di terra e di acqua; alle susseguenti omogeneità e affinità costruite da secoli di storia di guerre e di paci, di incontri e di scontri, di invasioni e di emigrazioni di interi popoli; alle ultime definizioni che, spesso in barba alla geografia (si pensi alle Antille francesi) o alla storia (si pensi alla separazione delle due Coree o delle due Germanie), hanno ripartito politicamente il globo in nazioni; ecco infine sostituirsi una ultima ripartizione in «mercati» che, scavalcando e mischiando fra loro le carte precedenti, ha creato le premesse e le omogeneità per sviluppi futuri tanto profondi quanto quelli determinati in passato dalle differenze geografiche, storiche e politiche.
L’artefice primo di questa trasformazione è stato il prodotto industriale. a lui che si deve l’evoluzione del mondo da entità geografica a «mercato», sopravanzando le più consuete partizioni etniche e storiche e ponendo le premesse per i futuri scenari politici.
Dall’inizio della Rivoluzione industriale, sino alla Prima Guerra Mondiale, per più di un secolo, il problema fondamentale è stato quello di produrre in maniera sempre più automatica e sempre più organizzata.
Produrre industrialmente ha significato, fra le altre cose, riuscire a rendere sempre meno dipendente la quantità di prodotti dal numero degli addetti alla produzione. Nella prima fase della Rivoluzione industriale nasce la Manifattura come luogo dove concentrare ed organizzare il lavoro di trasformazione delle materie prime in prodotti finiti.
L’unione di funzioni e di operazioni fino ad allora fatte in posti diversi e lontani fra di loro, crea le premesse per i primi aumenti di produttività ottenuti attraverso la divisione del lavoro.
Successivamente l’arrivo delle macchine fa evolvere la produzione sostituendo ai gesti manuali quelli automatici e trasformando così l’antica Manifattura nella moderna Fabbrica.
La Fabbrica divenne allora il tempio all’interno del quale prese forma la moderna liturgia del produrre, alla cui definizione ed al cui perfezionamento diedero il loro contributo determinante più generazioni di tecnici e di ingegneri.
L’ingegnere divenne il Gran Sacerdote di questo luogo di nuova socialità, di questo Tempio del produrre; fu l’ingegnere l’artefice primo e il protagonista della messa a punto della pratica e della teoria della produzione industriale.
Fu l’ingegnere il guerriero-sacerdote della nuova religione fondata sul rapido accumulo di plusvalore in Capitale, che avrebbe poi conosciuto in tempi molto accelerati i suoi scismi, le sue riforme e controriforme promosse da barbuti economisti (Gran Sacerdote-Ingegnere-Tipo: Michael von Dolivo – Dobrowoiski della AEG).
Ma dopo aver imparato a produrre, dove, come, in quali tempi, con quali strumenti, si pose con crescente importanza il problema di farlo a costi sempre più bassi. Divenne prioritario ed urgente dotarsi di fonti di energia a buon mercato, così da consentire alle fabbriche una produzione di merci non solo abbondante ma anche a buon prezzo.
Fu questo il momento in cui all’ingegnere si sostituì lo Scienziato, nuovo Gran Sacerdote cui veniva affidato il compito di completare il lavoro del suo predecessore, divenendo il nuovo leader dello sviluppo industriale.
Se per definire e perfezionare la fabbrica come luogo di produzione ci vollero circa centocinquanta anni (1770-1920), ne bastarono molto meno (il primo pozzo di petrolio viene trivellato nel 1859, ma è solo con l’inizio di questo secolo che vengono messi a punto i processi di cracking catalitico, mentre prendeva contemporaneamente l’avvio la fantastica avventura dell’atomo) per rendere accessibili all’industria fonti di energia a basso prezzo. (Gran Sacerdote-ScienziatoTipo: Niels Bohr).
Se la fabbrica rimase il luogo dove produrre e quindi la destinataria dei miglioramenti resi possibili dal lavoro degli Scienziati, il luogo che vide costoro operare e che si sostituì alla fabbrica come nuovo spazio sacrale, come nuovo tempio, fu l’Università con i suoi Centri Studi e Ricerche, dove il lavoro teorico e pratico di fisici, chimici, filosofi ed economisti creava le basi e forniva gli indirizzi per lo sviluppo di questa seconda fase della storia del prodotto industriale.
L’essere riusciti per primi a completare e a rendere efficiente questa trasformazione, contribuì in maniera determinante al successo degli USA nella Seconda Guerra Mondiale.
I soldati americani vinsero perché erano armati non solo di tanti prodotti bellici ma anche di tanti prodotti necessari a vivere e non solo a uccidere. Si può paradossalmente affermare che la vera arma vincente fu la Coca Cola, più ancora della bomba atomica.
È a questo punto che inizia la terza fase. Sì è imparato a produrre tanto e poi tanto e a buon mercato; adesso occorre distribuire correttamente queste merci, bisogna che la gente le conosca, le voglia e le trovi.
L’Esperto di Distribuzione, l’Uomo di Marketing prende il posto dello Scienziato, è lui il nuovo Gran Sacerdote che celebra i suoi riti nello spazio aperto del Mercato erigendo i suoi Templi in forma di Supermercati, Department Store e Catene di distribuzione. (Gran Sacerdote-Marketingman-Tipo: Il Persuasore Occulto).
È lui che dilata alle dimensioni attuali lo spazio commerciale realizzando una sintesi sinergica di eccezionale importanza, che combina gli effetti della Rivoluzione Industriale con quelli della non meno importante Rivoluzione dei Trasporti. L’uomo di marketing trova i prodotti capaci di rispondere ai bisogni espressi dalle diverse fasce del mercato; ma opera anche nel senso di scavalcare i bisogni suscitando nuovi desideri per i quali ha già in serbo la risposta in forma di prodotto.
Il cinismo caratteristico di questo nuovo potere rappresenta, tutto sommato, un pacifico modo di manipolare le coscienze degli altri.
A questi altri si lascia apparentemente il diritto ed il privilegio di avere e manifestare sempre nuovi e più sofisticati desideri.
Ma il nuovo potere si riserva il compito di spiegare il perché dell’insorgere di quei desideri e non di altri (fase psicanalitica); suggerendo quindi i prodotti atti a soddisfarli (fase commerciale), il tutto attraverso i Media e la comunicazione promozionale più o meno diretta, ma sempre guidata e orientata.
Il Marketingman è il gran diffusore di una omogeneizzante uniformità dei consumi che ha i suoi idoli nel jeans, nella Coca Cola, nel Rock’n Roll, nell’Inclusive Tour, ed in tutti quegli usi indifferenziati che sempre di più vanno definendo e collegando gli innumerevoli pezzi del «Vecchio Mondo Diviso» che sopravvive in forme stereotipe sempre percepibili in filigrana, ma oramai incapaci di contrastare la «Idea Vincente» che si presenta nella forma di «Grande Mercato Mondiale» di uomini, merci, usi e costumi.
Un grande mercato che rappresenta un nuovo ordine di pace, certamente migliore del precedente sistema di differenze, difese spesso con le armi e causa frequente di guerre.
Centocinquanta anni di Ingegneri per imparare a produrre; cinquanta di Scienziati per poterlo fare a buon mercato; quaranta anni di esperti di Marketing per imparare a distribuire e diffondere le merci prodotte.
E siamo arrivati alla fine degli anni sessanta, quando avviene l’ulteriore conversione, il nuovo cambio d’abito del Gran Sacerdote che cominciò allora ad indossare gli abiti che ancora oggi indossa, quelli dell’Esteta. È lui che oggi tira i fili ed influenza e orienta le scelte nella direzione del Bello.
È il suo intervento che ci induce a scegliere fra diversi orologi, tutti ugualmente precisi. È lui che officia, come Designer o Stilista, all’interno delle grandi Agenzie di Corporate Image e di Pubblicità o all’interno di una delle tante isole di creatività dell’arcipelago in cui si è frammentato il mercato più maturo (Gran Sacerdote-Designer-Tipo: Raymond Loewy).
Questa frammentazione sta provocando un diverso atteggiamento dell’uomo della strada – consumatore nei confronti dei prodotti che lo circondano, con i quali convive e dei quali è costretto dai Media a seguire l’evoluzione che avviene in tempi che si fanno sempre più accelerati, anche quelli del successo.
Il ritmo «naturale» delle stagioni: quattro all’anno, dovrebbe forse indurci a riflettere con meno sufficienza sui tempi della Moda, per esempio. Che sono tempi molto «naturali »: in primavera fioriscono gli abiti; in estate maturano i consumi; in autunno cadono le gonne ed in inverno rispuntano i cappotti. Il tempo così scandito passa vorticosamente e con lui sta passando, consumandosi, sotto i nostri occhi, il tempo degli Esteti.
L’universo dei prodotti industriali sta concludendo la sua quarta parabola, avendo portato a compimento quello che per anni era stato il frustrato obiettivo del dibattito delle idee intorno all’industrial design.
Oggi l’introduzione intenzionale di ingredienti creativi nella messa a punto dei prodotti industriali è cosa oramai acquisita. Fatto salvo il diverso gradiente creativo è quasi sempre presente nelle intenzioni della più parte dei produttori un qualcosa che somiglia a quel kunstwollen di cui Alois Riegl scriveva agli inizi di questo secolo: assai più elementare del bisogno di proteggere il corpo con prodotti tessili quello di adornarlo
Attraverso l’alluvionale profusione di merci si va diffondendo un crescente apprezzamento per i valori misteriosi del Bello e per quelli ciclicamente variabili del Buon Gusto, trasferendo quello che è stato per millenni l’aristocratico privilegio di pochi a quasi tutti e quasi dappertutto. Con la conseguenza di spostare altrove e in avanti i limiti ed i parametri delle nuove aristocrazie.
Si intravede adesso un nuovo periodo, che forse durerà ancora meno dei precedenti. Beninteso, pur perdendo il privilegio di dar carattere alloro tempo, gli Esteti restano al loro posto a celebrare i loro riti, così come vi sono rimasti gli esperti di Marketing, gli Scienziati e gli Ingegneri prima di loro.
Oggi il Gran Sacerdote si prepara a vestire i panni dell’Edonista. Secondo l’Enciclopedia Europea Garzanti, Edonismo (dal greco “hèdone”, piacere) è termine designante una concezione morale che identifica il bene con il piacere. L’edonismo fu teorizzato da Aristippo dl Cirene, epigono dl Socrate e caposcuola del cirenaici, sviluppando Il tema socratico del carattere dilettevole del bene.
L’edonismo è stato criticato lungo tutto l’arco della storia della filosofia, e in particolare da Kant, secondo il quale la moralità non può accompagnarsi al piacere. Più recentemente si è riconosciuto all’edonismo il merito di aver sottolineato gli aspetti per cui il piacere può rappresentare un valore in funzione dello sviluppo armonico dell’individuo».
Ecco che, se finalmente si pone come problema centrale proprio «lo sviluppo armonico dell’individuo», diviene allora fondamentale il ruolo del nuovo Gran Sacerdote-Edonista, come colui che può contribuire a riequilibrare il rapporto fra individuo-consumatore e mercato-manipolatore.
L’edonista richiama a sé e quindi al mercato il ruolo di Gran Sacerdote al quale si sono sin qui succeduti protagonisti diversi, ma tutti operanti dal versante della produzione.
Un sano edonismo può essere la chiave di volta per consentire a ciascuno la ricerca delle singole recondite armonie, individuabili in se stessi solo se si impara ad interpretare la enorme quantità di messaggi e di sollecitazioni che il mercato propaga.
E controllando inoltre ciascuno i suoi propri problemi di Edipo e Narciso, di macchina che produce bisogni c/o desideri veri e/o falsi. Edonismo allora come cultura d’uso, come sistema di regole, di conoscenze e di informazioni per imparare cosa cercare e dove trovano.
L’edonista non si interessa di quei prodotti che rispondono ai bisogni, è invece più attento a quei prodotti che rispondono ai desideri ed è attratto in maniera irresistibile da quei prodotti che non rispondono a niente, né a bisogni né a desideri, da quei prodotti che stimolano domande anziché fornire risposte.
L’edonista fa del suo consumo la sua cultura, costruendosi quindi, con qualificati gesti di acquirente e meditate scelte di consumatore, una vera e propria Umwelt individuale in armonia con se stesso e con il suo sviluppo personale che non può prescindere da massicce dosi di autoanalisi. Dal « Che fare?’ marxista-leninista al « Che farne? » di ciascuno, perché lo spazio per anni e anni occupato da militanza e impegno ideologico è ormai vuoto.
Ed è in questo vuoto, è nello spazio lasciato dal disimpegno seguito alla « Grande Delusione » causata dal fallimento del «Grande Progetto Ideologico», che oggi trova proseliti il nuovo «Rito del Consumo Colto» officiato per se stesso, dall’«Individuo-Edonista-Sacerdote-di-Se-Stesso».
Dopo generazioni ed anni di lavoro per imparare a produrre prima ed a guadagnare poi, è arrivato il momento di andare a scuola di consumatori. Bisogna imparare a spendere, imparare a comprare, che è cosa molto più difficile che non saper vendere ed anche più difficile che guadagnare.
L’Edonista vero, quello che ha condotto a compimento il suo «sviluppo armonico», non ama gli assembramenti e la folla, proletaria, borghese o di élite che sia.
L’Edonismo non è un esercizio collettivo ma piuttosto individuale. L’Edonista maturo sa cosa vuole, perché ha imparato a organizzare i propri desideri; sa dove e cosa cercare; e con chi dividere il suo piacere.
Sceglie il partner o i partners come sceglie il vino o i vini, i cibi, gli abiti, la strada dove abitare e la spiaggia dove fare le sue vacanze. Sa ovviamente come produrre reddito, ma ha imparato anche a tenere il denaro alla giusta distanza, come si deve con uno strumento necessario ma non sufficiente.
La grande quantità di merci caratterizza e modifica di continuo l’ambiente in cui viviamo; ma il nostro ambiente non è altro che la nostra propria cultura, che è fatta di studio, di riflessione, ma anche di conoscenza del mondo circostante, dei suoi processi e delle sue trasformazioni.
L’uomo è l’unico animale «non specializzato», mentre ogni altra specie animale ha il suo proprio «ambiente specifico», per padroneggiare ed esperire il quale possiede un sistema di organi «specializzati».
Una scimmia su di un albero nella foresta o un pinguino su di un pack al Polo si muovono con la stessa sicurezza con la quale un uomo si muove all’interno della sua abitazione, del suo ambiente che non gli è predeterminato ma che è lui a formare e determinare nella foresta o sul pack glaciale, in montagna o nella valle, al caldo o al freddo, lungo un fiume o in riva al mare. E che cosa è allora l’ambiente dell’uomo se non la sua «cultura », vera e propria «seconda natura» degli umani?
Come ha splendidamente spiegato Arnold Gehlen la cultura è dunque il vero ambiente naturale dell’uomo, del gruppo come del singolo. Grazie alla sua capacità di vivere secondo progetto e non già secondo istinto, l’uomo prevede, organizza e trasforma continuamente la sua sfera culturale, il suo ambiente.
L’Edonista è l’uomo capace non solo di contribuire a questo continuo processo di trasformazione, ma anche di interpretarlo utilizzandone con competenza i prodotti, frutto del lavoro dei suoi simili e del miracolo della vita sulla terra.
L’Edonista riscatta l’uomo dal ruolo di produttore-consumatore, inserendo nel processo evolutivo la conoscenza di chi sa trasformare l’ambiente circostante con il continuo apporto di prodotti di cui conosce l’origine e l’uso.
Prodotti che quindi vengono non soltanto «consumati » ma anche com-presi, assunti cioè a strumento di una trasformazione intesa a culturalizzare ogni scelta e ogni gesto al servizio di una idea di sviluppo come «civiltà» (Kultur) e non «civilizzazione» (Zivilisation), secondo la classica distinzione di Oswald Spengler, il quale introdusse tale sottile contrapposizione, studiando lo sviluppo ciclico delle singole civiltà.
Secondo Spengier, in ogni fenomeno di evoluzione storica si individuano due fasi; nella prima fase prevale la Kultur, si vive cioè il momento alto che esalta il gusto per la qualità e presuppone la valutazione e l’accettazione delle differenze fra le cose e fra le persone. I simboli di questa fase sono il Castello nel quale vivono i nobili e i cavalieri ed il Tempio nel quale vivono i Sacerdoti e i Maestri del Sapere.
Nella seconda fase, questi valori vengono meno, e dalla Kultur si passa alla Zivilisation, inevitabile fase terminale e crepuscolare di ogni ciclo. In essa prevale la macchina, il denaro, la finanza, il regime della massa omogenea contrapposto alla differenziazione in caste e classi sociali.
Il suo simbolo ultimo è la metropoli cosmopolita e tentacolare nella quale l’uomo è vissuto all’interno di meccanismi che lo privano dell’originale impulso vitale che spinge ogni essere ad interpretare se stesso nel suo vissuto storico, quale che sia il luogo geografico, temporale o sociale che gli è toccato in sorte […].
È però sempre doveroso avvertire che la realtà non si può misurare al centimetro né è immaginabile come una serie di scatole cinesi; essa non ha confini netti e non conosce separazioni assolute.
Pertanto, quando ipotizziamo per nostra convenienza “fasi” o “periodi” nella vita o nella storia, e quando indichiamo certi fenomeni come punto d’inizio o di fine di queste fasi, non va dimenticato che questi fenomeni che noi utilizziamo come riferimenti, non sono istantanei ma prolungati; per cui vi è sempre un largo spazio nel quale due “epoche” successive si mischiano e si confondano, al punto che non si può ben dire se il tale anno o il tale caso ricade in una o nell’altra o non piuttosto in entrambe allo stesso tempo.
«Le classificazioni che si fanno nella vita e, soprattutto, nella storia, vanno sempre intese e interpretate con questa fondamentale riserva. In materia dl storie va aggiunta poi una ulteriore riserva, non meno importante. “Civiltà” è termine astratto: la realtà concreta risiede nelle nazioni, o nelle regioni e negli strati sociali che la compongono.
Ma le varie nazioni e, al loro Interno, queste diverse parti, non camminano insieme né allo stesso ritmo. Nello stesso secolo vi sono paesi che stanno vivendo in “secoli” differenti; nello stesso paese vi sono regioni e strati sociali che stanno vivendo simultaneamente ”epoche” diverse [ F. PESSOA, Obra Poetica e em Prosa, Porto 1986, p. 1176].
Questa lunga citazione ci è parsa perfettamente calzante alla tabella che riassume questo scritto; essa inoltre è dovuta ad un grande scrittore dimenticato anche a causa della perifericità del paese in cui è nato e vissuto e della conseguente marginalità della lingua in cui ha scritto la sua opera.
Pessoa ci ricorda con la sua grande figura, enorme se vista sullo sfondo della modesta dimensione del piccolo Portogallo, che parallelamente alla storia evolutiva dell’umanità (diacronica) esiste una storia del pensiero dell’uomo (sincronica) che impegna ciascuno a essere Gran Sacerdote di se stesso nel suo proprio Tempio, nello Spazio e nel Tempo che gli è dato.
tratto dal numero 71