Il mercato come opera d’arte

ACHILLE BONITO OLIVA
In una società post-industriale, come quella in cui viviamo, dove non esistono più tabù o superstizioni ideologiche causa di rimozioni e censure, è possibile aprire un discorso e fare un’analisi lucida di un fenomeno quale quello del mercato dell’arte. D’altronde l’arte contemporanea vive in un sistema articolato di funzioni, corrispondenti ad altrettanti ruoli, giocati dall’opera, dalla critica, dal pubblico e dal mercato appunto.

Nel Medioevo l’artista vive protetto dalla struttura corporativa delle arti e mestieri, in cui la produzione artistica è pareggiata ad altre attività meno culturali, in quanto si pone l’accento prevalentemente sull’aspetto della produzione materiale ed artigianale dell’opera. La committenza parte in prevalenza dalla Chiesa o dal Comune e non esiste ancora l’idea del collezionismo, della tesaurizzazione dell’opera d’arte.
Nel Rinascimento, verso la fine del Quattrocento, l’artista si svincola dalle corporazioni, si emancipa socialmente rispetto al ceto artigianale entro cui era stato posto precedentemente ed afferma il privilegio di una nuova identità, quale produttore di un manufatto particolare e prezioso, legato alla fantasia ed all’invenzione.
Questa emancipazione consegna l’artista ad un nuovo tipo di committenza, quella capricciosa del Principe, da cui comincia a dipendere interamente la sua vita. Il Principe, emulato anche dalla corte e dalla nobiltà in generale, colleziona le opere per la sua quadreria privata, comprandole dall’artista anche prima che questi le realizzi, anzi indicando qualche volta i requisiti indispensabili affinché esse vengano accettate.
In entrambi i casi, nel Medioevo e nel Risorgimento, la committenza è ben individuata ed esiste un rapporto interpersonale tra l’artista ed il destinatario dell’opera. Spesso l’artista si muove nella sua produzione proprio sulla conoscenza politica e psicologica del suo mecenate, per meglio soddisfare le sue esigenze. Questo non significa asservimento dell’opera, semmai corrispondenza ideale tra le parti. Se restano salde e ferme le istanze filosofiche e religiose dell’opera, è sul linguaggio che l’artista apporta la sua cifra personale che lo contraddistingue dagli altri.
In ogni caso la corte, la curia, il convento piccolo o grande, erano il teatro di accaparramento della committenza per l’artista che spesso vaga da una città all’altra, da una nazione all’altra, per trovare la possibilità di sopravvivenza economica o di compenso vero e proprio per il suo lavoro. L’interlocutore comunque è sempre ben individuato già da lontano, in quanto detentore del potere ed elargitore di fortuna e di protezione per l’artista.
Dunque il rapporto tra il produttore dell’opera ed il suo consumatore è assolutamente diretto e senza altri intermediari. Il capriccio del Principe e la fantasia dell’artista trovano una sincronia che consente talvolta anche identificazione morale e culturale tra le due parti. Difficilmente l’opera nasce prima della committenza, della destinazione e dell’ambiente entro cui si situa. L’opera d’arte è il precipitato di un insieme di fattori che determinano le sue condizioni di realizzazione.
Con l’avvento della civiltà industriale, il sistema dell’arte è andato assumendo, per quanto riguarda la sua organizzazione, una progressiva ed inesorabile specializzazione, conseguente anche alla divisione del lavoro. Da qui l’emergere di un’attività specializzata come quella della critica d’arte, ed anche l’affermarsi di una distribuzione dell’opera non più affidata al rapporto diretto tra produttore e consumatore.
Nasce il mercato moderno dell’arte che nell’Ottocento trova, specialmente in Francia, alcuni esempi precisi.Da questo momento l’artista produce nel chiuso del suo atelier, seguendo la sua ispirazione prevalentemente, senza conoscere i destinatari della sua opera.
Oppure ne conosce i connotati sociali e di gusto, ma non l’identità personale. Ora un mercato impersonale ed oggettivo si incarica di attirare il pubblico e dunque i possibili acquirenti. Naturalmente questo ha comportato una assunzione di rischio da parte del mercato che non funziona certamente solo da deposito del gusto corrente, ma comincia anche a spronarlo.
Ambroise Vollard compra Cézanne e non Boldini e dunque realizza attraverso un gesto economico anche uno critico e culturale: individua in Cézanne il portatore di una rivoluzione linguistica nell’arte moderna. Naturalmente questo non significa amore astratto per l’arte, bensì capacità di unire imprenditoria ad intuito personale, decisione di scelta ed investimento.
Tutto questo significa naturalmente anche lievitazione del valore economico dell’opera che si carica, oltre le sue intrinseche qualità artistiche, di un valore aggiunto determinato dalla scelta del mercato che l’ha acquistata.
Nel Novecento le avanguardie storiche hanno messo a dura prova il mercato dell’arte, mediante la sperimentazione di nuove tecniche e materiali ed anche di un nuovo rapporto col pubblico.
Eppure il mercato ha avuto la duttilità di adeguare il proprio circuito alle novità dell’arte, promuovendo spazi espositivi privati, capaci di richiamare un pubblico incuriosito di ricchi borghesi, pronti ad accettare i linguaggi di una nuova arte che significa anche un nuovo modo di vedere il mondo.
Daniel-Henry Kahnweiler prende nella sua galleria parigina artisti come Picasso, Braque, Derain, Gris, Vlaminck, Mirò, Léger. Porta dunque nel gusto corrente della società i risultati, resi oggettivi dalle opere, di una profonda rivoluzione culturale che cambia ovviamente anche l’idea del collezionismo, non più luogo feticistico di riaffermazione dei Valori costituiti ma semmai luogo sperimentale di una nuova identità culturale ed antropologica: status-symbol. Proprio per questo, oltre che per un naturale livello di specializzazione, il mercato comincia sempre più a dare circolazione soltanto ad alcuni artisti, secondo scelte precise.
Il paradosso è costituito dall’intreccio tra la generosa utopia delle avanguardie storiche, quella di voler trasformare il mondo, e l’intraprendenza di un mercato dell’arte, legato necessariamente alla iniziativa privata e dunque all’economia di profitto che comporta la regola di considerare l’opera come un prodotto di cui va incentivato il valore, mediante un sistema capace di dilatare l’informazione intorno ad essa ed eventualmente anche l’alone mitico che la circonda. Ed il denaro è il parametro che ne determina l’identità di valore.
La galleria è il costume di scena del mercato dell’arte, in quanto rappresenta il teatro espositivo in cui l’opera si incontra col pubblico, quello che fa opinione o che acquista. La galleria costituisce la cornice che fa da cerniera tra la solitudine dell’opera tutta ritagliata dall’immaginario dell’artista ed il corpo sociale. L’artista non riconosce un interlocutore privilegiato ed individuato della sua opera, semmai riconosce ancora una volta il mediatore del suo rapporto mondano nel mercante, il quale si fa doppiamente garante nei riguardi dell’artista e del collezionista.
Il denaro è il sigillo universalmente riconosciuto della doppia garanzia che poggia le sue fondamenta sul valore strutturale dell’opera, che è quello eminentemente culturale determinato dall’opinione critica, dal lavoro di riflessione critica effettuato dal critico d’arte. L’opera diventa il portato di una stratificazione di pratiche che si aggiungono man mano alla realtà iniziale del manufatto artistico. Tale accumulo determina un processo di accrescimento del valore.
Il mercato crea una circolazione incentivata del prodotto artistico che arriva al pubblico ed al collezionista in maniera ampliata, quanto a statuto e presenza mitica. Il mito è determinato anche dalla qualità del circuito entro cui l’opera si muove, costituita dall’identità culturale e sociale di coloro che vi gravitano. Il circuito è un circolo, una struttura circolare entro cui si muovono forze culturali, mondane, economiche e più generalmente sociali che formano un’opinione pubblica, capace cioè di imporsi come opinione di tutto il corpo sociale.
La formazione di tale opinione trova naturalmente nell’opera il suo momento strategico, ma necessita di un suo momento tattico che può essere costituito da una teoria critica, da un manifesto teorico oppure da una intuizione di un singolo mercante che intravede la possibilità di lavorare prevalentemente su un gruppo di artisti o su di una corrente.
Al primo caso appartengono quasi tutti i movimenti delle avanguardie storiche (futurismo, espressionismo, dadaismo, surrealismo), ed alcuni movimenti e tendenze del secondo dopoguerra (informale, transavanguardia); appartengono al secondo caso altri movimenti delle avanguardie storiche (metafisica, cubismo) e tendenze sviluppatesi dagli anni cinquanta in avanti (action-painting, new-data, pop-art, fino alla conceptual-art).
Comunque indispensabile è l’intreccio tra informazione culturale, provocata dalla critica d’arte, e circolazione dell’opera, provocata dal mercato.
Tale intreccio, che nasce dalla messa in pratica di ottiche necessariamente parziali e dunque soggettive, fonda la possibilità di guardare all’opera come il frutto di una scelta oggettiva praticabile come unica e necessaria.
L’intreccio tra le due parzialità, quella della scelta critica e quella mercantile, sposta l’accento verso un’immagine di imparzialità, in quanto capace di affermarsi egemonicamente come dettata da un criterio di valutazione di oggettiva qualità.
Anche quando il momento tattico non è lo stesso, il risultato invece resta il medesimo: la segnalazione privilegiata della nascita di un movimento, di un artista o di un’epoca, la sottrazione dal buio di una produzione indistinta e l’illuminazione di uno spazio di attenzione, abbacinato da una luce tutta d’oro.
Si spiega facilmente perché dall’espressionismo alla transavanguardia il momento tattico della cultura ha avuto una sua precedenza rispetto a quello della diffusione mercantile: ci troviamo di fronte a movimenti che hanno il loro inizio prevalentemente in Europa, dove la mediazione della critica generalmente ha trovato e trova una sua necessità in un tessuto culturale con alle spalle grandi tradizioni filosofiche ed ideologiche.
Invece dall’action-painting in avanti (fino alla conceptual-art) siamo di fronte ad una attività artistica che trova nel sistema produttivo americano il suo teatro di diffusione.
Il sistema americano dell’arte agisce all’interno di un alveo produttivo estremamente specializzato e pragmatico, in cui l’economia diventa il parametro anche morale di qualsiasi azione. Il mercante è colui che rischia il proprio denaro, e dunque ha il diritto di fare le sue scelte direttamente, senza alcuna mediazione o garanzia critica, la quale interviene semmai successivamente come giudizio sulla qualità del prodotto esposto.
L’internazionalizzazione del mercato dell’arte ha creato un’osmosi tra contesto europeo ed americano, dando all’opera una circolazione aperta e diffusa che diventa anche una maniera di affermare una sua immagine di universale qualità. Oggi il mercato dell’arte tende ad attribuire un valore universale all’opera, dando come sua garanzia il riconoscimento in ogni contesto, anche al di fuori da quello nazionale entro cui l’opera è nata. In tal modo aumenta la certezza della sua interna qualità, capace di omologare gusti differenti di differenti contesti.
Il movimento di economia specifica che determina il valore è il passaggio dell’opera d’arte come qualità a pura quantità, ad entità di scambio che trova però una sua incentivazione nel suo essere per essenza qualità. Tali spostamenti determinano uno slittamento strumentale di identità, demonizzato spesso dalla cultura europea e ritenuto invece rassicurante da quella americana.
Gli intellettuali e critici europei, imbevuti di cultura idealistica e di ideologie politiche, hanno chiamato tutto questo mercificazione dell’arte, caduta di essa a bruta quantità, a merce tra le altre merci.
L’atteggiamento americano, conseguenza del proverbiale pragmatismo anglosassone e dell’etica puritana alla base dello sviluppo capitalistico, è improntato e portato a vedere nella vendita dell’opera d’arte il segno di un lavoro ben fatto, il riconoscimento della qualità interna del prodotto.
La struttura circolare della dinamica (qualità, quantità, qualità) garantisce in questo contesto economico e culturale la bontà dell’operazione ed assolve la coscienza dell’artista da ogni preoccupazione.
L’assorbimento dell’opera d’arte sperimentale da parte del sistema è sembrato alla cultura europea una contraddizione delle avanguardie, tradizionalmente legate ad ideologie di sinistra ostili al sistema.
Da qui una strategia creativa che ha anche provato ad assottigliare ed a smaterializzare l’opera, a farla diventare puro evento. Ma anche in questo caso il feticismo del collezionismo ha avuto il sopravvento, riuscendo a collezionare le tracce ed i residui di questa produzione, in ogni caso sempre veicolata dagli stessi canali del mercato, con qualche passaggio attraverso gli spazi alternativi.
Critici antiquariali, piagnucoloni e moralisti hanno spiegato i loro fallimenti, circa la previsione di sviluppo internazionale di linee di tendenze da loro teorizzate, con l’alibi della congiura del mercato che ha invece appoggiato altre linee: un discorso che denuncia una posizione di fondo paleomarxista che ancora crede e concede il primato della struttura (l’economia) sulla sovrastruttura (la cultura). Senza capire che, come spesso può succedere, il mercato, anche se per cinismo, può accettare il suggerimento critico capace di aprire nuove strade nel gusto sociale.
Ma va anche detto che il passaggio della qualità dell’opera a quantità ed il suo successivo ritorno a qualità (che la individua rispetto ad altri prodotti) designa anche la possibilità del mercato di procedere in una propria autonomia che oggettivamente funziona da filtro, cosi come funziona da filtro la palese tendenziosità del critico che sceglie le opere e gli artisti secondo un’ottica personale.
Le resistenze dell’opera — dovute alla sperimentazione di un nuovo linguaggio o alla posizione ideologica dell’artista — rispetto al suo assorbimento diventano in ogni caso ulteriori connotazioni che la individuano rispetto ad altre opere.
Il mercato è per definizione amorale e non orientato politicamente, non si interroga sulla direzione politica dell’arte, semmai tende a ribadirne l’autonomia circoscrivendo i contenuti dell’opera e riportandoli a particolari connotazioni linguistiche.
Il mercato assume fino in fondo l’idea che l’arte è linguaggio e circoscrive a tale definizione l’identità dell’arte stessa. Per natura non può ipotizzare l’esistenza di un’arte contro di sé.
Anzi il mercato ha introiettato le proverbiali connotazioni dell’opera e più in generale dell’arte: l’universalità, la necessità e l’oggettività. Ha cercato di ribaltare e di riqualificare il ruolo di ineluttabile mercificatore, presentando come ineluttabili i fenomeni accidentali della creazione artistica e come universale la produzione, storicamente delimitata, dell’arte. Con estrema flessibilità ha adattato la propria attenzione alla specifica e progressivamente differente identità dell’opera, riuscendo a capire che la qualità specifica dell’opera delle avanguardie storiche era l’insieme di rottura, novità e scandalo che ne costituivano un incentivo di pubblicità, presenza e valore.
Ha attraversato il territorio delle neo-avanguardie e della sperimentazione ad oltranza, trovando nella coazione al nuovo il motivo caratterizzante la differenziazione della produzione. L’azzeramento delle ideologie e dei modelli ha portato ad una maturità dell’arte che opera ormai fuori da ogni coazione ed ha stabilito una diversa identità del suo prodursi: la transavanguardia come possibilità di nomadismo culturale ed eclettismo stilistico in ogni direzione.
Anche in questo caso il mercato ha riconosciuto la trasformazione di identità dell’arte. In definitiva si pone esso stesso come opera d’arte. Un ingranaggio lucido che afferma la propria universalità attraverso la distribuzione internazionale del prodotto, la propria ineluttabilità attraverso la capillarità dei propri collegamenti ed organizzazione, la propria oggettività attraverso la lampante certezza di dare sussistenza, esistenza e riconoscimento economico all’opera d’arte e dunque all’artista.
tratto dal numero 57