Dall’America. Warhol e Kosuth

ANGELO TRIMARCO
1. Troppo a lungo si è insistito sulla diversità Europa/America. Sull’arte europea legata, di volta in volta, all’ideologia e all’utopia, alla lotta di classe e alla speranza in un mondo migliore. Sulla cultura artistica americana più disincantata e cinica, meno patetica e senza ansie di riscatti o di rinnovamenti sociali.

Di questa lacerazione (naturalmente schematica e forse grezza ma sicuramente non del tutto falsa) non c’è dubbio che i campioni ci sono apparsi per tanto tempo Andy Warhol e Joseph Beuys. Ci è sembrato che potessero rappresentare, proprio per le loro decisioni estreme, due modelli di intendere l’arte e la vita, due pratiche differenti. Tanto diverse che, pur non potendosi neppure sfiorare, si possono però mettere a confronto.
Un faccia a faccia che, in vero, non è mancato quando Andy Warhol ha congelato Beuys in tre grandi ritratti proprio come anni prima aveva fatto con Marilyn Monroe con Liz o con Mao, con Marion Brando. Insomma, quando anche Joseph, uomo e angelo insieme, animale e uomo al tempo stesso, è penetrato nella sconfinata distesa di persone e cose raffreddate nel silenzio di una posa o nell’immobilità di un gesto, gettate infine nell’anonimato. Mentre questo accade inevitabilmente ritornano quelle parole lontane dette a Swenson da Warhol alla fine dell’autunno del ‘63.
«Mi resi conto che qualsiasi cosa stavo facendo doveva essere morte». È, dunque, da questa morte che Warhol è partito per costeggiare personaggi e leggende, per consegnarci immagini senza vita e senza amore, per pareggiare Jacqueline Kennedy ai grovigli di rottami e alla Campbell’s Soup, per allineare Beuys al vuoto disperato delle Blue Electric Chairs.
Ora, dopo Beuys, è il turno di Giorgio de Chirico, greco di nascita, con amori profondi per la cultura tedesca e francese (oltre naturalmente che italiana). I nomi che si citano sono quelli famosi della décadence, anzitutto il pensiero di Schopenhauer e poi quello di Nietzsche. E con loro, com’è opportuno, i grandi visionari da Böcklin in avanti.
I raccordi luminosi, dunque, della civiltà filosofica e artistica più recente che ha in odio le grandi narrazioni
e il permanente. Ma allora perché de Chirico? O ancora meglio perché Warhol verso de Chirico? Certo, tra tutti gli artisti di questo secolo, Giorgio de Chirico, più di ogni altro, suggerisce Bonito Oliva, ha lavorato «a uno stereotipo alto che affonda nella storia dell’arte e che trova il proprio riscatto nella manualità esecutiva dell’artista che, ripetendo la propria immagine, ne rifonda attraverso l’esecuzione la qualità e l’intensità epifanica: de Chirico manierista di se stesso».
L’immagine di de Chirico che la critica ha ricostruito in questi anni è senz’altro orientata nella direzione delle ricerche che, con intenzioni diverse, ripensano l’arte come territorio sconfinato di pezzi da montare e rimontare, da citare e tornare a ripercorrere, da usare come si adopera qualunque altra immagine del paesaggio metropolitano. Da questo luogo de Chirico è diventato una porzione di storia privilegiata, come privilegiato è risultato l’insegnamento, lungo tutti gli anni Sessanta e oltre, di Marcel Duchamp.
Dunque, nell’epoca della parabola del teorico, non più Duchamp ma de Chirico. Non più un’esperienza che riflette sull’arte e la vita, sui linguaggi dell’arte e sulle tecniche della vita ma piuttosto un modo di fare arte che ritrova lo stereotipo come bene prezioso, la ripetizione come movimento impercettibile, il museo come elezione del già fatto e del già accaduto. Che ritrova, dunque, il passato per pensare senza futuro, perché ogni cosa si gioca sulla superficie del presente, sotto lo sguardo crudele di Medusa.
Del resto l’incontro romano di Warhol con de Chirico è avvenuto appunto sul registro della ripetizione e del già accaduto. Infatti i Mobili nella valle sono del 1962 e Le muse inquietanti del ‘60 mentre del 1950 i mitici Ettore e Andromaca. Insomma, Warhol lavora de Chirico sullo stereotipo, lo sorprende nel gesto della «citazione e dell’autocitazione». Sorpassando, quindi, la vecchia querelle di un primo tempo dechirichiano folgorante e del grande tradimento a partire dagli anni trenta: è la tesi formulata con asprezza da Breton (credo prima di ogni altro).
Certo, se in Warhol vengono meno la qualità e la tensione artigianale per la buona riuscita dell’opera, il gusto dell’ironia e della sorpresa, la gioia dello choc, è perché è caduto l’ultimo puntello: il mito dell’Opera e la leggenda dell’Autore. Quel de Chirico pinxit che non manca a contrassegno della lunga vita di questo greco pellegrino per l’Europa della fine della metafisica.
L’idea di Warhol è che, invece, l’arte è soltanto una metafora (per niente privilegiata) della desolata morte americana e che l’autore deve scomparire per lasciare il posto all’anonimato, a ciò che non ha nome, che non si chiama e che non può essere detto. Sempre a Swenson, in quel fatidico novembre del ‘63, ha confessato: «Penso che qualcun’altro dovrebbe essere capace di fare i miei quadri. Non sono riuscito a fare tutte le immagini chiare e semplici e uguali.
Penso che sarebbe fantastico se più persone si servissero del silkscreen così che nessuno potesse riconoscere il quadro mio da un altro».
Non c’è dubbio, allora, che questo «tipo di figurazione fredda, dove anche il pathos e le stesse situazioni tragiche si presentano in forma anestetizzate» (Boatto) si trovi all’inizio (se un inizio c’è mai stato) della condizione postmoderna. E non Cage, come c’invita a credere Lyotard. Non Cage perché quell’Opera sua capitale, Silence, si riempie attimo per attimo dei rumori e della totalità della vita.
2. Se in Cage, in sostanza, l’arte smette il ruolo di linguaggio separato dal flusso dell’esistenza, se la Vita e l’Arte si pareggiano, in Warhol si frantuma senz’altro anche questa illusione. Il discorso non riguarda più ora l’arte e l’esistenza, l’esercizio di un sistema di segni specializzato e l’andirivieni incerto e precario, felice e doloroso del vivere, le sue cadute e i suoi risanamenti, ma un’altra questione: il legame dell’arte con i media.
Meglio il problema dell’esperienza artistica che, usando le tecniche e i modi dei mass-media, non si distingue alla fine dal loro dominio. Anzi, in Warhol, la tensione è che l’arte diventi media nel segno, si è detto, dell’anonimato e della lucentezza della superficie, del senza nome e del già accaduto, del già visto, di ciò che non si dice e di ciò che è anestetizzato.
Warhol non esprime più, dunque, nell’epoca della fine della metafisica, la «morte dell’arte in senso forte e utopico» ma in «un senso debole, o reale»: testimonia, cioè, dell’estetizzazione «come estensione del dominio dei mass-media», come occupazione quotidiana del Kitsch.
Così, è proprio dalla scena americana che, oggi, giunge una risposta all’apologo warholiano. Se non una risposta, almeno l’indicazione e il suggerimento di un percorso diverso. Dunque, non più l’opposizione netta, frontale, che taglia nel mezzo le cose, di Joseph Beuys, che ritrova ancora nel politico (fosse pure nell’ecologia dei Verdi) ragioni per alimentare lo spirito d’utopia, ma il ragionare paziente, cauto, di Joseph Kosuth.
Si tratta, questa volta, non del dilemma storico, epocale, Europa/America, ma di due generazioni a confronto, che hanno attraversato (e stanno viaggiando) dentro il sogno americano che è divenuto appunto la morte americana.
Warhol è nato quando Beuys aveva nove anni e Kosuth, della generazione del 1945, non credo che abbia fatto a tempo a vedere in diretta le prime opere di Andy, all’ingresso degli anni Sessanta. Warhol, la pop art, l’arte europea, Kosuth li ha, dunque, studiati, analizzati, provati e riprovati più tardi. Come ha pensato e meditato il contesto culturale e filosofico di questi anni decisivi.
La filosofia del linguaggio, anzitutto, e il lungo, accanito, dibattito sulle teorie emotive e cognitive dell’esperienza estetica. Ne reca testimonianza quel testo emblematico del 1969, non a caso intitolato Art after Philosophy: uno scritto che si apre con la celebre affermazione che «l’arte è analoga a una proposizione analitica e… solo un’arte tautologica può tenersi a distanza da presupposti filosofici». Una dichiarazione che mette radicalmente in questione la funzione della filosofia come sapere assoluto o come rigoroso discorso scientifico a favore dell’arte, distinta seccamente dall’estetica che «concerne le opinioni sulla percezione del mondo in generale».
Mentre al contrario, essere «artisti significa interrogare la natura dell’arte», «sviscerare tutte le implicazioni di tutti gli aspetti del concetto di arte». È la stagione idi Kosuth segnata dalla tautologia e dal contesto, dalla semiotica e dalla filosofia del linguaggio, dall’assoluto della logica che sfiora, alla fine, l’ebrezza del silenzio e del mistico. Una soluzione che rende profetico il detto di Sol Lewitt: «Gli artisti concettuali sono dei mistici piuttosto che dei razionalisti».
Una vertigine che Kosuth interrompe nel 1975, dopo The Tenth Investigation, per l’intrecciarsi, appunto, di due motivi: per la riduzione progressiva dell’arte concettuale a una variante dell’arte d’avanguardia e del modernismo e per la necessità di cogliere nessi sempre più stretti fra arte, storia e antropologia. Per eludere, dunque, il Modernismo, il Misticismo, lo Scientismo.
Con Kosuth, alla metà degli anni Settanta, si ha una delle prime e più lucide riflessioni sulla fine del Moderno e, insieme, sul Post-Modern (che è termine lungamente adoperato dall’artista). Per Kosuth il Modemism è il territorio dello scientismo, il tempo della tecnica e del suo dominio, il luogo d’elezione della neutralità e del disimpegno, dell’accademia e della burocrazia.
Di questa condizione l’arte americana, dalla pop al Photo-realism, e quella europea sono espressione e rappresentazione puntuale. Il Photo-realism, per esempio, interiorizzando l’ironia pop, non è che la glorificazione dell’obiettività fotografica e dell’oggettività meccanica. Al punto, avverte Kosuth, che «l’obiettività meccanizzata, dipinta a mano, del Photo-realism, finisce in una frode senza problemi, naturalmente, quando ci si rende conto che gli imbrogli selezionati di una realtà intravista sono glorificati». Nella frode, appunto, della «perfetta visione burocratica dell’obiettività».
La critica al Modemism investe, dunque, l’oggettività perversa della presenza, la glorificazione del dato, l’amplificazione dell’empirico, così come corrode tutte le forme dell’arte europea fiorite nel segno del vissuto e della partecipazione, del rito e del mito. Tanto da dire, già al tempo di Art after Philosophy, che «l’arte diventa seria come la scienza o la filosofìa, che non hanno certo un pubblico.
Nella misura in cui si partecipi o no, l’arte concettuale diventa più o meno interessante. Nel passato, lo status privilegiato dell’artista lo confinava a svolgere il ruolo di un grande sacerdote o di uno stregone dell’industria dello spettacolo». Scientismo e Spettacolo sono, allora, i due versanti del Modernism, le sue malattie incurabili.
Ma com’è possibile (e con quali soluzioni) abbandonare l’ala fredda dell’oggettività e dell’analitico e insieme il mito e la stregoneria del vécu? Soltanto ritornando a stare dentro, a impegnarsi, a compromettersi con la prassi, a centrare un punto che non riduca lo sguardo ad osservazione e a catalogo.
Ma cosa può significare ai nostri giorni stare dentro e non essere disimpegnati, «dis-engaged», o non sentirsi lontani, alienated? È, questo, il filo che scorre e si aggroviglia per tornare a svolgersi in The artist as anthropologist: un saggio nel quale Kosuth elabora appunto l’idea che «l’artista è un modello dell’antropologo impegnato».
Giusto alla metà degli anni Settanta, Kosuth, abbandonando i riferimenti culturali a lui più vicini (o, forse meglio, ridefinendoli profondamente), getta la vista sull’antropologia, così come si è configurata nel lavoro di Stanley Diamond e Bob Scholte. «L’antropologia di Diamond e Scholte non è inclusa in questa generalizzazione… In verità, il loro ruolo di antropologi richiede che siano impegnati», pretende che la loro esperienza non stia «al di fuori della cultura che studia» ma che diventi «parte della matrice sociale».
Uno stare dentro e un diventare parte che non vanno confusi, però, con la partecipazione e il vissuto degli artisti del comportamento e della body art, con la partecipazione prossima al rito e all’ebbrezza mistica, all’acutizzarsi della sensibilità e del sensorio, a un momento di gioia irripetibile (perché ha la leggerezza dell’effimero).
L’impegno, lo stare dentro, la comunità di cui parla Kosuth (e con lui l’antropologia marxista di Diamond e Scholte) è tutt’altra cosa. È un’analisi rigorosa della scienza come disciplina neutrale, come catalogo oggettivante di fatti e dati, di nomi e rituali, di gesti e parole. È il legame profondo, soprattutto, fra antropologia e storia («L’antropologo deve essere uno storico», consiglia Diamond).
È, per altri versi, il progetto che l’arte stessa debba essere storia, proprio, attraverso la mediazione dell’antropologia: di una disciplina, cioè, che ha definitivamente liquidato ogni residuo scientista e la leggenda della neutralità.
3. Per Kosuth, dunque, il passaggio dal Modernismo al Post-Modern dice che «l’arte non è né al di sopra né oltre l’esperienza vissuta», ma che anzi, «in quanto riflessione impegnata (socialmente mediata)…, (è) innestata nel mondo», intrecciata saldamente al groviglio del vivere («It is part of it»).
Un profondo radicamento nel mondo, uno starvi dentro ed esserne parte, un aggrovigliarsi nella prassi che, del resto, aveva già suggerito a Kosuth l’idea, al tempo di The artist as anthropologist, del Post-Modern come para-Marxist situation: un’idea che più di recente ha sensibilmente smorzato, come vedremo.
A Kosuth non è sfuggito, infatti, che il cammino del Post-Modern si è orientato verso l’indifferenza dei linguaggi e la manipolazione della storia, verso la presenza del passato come gioco infinito di forme e di luci piuttosto che verso l’analisi e l’approfondimento dell’arte come pratica critica (critical practice).
Ha guardato lo sfiorire del teorico, il suo lento (inarrestabile) declino e l’insorgere, al posto suo, del manierismo che si accompagna a Superman e a Gordon Flash. Si è reso conto che questo transito (dal Moderno al Post-Modern) ha lasciato una «sorta di vuoto generalizzato per quanto concerne il significato».
Di questo vuoto il tornare a dipingere è certamente un indice preoccupante e, al tempo stesso, emblematico: il segno dell’inerzia e di una «acritica celebrazione di virtù pittoriche del passato», la svalutazione di quelle stesse «tradizionali qualità pittoriche per l’impiego di una tecnica scadente e per l’intenzionale scardinamento di un concetto passato di qualità».
La testimonianza, estrema forse, che la pittura sta morendo o è già morta: «Questo lavoro non è né riflessivo né esterno, ma ingenuamente interiorizzato; in breve esso si attualizza in una sorta di infermità finale». Una infermità che è assenza di rapporto critico e perdita di valori sociali, di tensione politica.
È appunto il declino del teorico, l’assenza di rapporto critico come preferisce dire Kosuth, che impedisce all’arte di «situarsi storicamente assumendosi la responsabilità dei significati elaborati», del sapere proposto.
Significati e sapere che, naturalmente, per Kosuth, non trascendono il proprio tempo ma sono l’esito di una lotta che si gioca in una precisa situazione storico-culturale, in un contesto (Within the context). Ecco perché, si legge amaramente in Necrophilia mon amour, «il ‘vuoto di significato’ causato dalla scomparsa del discorso precedente (il Modernismo) e, per lo meno finora, l’evidente mancanza di alternativa (‘post-Modernismo’ è più una nozione che un vero e proprio discorso) ha fatto sì che New York derivi il proprio significato dai movimenti del mercato dell’arte».
Un vuoto di significato che crea, però, in America e in Europa effetti profondamente diversi: effetti legati alla lunga durata di queste storie. È, in fondo, l’ultimo appiglio storicistico di Kosuth (che non rifiuta né la parola né il concetto). «Questo ‘ciao, ciao’ al Modernismo vuol dire che un Europeo può sempre trovare nella propria cultura un contesto nel quale inserire il proprio lavoro, ma gli americani, al solito, dovranno ripartire da zero».
Insomma, al di là della qualità e del valore delle loro opere, «Chia e Clemente avranno meno problemi di Schnabel e Salle» per il fatto che «la migliore arte contemporanea italiana non ha mai perso di vista la propria storia o il proprio patrimonio culturale».
Così, Joseph Kosuth, all’ingresso degli anni Ottanta, di fronte alla perdita di significato dell’arte e allo splendore delle sue forme, di fronte alla caduta della pratica critica, smorza gli entusiasmi per il Post-Modem e torna a riflettere sul progetto moderno. Torna ad interrogarsi sul suo senso, si chiede se, dopo tutto, quel programma è definitivamente fuori corso. «Una volta negata la visione storicistica del Modernismo… cosa faranno gli artisti americani… — o anche quelli che solo s’interessano d’arte — di fronte alla quasi totale scomparsa di significato?».
La posizione di Kosuth è singolarmente vicina a quella di Habermas (che del resto conosce e cita). Ma non nega, proprio per il richiamo alle culture locali, l’esperienza della transavanguardia, che fa del genius loci il suo nume tutelare, appunto.
Da questa soglia difficile (dalla fine del Moderno e dagli inizi del Post-Modern) Andy Warhol e Joseph Kosuth, americani di due generazioni, ci mandano parole e segnali diversi, suggestioni e indicazioni incompatibili. Così che l’anonimato e il bisogno di significati, lo stereotipo e la pratica critica, la ripetizione e il contesto, i media come villaggio globale e le culture locali, la morte e la storia, ci appaiono come materiali su cui riflettere ancora senza preconcetti.
tratto dal numero 56