Happening come rituale dell’interazione

PASQUALE FAMELI

Una riconsiderazione critica del concetto di happening che si ponga al di là di eccessive segmentazioni categoriali risulta oggi quanto mai necessaria, non solo per riconoscere a esso una certa autonomia rispetto al teatro, ma anche per cercare di inquadrare un simile fenomeno nel clima culturale a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta, affidandoci alle preziose prospettive teoriche di Allan Kaprow e Jean-Jacques Lebel.

L’ormai popolare etichetta di happening viene usata per la prima volta nel 1959 dallo stesso Kaprow in un articolo pubblicato sulla rivista letteraria «The Antologist» e trova piena consacrazione con le azioni eseguite dall’artista statunitense, allievo di John Cage, presso la Reuben Gallery di New York nell’ottobre dello stesso anno: 18 Happenings in 6 Parts. Lo segue a ruota Red Grooms con Play Called Fire, The Walking Man e The Burning Building, mentre arrivava anche una qualche conferma dai “vecchi parapetti” europei con Hommage à John Cage eseguito da Nam June Paik alla Galerie 22 di Düsseldorf. Il 1960 è un anno esplosivo, che vede la realizzazione di numerosi eventi newyorkesi: alla Reuben Gallery si susseguono infatti The Big Laugh e Coca Cola, Shirley Cannonball? di Kaprow, The Small Cannon, A Small Smell e American Moon di Whitman, The Magic Train Ride di Grooms, Snapshots from the City di Oldenburg, The Smiling Workman, The Car Crash e The Shining Bed di Jim Dine.

Nel 1961 emerge invece una scena europea per la quale va riconosciuto a Lebel il ruolo di apripista, poiché già autore nel 1960 di una Cérémonie funèbre a Venezia, e non a caso definito da Nam June Paik come figure de proue du Happening en France et en Europe1. L’esplosione mondiale di Fluxus e il suo battesimo europeo tenutosi a Wiesbaden nel 1962 ha poi concimato il terreno per una nuova fioritura, tanto che nel 1963 si registrano la pur breve adesione di Joseph Beuys al network di Fluxus, il passaggio del Wiener Aktionismus di Hermann Nitsch e Otto Mühl dalla pittura “sanguinaria” alla performance “rituale” e, in luglio, la presenza di Allan Kaprow a Parigi con un happening realizzato presso i magazzini Au Bon Marché. Il moltiplicarsi delle esperienze europee nel 1964, come ad esempio quelle di Gabor Altorjay a Budapest, di Milan Knížák a Praga o di Edward Krasinski a Varsavia, non impedisce allo happening di conoscere comunque il suo momento di massima maturazione a New York con Calling di Allan Kaprow, culmine di quel graduale processo di conversione dello spettatore in partecipatore cui si ambiva sin dall’inizio: le varie azioni di Calling erano infatti state avviate in momenti diversi e in zone sparse e distanti della Grande Mela, così che nessuno potesse avere una visione realmente completa e globale del loro svolgersi.

Al susseguirsi di eventi, spettacoli e performance tra America ed Europa, si aggiunge inoltre un proliferare di etichette, a dire il vero capziose e dai confini piuttosto labili, per via della tendenza degli artisti stessi alla formulazione di nomenclature personali e arbitrarie, con pretese distintive spesso irrilevanti: Theater Pieces per Robert Whitman, Comedies per Red Grooms, Ray Gun Theatre per Claes Oldenburg. A queste si aggiungono altre sottocategorie coniate sul campo e accumulatesi in pochissimi anni: Cock Fight o Pocket Drama per azioni da svolgersi in piccoli ambienti intimi come studi, camere, cantine, Extravaganza per concertazioni di poesia, danza e musica che mescolano il circo al vaudeville, Guided Tour o Pied Piper per itinerari e percorsi attraverso cui guidare gli astanti a scoprire ciò che succede abitualmente in quei luoghi, Suggestions per brevi frasi simili ad haiku giapponesi eseguibili solo sul piano concettuale, Activity per la partecipazione a comuni atti della vita di tutti i giorni, e infine Event per brevissime azioni compiute di fronte a un pubblico che assiste frontalmente come in una comune rappresentazione teatrale o in un concerto musicale.

Frattanto anche la critica ha offerto definizioni diverse del medesimo fenomeno, senza giungere a un preciso accordo sulla sua allocazione nell’ambito del teatro o in quello delle cosiddette arti visive, sostanzialmente riconducendo ciascuno il fenomeno al proprio campo di interesse, testimoniando una volta di più, la complessità dell’operazione. Michael Kirby, ad esempio, considera lo happening come una forma di teatro in cui diversi elementi alogici, compresa l’azione scenica priva di matrice, sono montati deliberatamente insieme e organizzati in una struttura a compartimenti2, mentre Pierre Restany lo definisce più semplicemente come sintesi dell’informazione artistica3, non nascondendo una certa preferenza per l’ambito del visivo, linea sposata anche da Susan Sontag che, rifacendosi alla dicitura di teatro dei pittori, usa definizioni come collage animati o trompel’œil animati4. A questa linea critica sembra, in una qualche misura, dare ragione anche lo stesso Kaprow quando ammette che le origini dello happening non vanno cercate tanto nel teatro, quanto ricondotte a un momento topico della ricerca pittorica statunitense5, e cioè a quella via al di là del cavalletto6 riconosciuta da Clement Greenberg al dripping di Jackson Pollock, che ha aperto a una concezione coreutico-gestuale del fare artistico, permettendoci di annoverare tra i precedenti dello happening anche il gruppo Gutai di Osaka.

Ma al di là di tutte le possibili segmentazioni tassonomiche proposte a caldo da artisti e critici, è opportuno stabilire innanzitutto quali siano i tratti dominanti di un simile fenomeno per comprenderne la natura profonda, partendo proprio da quella generica ma significativa affermazione di Kaprow per cui gli happenings sono eventi che semplicemente accadono7. L’ineffabile ambiguità dello happening, votato alla più incondizionata mescolanza di gesti, approcci e materiali eterogenei senza matrice, si amplifica infatti nella sua continua oscillazione tra lo “spettacolo”, nella sua più generica accezione etimologica, e quindi ciò che attrae lo sguardo, e l’azione “partecipata”, che riconfigura di volta in volta il ruolo degli astanti. Proscritti gli specialismi del teatro tradizionale, gli apparati e la “quarta parete”, le poetiche dell’accadimento si collocano nell’orbita di decostruzione delle sintassi sceniche, delle arti visive, della declamazione poetica e della musica attuando una “deterritorializzazione” (Deleuze-Guattari) di queste unità precostituite, disponendo tutti i residui di queste forme espressive su un piano di radicale orizzontalità, nella libera combinazione di compartimenti autonomi, animata da fluide sinergie e continue ibridazioni intermediali. Rifiutando le capacità interpretativo-psicologiche dell’attore convenzionalmente inteso, le poetiche dello happening riconducono il ruolo dell’operatore al compimento di gesti comuni, ma privati della loro funzione quotidiana, per assumerli così come pratiche puramente estetiche.

La voluta elusione della possibilità di produrre significato e il continuo ripiegarsi del senso su se stesso veicolano e dichiarano la necessità di scatenare concatenamenti interattivi tra individui che non giungano ad alcun obiettivo: si fa, infatti, leva sul processo nel suo divenire, rispondendo a un “principio di indeterminazione” che, in alcuni casi, ambisce a uno sviluppo esteso, dilatato, potenzialmente infinito, senza soluzione di continuità. Imprevedibilità e probabilismo dominano, come nel flusso dell’esistenza, lo svolgersi delle azioni e la continua riconfigurazione “schismogenica” (Bateson), quel processo di differenziazione delle norme comportamentali del singolo soggetto che scaturisce da interazioni cumulative tra più individui. Negli happenings si ripropongono infatti le indomabili logiche della vita stessa, canalizzate in un flusso spaziotemporale non frazionabile ma continuo, nella “durata” (Bergson), gesti, spostamenti e deviazioni che il singolopartecipante pone condizionando, più o meno volontariamente, la reazione dell’altro, e venendone, a sua volta, condizionato.

Una simile relazione, nella quotidianità come nella ricerca artistica più esplicitamente votata ai fatti esperienziali, può svolgersi in modi numerosi e diversi (fisicisti e maszicci o sottili e discreti), ma pur sempre espressi in un’immediatezza e con una flagranza che, proprio come negli happenings, non possono ammettere progettazioni e organizzazioni precostituite, lasciando anzi alla casualità e all’indeterminatezza la regia delle azioni. L’attenzione si focalizza quindi sul processo di coinvolgimento, di interrelazione tra i partecipanti, e la pressoché totale assenza di parametri convoglia la globalità dell’atto performativo nel flusso indistinto dell’esperienza quotidiana. Le molteplici componenti di uno happening sono spesso autonome, non coordinate nel loro sviluppo, e si combinano in alogici rapporti simultanei su più livelli, in una sincronicità di avvenimenti non correlati che arrivano a mescolarsi, confondersi e complicarsi fino alla più irrimediabile entropia. Si tratta di veri e propri “comportamenti emergenti”, interazioni non lineari tra gli elementi implicati che giungono alla formazione di schemi complessi a partire da regole e premesse semplici ed elementari, dinamiche rintracciabili anche nelle relazioni sociali.

Quest’ultima considerazione risulta essere molto proficua ai fini di un’analisi che, pur riconoscendone l’autonomia, vuole comprendere e motivare la natura relazionale dello happening in un più ampio orizzonte epistemologico. Assecondiamo allora quella proposta di Filiberto Menna per cui la riflessione sull’arte di comportamento dà i propri migliori frutti se posta in una prospettiva sociologica, e ricordiamoci che proprio nel 1959, anno di nascita dello happening, il sociologo canadese Erving Goffman pubblica The presentation of self in everyday life, divenuto ormai un classico della disciplina. In questo saggio l’autore si propone di analizzare le dinamiche della socialità ricorrendo a un’antica metafora, quella della vita sociale come drammaturgia, come performance, presentandoci però un teatro “impoverito”, inteso come concreto spazio di interazioni effettive, investigato tanto nei suoi aspetti legati alla rappresentazione continuativa e costante, quanto in quelli della relazione casuale e del confronto umano anche solo episodico. Così come gli happenings si incentrano su azioni comuni e quotidiane, nella microsociologia di Goffman si rileva un’attenzione agli atti minimi della vita di tutti i giorni, a gesti solitamente considerati insignificanti (ma invece tra i più significativi), fino ad allora trascurati in quello stesso ambito disciplinare.

Proprio per la mancanza di obiettivi specifici, per la concentrazione sull’agire in sé, quindi non finalizzato a perseguire un possibile obiettivo, si verifica spesso negli happenings quel tipo di interazione che Goffman dice non focalizzata, determinata quindi da una molteplicità di azioni simultanee alogiche e irrelate, in cui non esiste un condiviso focus di attenzione, ma solo una condizione di “co-presenza” in cui gli individui si espongono solo potenzialmente a ogni tipo di modalità interazionale. L’io del soggetto che prende parte a un happening si riduce, fin quasi ad annullarsi nella pluralità di azioni in cui si trova invischiato, privo di una responsabilità esecutiva singolare, ma co-partecipe di un processo generativo in cui l’identità, ben lungi dall’essere stabile, organica e duratura, si struttura localmente, manifestando a pieno la sua congenita mutevolezza, altro punto cardine del modello del sociologo nordamericano.

In relazione a ciò, Goffman, rielaborando sul piano microsociologico idee fondamentali del pensiero di Émile Durkheim, intuisce come nella società contemporanea il self sia l’oggetto religioso, sacrale, di un nuovo “culto dell’individuo”, e che la sua presentazione e la sua continua ricostruzione si inverino in piccoli cerimoniali facenti parte della vita di tutti i giorni. Non sembrerebbe del tutto in disaccordo Kaprow, dato che per lui, mediante gli happenings, le nostre azioni diventano rituali e la nostra vita quotidiana si trasforma8, e Lebel sembra persino parafrasare Goffman quando afferma che il momento dello happening è un momento forte, sacro, mitico, nel corso del quale la nostra percezione, il nostro comportamento, la nostra stessa identità vengono modificati9.

Consuonano con queste idee anche le considerazioni critiche di Udo Kultermann il quale, concorde con l’ipotesi di assegnare allo happening un significato di pertinenza sociologica, rileva negli aspetti dell’approccio intermediale il recupero di un’originaria funzione dell’arte come funzione della vita, come risultato dello sciamanismo moderno e corrispondente a forme rituali e più vicino ai culti misterici della preistoria, che rivelano peraltro una rivalutazione di valori psichici, magici, mitici10. Anche Kaprow fa cenno, di tanto in tanto nei suoi vari scritti, che tra i due poli sia possibile stabilire e rintracciare dinamiche comuni, evitando però di attribuire a queste esperienze carattere mistico o religioso. Sulla stessa linea si pone Lebel affermando come a differenza di uno sciamano che, nel corso di un cerimoniale, asseconda un dogma cosmogonico, l’artista che innesca un happening cerchi la sua cosmogonia nell’agire stesso, attivando e ponendo in comunicazione diretta e reciproca, in quello che definisce un legame cosmico, i mandala interiori di ciascun individuo11, operando in quell’equazione aperta che è il rapporto uomo-mondo.

Il perfetto tempismo con cui Kaprow e Goffman hanno simultaneamente proposto le loro concezioni non solo ne rafforza il senso, ma pungola in noi l’idea che tra i due possano esserci stati dei contatti, anche indiretti. Non ci è dato stabilirne il momento esatto, ma sappiamo per certo che Kaprow venga a conoscenza delle teorie di Goffman, tanto da menzionarle e discuterle in uno scritto del 1977 dedicato alla performance come atto partecipativo; la descrizione così precisa delle idee del sociologo canadese, il modo chirurgico in cui ha dissezionato i suoi testi e le teorie in essi contenute, lascia trapelare l’interesse che l’artista americano ha nutrito nei suoi riguardi, forse proprio per via di quella comune intenzione manifestatasi negli stessi anni a riconsiderare, pur se per vie e motivi differenti, le azioni quotidiane come performance.

In questo scritto Kaprow chiarisce come, nei gesti di ogni giorno, manchino la consapevolezza e la responsabilità della conduzione di una performance, ma conclude precisando che ciò che deve risultare interessante per l’arte è il potenziale performativo dei gesti quotidiani, ossia che le abitudini di tutti i giorni possono essere usate come veri e propri spettacoli fuoriscena12. Si tratta, in fondo, della medesima considerazione espressa già nel 1966 anche da Giuseppe Chiari, per il quale realizzare un happening equivale ad assumere un atto che si compie nella vita quotidiana, abitualmente, distrattamente, quasi senza accorgersene, come un atto significativo13 o quella suggestiva affermazione dello scrittore Jean-Marie Le Clézio, per il quale realizzare un happening porta a estrarre un fatto dal suo contesto e prendere coscienza che il mondo è uno spettacolo all’interno del quale noi stessi siamo spettacolo14.

Ciò che interessava a Kaprow erano proprio l’attivazione e l’osservazione di comportamenti umani, così come la moltiplicazione dei rapporti transindividuali, ossia di quelle stimolanti dinamiche relazionali che il pragmatista statunitense John Dewey etichettava come “transazioni”. Nonostante non venga mai nominato nei suoi scritti, Dewey rappresenta davvero il padre intellettuale di Allan Kaprow15, e la sua prospettiva filosofica fa da pendant alla lezione estetica che l’americano aveva ricevuto da John Cage. Un segnale più chiaro di altri dell’influenza di Dewey su Kaprow lo abbiamo proprio nell’uso che fa, nel medesimo scritto del 1977, del termine transations proprio per indicare atti di relazione tra individui. Troviamo d’accordo anche Lebel, per cui lo happening stabilisce una relazione da soggetto a soggetto e, al di là delle possibilità di stabilirne la durata o contenerne lo sviluppo, ciò che risulta fondamentale, imprescindibile, è il verificarsi del contatto intersoggettivo16.

L’uso di questa parola ci permette di stabilire un’altra “proporzione” culturologica: se Dewey è, come precedentemente rilevato, il riferimento filosofico di Kaprow, quello di Lebel è senza dubbio Merleau-Ponty – menzionato dall’artista stesso nel saggio del 1966 – e strenuo promotore di una centralità della relazione tra l’io e l’altro nell’esplorazione del piano esistenziale. Quest’ultimo rilievo chiude il cerchio della nostra indagine: transazionismo e intersoggettività sono infatti concetti paritetici, del tutto omologhi, e quindi corrispondenti; essi sono il motore degli studi di Goffman così come quello delle poetiche di Kaprow e di Lebel, e assumono in esse una centralità tale da fare dello happening il paradigma estetico dell’interazione sociale.


1.Da una lettera di Paik diretta a Lebel risalente al febbraio 1967 e riportata in E. Decker, I. Lebeer (a cura di), Nam June Paik. Du cheval á Christo et autres écrits, Éditions Lebeer Hossmann, Bruxel- les 1993, p. 167.
2.M. Kirby, Happenings (1965), trad. it., De Donato, Bari 1968, p. 28.
3. P. Restany, Une tentative américaine de synthèse de l’information artistique: les Happenings, in «Domus», 405, Agosto 1963, pp. 36-41 [trad. it. mia].
4.Si veda S. Sontag, Contro l’interpretazione (1966), trad. it., Mondadori, Milano 1998, p. 360.
5. A. Kaprow, Happenings on the New York Scene (1961) in Id., Essay on The Blurring of Art and Life, University of California Press, Berkley 2003, pp. 3-7.
6. C. Greenberg, Arte e cultura, trad. it., Umberto Allemandi, Torino 1991, p. 154.
7.A. Kaprow, Happenings cit., p. 16 [trad. it. mia].
8. Ivi, p. 43 [trad. it. mia].
9. J.-J. Lebel, Le happening, Éditions Denoël, Paris 1966, p. 49 [trad. it. mia].
10. U. Kultermann, Vita e arte. La funzione degli intermedia (1970), trad. it., Gorlich, Milano 1972, pp. 13 e 209.
11. J.-J. Lebel, cit., p. 35 [trad. it. mia].
12. A. Kaprow, Participation Performance (1977), in Id., Essay cit., p. 187 [trad. it. mia].
13. Riportata da T. Trini, Chiari, musica e insegnamento, in G.Chiari, Musica madre, Prearo, Milano 1973.
14. L’affermazione risale a un articolo del 1965 ed è riportata in J.-J. Lebel, cit., p. 49 [trad. it. mia].
15. Come afferma Jeff Kelley nella prefazione a A. Kaprow, Essay cit., p. XXVI.
16. D. Ross Sheer, op. cit., p. 192.