Due modi di essere nel web

FULVIO IRACE
«Internet non si addice all’architettura», scriveva su queste pagine Renato De Fusco, a conclusione di un’accurata disanima dei più avveniristici scenari sulla smaterializzazione dell’architettura nell’era digitale. Era il 2001, l’anno successivo alla fortunata edizione della settima Biennale di Architettura di Venezia, lanciata da Massimiliano Fuksas all’insegna di Less Aesthetics, More Ethic.
Per quanto il tema fosse piuttosto incentrato sulla visione della città contemporanea configurata dai nuovi comportamenti sociali indotti dalla globalizzazione, la costruzione scenica e gli interventi di molti degli invitati spingevano il tasto delle nuove tecnologie verso una spettacolarizzazione riassunta nell’invenzione del «muro mediatico» lungo l’imponente navata delle Corderie.

Una «Bit-Biennale» insomma, influenzata da quella «net-architecture» che allora sembrava riassumere il futuro stesso dell’arte del costruire nel nuovo millennio: gli architetti trasformati in websters; il cemento evaporato in bit; la legge del click and mortar che si apprestava a sostituire i fondamentali della old economy, in una paradossale riedizione postmoderna della profezia dell’abate di Notre Dame davanti all’invenzione della stampa: “ceci tuera cela”!
Poco più di dieci anni dopo, molto poco in realtà pare rimanere in piedi di quest’euforia, tramontata drammaticamente con i sussulti negativi dell’indice Nasdaq e il crollo delle economie mondiali. Al punto che persino il saggio recentemente pubblicato da Carlo Ratti con Matthew Claudel – Architettura Open Source – più che una fervente perorazione dei benefici di internet sui processi di democratizzazione del progetto, pare in realtà una scommessa, non certo un’analisi persuasiva e argomentata.
Scartando giustamente la più esplorata (e tutto sommato deludente) dimensione estetica delle conseguenze del digitale e del virtuale sull’architettura, Ratti si sofferma soprattutto sulle possibilità che il tipo di interlocuzione open source aperto da internet attraverso i social network (tra cui si può includere anche Wikipedia con la sua scommessa di un sapere condiviso e costruito dalla comunità degli utenti), possa finalmente dare una struttura realistica e praticabile a quell’aspirazione coltivata da molte delle avanguardie del XX secolo verso una modalità del progetto come dispositivo modificabile e trasmissibile in maniera ampiamente partecipata.
Sviluppandosi, Internet (o, più precisamente, il World Wide Web) è diventato un banco di prova involontario e un laboratorio per un nuovo genere di progettazione. Internet ha creato tramite i suoi utenti un sistema autopoietico: le persone hanno usato Internet per creare Internet (un oggetto fatto al tempo stesso di comunicazione e di sostanza) – scrive Carlo Ratti nel suo invito a “Imparare dalla rete”, al punto di affermare che siamo vicini a un punto di svolta, l’architettura come informazione e la fabbricazione come mezzo per acquisire più potere.
È interessante osservare che, proprio De Fusco, ridimensionando la presunta rivoluzione di Internet nel campo della progettazione, arrivava a conclusioni abbastanza simili a quelle che invece Ratti indica come una epocale «svolta»: l’operazione informativa più utile e sperimentata è quella di collegarsi con altri operatori, una volta apertosi questo potenziale atelier progettuale con sedi in ogni paese del mondo. In particolare, si va realizzando quell’ideale lavoro di gruppo tanto auspicato da decenni.
Infatti un progetto può avere inizio in uno studio ubicato in una città, ripreso e discusso in un’altra, continuato in una terza e magari completato in una quarta dove si raccolgono i dati delle precedenti elaborazioni ed approvato da tutti i precedenti autori. Ciononostante le suddette informazioni non costituiscono affatto la «materia prima dell’architettura». Né la costituiscono le ipotesi, per così dire, più moderate sul futuro dell’informatica applicata all’architettura, alcune delle quali già in atto”1.
Se dunque il web ha trovato un forte ostacolo nell’insopprimibile materialità dell’architettura, molto più congeniale appare invece la sua convergenza verso il design, soprattutto quando si consideri che oggi questa parola non evoca più in maniera univoca l’universo della produzione industriale e quindi la sua originaria vocazione al disegno e alla riproduzione seriale delle merci.
Storicamente, il design è stata la disciplina che con maggior impegno si è proposta di trasformare l’Industria in arte: un’arte di massa, naturalmente, e non più individualista e borghese, nella prospettiva di una effettiva democrazia d’accesso ai beni. Se nella società industriale del XIX e di buona parte del XX sec. le sue pertinenze erano delimitate dalla natura materiale dei beni, nella società postindustriale le sue competenze hanno registrato un salto di scala, visto che lo stesso prodotto non è più concepito come un oggetto che deve essere prodotto, ma piuttosto come un’informazione 2.
Come è noto, infatti, oggi la parola design è oggetto di numerose aggettivazioni: da “industrial”, si è fatto “visual”, “conceptual”, “strategic”, etc. per meglio definire la versatilità dei suoi ampliati compiti nella mutata prospettiva dell’epoca postindustriale.
Chi diede per primo consistenza filosofica e visiva a questa trasformazione, fu nel 1985 Jean Francois Baudrillard che con la mostra “Les Immateriaux” al Centre Pompidou di Parigi, mise in scena una sorta di drammaturgia dell’informazione nell’era dell’elettronica, dell’informatica e delle tecno-scienze.
Naturalmente la sua prospettiva non era né euforica né apologetica: piuttosto esprimeva inquietudine (se non preoccupazione) per l’imprevista deriva dell’uscita dalla Modernità, generatrice di una condizione politica, sociale ed esistenziale dove il dominio della tecnica avrebbe prodotto uno slittamento del tradizionale rapporto tra soggetto ed oggetto. La seduzione del digitale, il fascino del virtuale, mettendo in dubbio la stabilità delle cose e la loro veridicità, trasformano tutto in linguaggio, perché tutto diventa messaggio e quindi informazione.
Concepita agli albori di quella che oggi appare come una riconoscibile civiltà del digitale, la provocazione di Baudrillard è diventata una vera e propria profezia, che alcuni, come il critico americano Hal Foster, hanno apocalitticamente individuato nella visione estensiva del design secondo un progetto di “eliminazione del mondo naturale”, e altri, più ottimisticamente, interpretato come un necessario ruolo di mediazione che il design, soprattutto in momenti come l’attuale di forte trasformazione, ha dovuto assumersi per ricostruire la necessaria empatia tra i beni e i fruitori o, se si vuole, in senso più esteso, tra i processi di elaborazione culturale e le comunità.
Identificandosi sempre di più con la sua matrice concettuale di piano, il design insomma ha smesso di produrre solo “oggetti”, per rivolgersi alla previsione e alla definizione di scenari d’uso, o anche per sviluppare forme di sensibilità attinenti alla dinamica dei comportamenti, delle reazioni, delle aspettative. Si è proposto come servizio: cioè come progetto che elabora visioni di sistema in grado di stabilire connessioni tra ambiti diversi.
Utilizza sinergie per aumentare la gamma delle prestazioni dal mondo dei consumi materiali a quello della fruizione immateriale, aprendo alla definizione di soluzioni inedite e innovative stimolate proprio dall’abolizione dei tradizionali confini tra competenze e saperi diversi. Riconosce come suo ambito di pertinenza l’elaborazione di modelli di relazione e di mediazione che attengono al mondo dei comportamenti, delle mentalità, delle identità culturali e sociali e quindi, estensivamente, a quella “cultura” o “produzione immateriale” sinora territorio d’indagine privilegiato della sociologia, dell’antropologia, della politica, ecc.
Il suo campo di applicazione, dunque, riguarda l’aspetto visuale e relazionale, oltre che quello fisico in senso stretto e l’incontro con le tecnologie digitali consente di raffinare ulteriormente le sue aree di intervento, rafforzandone la capacità di offrirsi come strumento di definizione di nuovi modelli di comportamento. Ma soprattutto, il passaggio dall’oggetto alla “mediazione” culturale e progettuale implica la sua estensione a campi finora ritenuti marginali o addirittura estranei: come quello del “cultural heritage”, la cui dimensione va infatti oltre l’accezione del Bene Culturale come patrimonio materiale, annettendosi tutti quei paesaggi antropologici che, pur essendo all’origine del mondo tridimensionale, vi rimangono ai margini per l’impossibilità di essere opportunamente conosciuti e rappresentati con strumenti tradizionali. E che non a caso, l’Unesco ha sentito la necessità di codificare nella “Convention for the Safeguarding of the Intangible Cultural Heritage” del 17 ottobre 2003.
Diversamente dall’architettura, l’evocazione del termine “immateriale” risulta dunque compatibile con la nozione di design come pratica di relazione, e particolarmente congeniale alle sue interrelazioni con il mondo della cultura, perché introduce immediatamente una visione estesa del patrimonio e dei suoi aspetti intangibili – il paesaggio umano, le pratiche, le espressioni, i rituali, l’oralità di una comunità, dall’Unesco definiti “tesori umani viventi” – che i metodi tradizionali di conservazione e di valorizzazione non riescono a coprire con l’efficacia richiesta.
In tal modo il design stabilisce un rapporto progettuale con il patrimonio, non più considerato come giacimento cui attingere, ma come un’eredità da promuovere, da incrementare. La cultura digitale, favorendo per sua stessa natura la dinamica del- l’interrelazione e della comunicazione, può essere strumento efficace di promozione di questa visione attiva dell’eredità, cui consente attraverso le sue tecniche di esprimersi, di trasmettersi e di produrre ulteriori significati.
In quest’estensione vanno compresi anche tutti quegli atti di riconoscimento di valore e di archiviazione storica riferiti alla processualità del progetto, capaci di generare forme di musealizzazione attiva. Un’estensione nè scontata, nè indolore per gli evidenti riflessi sulla tradizionale concezione della natura stessa del “bene culturale” messa in discussione da una progettualità forse ancora anarchica o troppo soggettiva, dove molto spesso le componenti di sfruttamento economico, che si nascondono sempre dietro ogni proposito di valorizzazione, sconfinano in arbitrarie forme di spettacolarizzazione a scapito di una corretta fruizione della materialità e della storicità dell’heritage.
Ma, come sempre accade, davanti alle trasformazioni e alle crisi degli esistenti sistemi di valori, la posizione del rifiuto è speculare a quella dell’acritica accettazione, secondo il ben noto schema della contrapposizione tra apocalittici e integrati. Serve una riflessione più articolata per definire utilità e danno del design applicato all’heritage: se non una vera e propria teoria, certamente una “carta” che stabilisca limiti e possibilità, relazioni di congruenza e di legittimità e, ovviamente, tutti i possibili gradi di coesistenza tra rispetto della storia e sua “attualizzazione” nell’attuale scenario della cultura globale.
Per molto tempo, la parola design per i musei ha coinciso quasi esclusivamente con l’estetica e la tecnica del display, dalla progettazione dell’allestimento alla illumino-tecnica o alla grafica.
Ha riguardato cioè la dimensione fisica degli spazi, la disposizione delle opere e lo studio delle loro migliori condizioni di visibilità, nella tradizione di un’architettura d’interni intesa come sussidiaria e non sostitutiva degli oggetti esposti. Eppure, il design entrava nel museo apparentemente in punta di piedi, ma in realtà con una suggestione che forse oggi appare difficile da misurare nella sua carica eversiva.
Basti pensare ad esempio alle polemiche sulla riforma dell’allestimento dei BBPR per la Pietà Rondanini nel Castello Sforzesco di Milano o ai continui rimaneggiamenti dei non meno celebri interventi di Franco Albini nei genovesi Palazzo Bianco e Rosso. Gli attrezzi ortopedici con cui Scarpa e Albini inquadrarono le opere d’arte antica per offrirle a una “corretta” visione (non è ancora stata né sopita né digerita, ad esempio, la decisione di Albini di esporre i quadri privi delle loro cornici) sono a tutti gli effetti inquadrabili nell’antologia del design post- bellico, come efficace dimostrazione di compatibilità tra “macchina” e manufatto artistico.
Marisa Dalai Emiliani ne ha ben colto la natura propositiva di un nuovo modello di rapporto con l’arte nella giova- ne Italia repubblicana, leggendo nei “riordini” di quei musei la volontà di estenderne le possibilità comunicative col nuovo pubblico – cui lo Stato garantiva facile accesso – attraverso un’elegante e sottile equiparazione tra ambiente museale e ambiente domestico. Lampade, sedie e divani entravano nella scenografia delle sale, portando il design industriale a tu per tu con i capolavori del passato. In un tempo relativamente breve […] l’immagine de nostri musei si modifica almeno quanto, contemporaneamente, quella degli interni delle case italiane, in una sorta di omologazione dei caratteri strutturali, morfologici e insieme dell’arredo degli ambienti espositivi3.
Questo modello museografico è ormai storicizzato, nel senso che l’avvertiamo come un valore a sua volta da preservare contro le continue trasformazioni imposte dai conservatori e dal sistema del turismo di massa. Se da una parte avvertiamo la bellezza intangibile di quei modelli, dall’altra non possiamo però sottrarci alle ragioni delle nuove necessità, a meno, ovviamente, di rinchiuderci nella difesa ad oltranza di visioni che non reggono all’urto con la nuova realtà.
Questa si presenta sempre, apparentemente, con i caratteri dell’invasione e della sopraffazione: anche quando, nella stagione d’oro della museografia italiana, i maestri moderni prevalsero sui conservatori ad oltranza, rivestendo la novità con i risvolti etici della democrazia (o della tirannia) del pubblico.
Con la sua capacità di progettare l’immateriale, il design – diventato interattivo e virtuale – si dichiara pronto a raccogliere la sfida, sperimentandosi proprio nel campo dove maggiormente si registra la crisi: quello della relazione e della mediazione culturale. Il design si propone come organizzatore di queste relazioni, rimettendo il patrimonio in sinergia con i nuovi contesti, esattamente – ma con strumenti diversi – come propose mezzo secolo fa la “svolta” italiana dei musei della democrazia.
Oggi la vera frontiera si è spostata dalla concezione del museo come luogo fisico a quella del museo come artefatto digitale: nel Web Museum il disegno del manufatto coesiste o addirittura cede il passo al design dell’informazione che l’Information Architecture Institute definisce come the art and science of organizing and labeling web sites, intranets, online communities and software to support usability and findability.
Se all’inizio lo strumento telematico è stato usato come surrogato del tradizionale catalogo o della guida, oggi i websites – la cui progettazione costituisce una delle applicazioni più sofisticate e complesse del design – sono diventati i primi portali d’accesso al dispositivo museale se non al museo stesso.
Le applicazioni della grafica interattiva e tridimensionale, della digitalizzazione, della riproduzione ad alta fedeltà, dell’uso di cataloghi e data base online, oltre a potenziare le modalità della ricerca facilitando l’accesso simultaneo alle informazioni, sono in grado di favorire la produzione di ipertesti che aumentano i gradi di connessione tra documentazione storico-critica e fisicità dei reperti. I virtual tour, le app. di ogni genere e grado, le installazioni multimediali sino all’olografia e all’interazione con touch screen che aiutano a integrare informazioni e commenti sulle opere, aiutano il pubblico a familiarizzare con le testimonianze del passato, reinserendole dentro un contesto di narrazione (digital storytelling) che colma il cultural divide tra pubblico e reperti storici.
Non a caso uno dei settori dove maggiormente si sta saldando la convergenza tra competenza storica e capacità divulgativa è quello dell’archeologia, grazie alle suggestioni delle ricostruzioni virtuali e della realtà aumentata. La ricomposizione di corredi, di oggetti appartenenti a collezioni disperse nel tempo o ancora di unità documentarie disseminate in archivi tra loro anche geograficamente distanti, ad esempio, trova nel web e nella ricostruzione virtuale strumenti operativi di condivisione e di analisi, che vanno ben oltre il tradizionale sistema dei rilievi o delle ipotesi grafiche (che rimangono allo stadio della rappresentazione bidimensionale) o dei modelli in scala (che danno della realtà una riproduzione “ridotta” e difficilmente riconfigurabile nei termini della pratica spaziale).
Lo spazio online crea insomma nuovi canali attraverso cui è possibile scambiare idee e informazioni, allargando contemporaneamente la platea del pubblico dell’arte, ma anche fornendo soluzioni all’oggettiva difficoltà dei musei di trovare un equilibrio tra difficoltà di organizzazione in spazi limitati ed esigenze legittime del singolo visitatore. È facile prevedere, ad esempio, che il tempo consentito alla visita di un’opera o di un’architettura diminuirà sempre di più per le ovvie necessità di preservare i reperti da un eccessivo “consumo” e la riproduzione digitale o la creazione di ambienti virtuali in parallelo a quelli originari (caso emblematico il sito delle grotte di Lascaux) possono costituire una risposta, se non definitiva, almeno accettabile.
Ancorché da una prospettiva fortemente critica, gli aspetti cruciali di questa rivoluzione sono stati ben colti da Hal Foster, quando osserva che la versione di Malroux, il museo senza mura, è diventata una realtà con il museo elettronico, il museo on-line”, mentre “la versione previ- sta da Benjamin, il cinema oltre il museo, è tornata all’interno del museo sotto forma di mostre progettate per scorrere in stile cinematografico o come pagine web4.
Ma il museo virtuale non è solo il canale privilegiato di alcune specifiche forme artistiche, come la web art o la performance, ma anche il congeniale sbocco espressivo di tutte quelle manifestazioni dell’intangible heritage che è per sua natura immateriale. Attraverso il disegno di percorsi virtuali, l’archivio digitale permette la costruzione di nuovi formati di musei “impossibili”, come quelli degli allestimenti, per loro natura effimeri e destinati sinora ad essere ricordati soltanto attraverso la parziale ricostruzione fotografica. In tal modo si amplia la gamma dei “beni” culturali, trasformando il volatile documento in vero e proprio monumento virtuale.
Internet insomma si addice al design, perché ne asseconda la vocazione onnivora a contrassegnare consapevolmente non solo la forma delle cose, ma quelle addirittura delle relazioni tra le cose e tra queste e le persone. Il paradosso è che un mezzo come internet dove l’unico tempo è quello presente (perché simultaneo nella sovrapposizione contestuale delle pagine web), se utilizzato secondo un’ottica design oriented può dar luogo a un aumento e non a una diminuzione della storia, e quindi a un potenziamento della conservazione e al tempo stesso della valorizzazione del bene culturale.


1. R.  De  Fusco, Internet non  si  addice all’architettura, in  «Op. cit.», n. 112, 2001.
2.. H. Foster, Design&Crime, Postmediabooks, Milano 2003, p. 28.
3.M.  Dalai Emiliani, Musei della ricostruzione in Italia, tra  disfatta e rivincita della storia, oggi in M.  Dalai Emiliani, Per  una  critica della museografia del  Novecento in Italia, Marsilio, Venezia 2008.
4. H. Foster, op.  cit.,  p. 73.