La poetica dell’arte povera

VITALIANO CORBI
l dibattito intorno alla cosiddetta arte povera, svoltosi sui cataloghi della galleria De’Foscherari e raccolto poi in un unico fascicolo a cura di P. Bonfiglioli (Quaderni De’ Foscherari, Bologna, 1968) interessa soprattutto perché in esso sono confluiti alcuni temi centrali dell’arte d’oggi.

«Nel vuoto esistente fra arte e vita — scrive G. Celant nella presentazione della mostra bolognese dell’arte povera — il libero progettarsi dell’uomo, il legarsi, creativo, al ciclo evolutivo della vita (siamo alla osmosi fra i due momenti) per un’affermazione del presente e del contingente.
Là un’arte complessa che mantiene in vita la “correptio” del mondo, col tentativo di conservare “l’uomo ben armato di fronte alla natura”. Qui un’arte povera, impegnata con l’evento mentale e comportamentistico, con la contingenza, con l’astorico, con la concezione antropologica, l’intenzione di gettare alle ortiche ogni “discorso” univoco e coerente (la coerenza “apparente” è un dogma che bisogna infrangere), ogni storia ed ogni passato, per possedere il “reale” dominio del nostro esserci… arte come stimolo a verificare continuamente il nostro grado di esistenza (mentale e fisica)… Un momento freschissimo che tende alla “decultura”, alla regressione dell’immagine allo stadio preiconografico, un inno all’elemento banale e primario, alla natura intesa secondo le unità democritee e all’uomo come “frammento fisiologico e mentale”… Ne deriva una fisicizzazione di un’idea, un’idea tradotta in “materia”, un modello, formato ingrandito, dell’apprendimento mentale e fattuale, naturalmente non una fisicizzazione vitalistica ed orgiastica, ma “mentalistica”.
L’autore ponendosi alla convergenza tra idea e immagine, diventa il vero protagonista dell’evento, si integra all’attualità e al divenire evolutivo delle sue idee».
Non importa verificare quanto questa poetica dell’arte povera s’addica alle opere degli artisti presenti alla mostra (Pistoletto, Pascali, Kounellis, Paolini, Merz, Anselmo, Zorio, Piacentino, Prini, Boetti e Fabro), poiché il dibattito si è svolto quasi sempre prescindendo dalla
lettura delle opere, ad eccezione degli interventi rivolti a confutare la proposta dell’arte povera proprio col riferimento ad artisti o momenti differenti dell’esperienza artistica.
Se a Celant va ascritto il merito dell’iniziativa, a Bonfiglioli e a Boarini spetta quello di aver sottoposto la poetica dell’arte povera ad una più rigorosa verifica, riportandola ad un contesto ideologico, di derivazione marxiana, unitario ed organico.
Per Bonfiglioli «il problema arte-vita è connaturato con la cultura della società borghese capitalistica e non è distinguibile dalla condizione di separatezza (divisione del lavoro) in cui tale società colloca l’arte, come finzione teorica di un’unità smentita dalla pratica. Secondo questo autore il superamento della separatezza dell’arte non può conseguirsi con una conciliazione dei termini separati (arte e vita), ma deve passare attraverso il ribaltamento reciproco dei due interi contraddittori, cioè, nell’attuale società divisa in classi, è necessario che l’arte si capovolga in prassi.
Ove questo principio dialettico non fosse chiaro, il problema dell’unità rischierebbe di arrestarsi a quello… conciliatoristico e coesistenziale dell’unificazione… Il fatto è che l’unità di arte e vita non può essere proposto in modo teorico, se non per via negativa. Positivamente, essa può consistere soltanto in un atto rivoluzionario, politico, che spezzi il confine della separatezza: allora soltanto l’arte potrà identificarsi con la vita stessa, senza che questa si neghi come vita estetica.
Il che significa che l’arte povera dovrà passare in qualche modo attraverso la guerra povera per diventare vita. Bonfiglioli, dopo aver avanzato il sospetto che l’arte povera proponga l’unità di teoria e prassi come la prerogativa quasi naturale di un esserci antropologico, osserva che il tentativo è comunque interessante in virtù di quella negazione del presente, di quella richiesta di futuro, di cui può farsi portatore — Marcuse insegna — un atteggiamento critico di regressione».
L’intervento di Boarini, che si affianca strettamente a quello di Bonfiglioli, presenta una più distesa riflessione sul tema del primario, accennando ad una prima ma sistematica ricognizione delle diverse forme in cui esso si presenta nell’attuale situazione culturale. «A me pare — egli afferma — che sostanzialmente l’esperienza dell’arte povera non sia che un aspetto di quella ricerca del primario che viene proposta da molte parti, anche come direttrice di indagine di varie scienze sociali e in particolare della antropologia culturale… Anche la ricerca che sta all’origine dell’arte povera sembra quindi riconducibile a una concezione del primario, e cioè all’illusione — estremamente sintomatica — di poter ricostruire l’unità dell’uomo al di fuori delle strutture sociali che ne perpetuano l’alienazione da se stesso e dai suoi prodotti».
Alla proposta dell’arte povera si riconosce il merito di aver puntato, attraverso il tema del primario, sull’unità di arte e vita, ma la ricerca del primario acquisterebbe maggior valore se fosse intesa «come ricerca archeologica del represso… e come potenziamento della sensibilità. Non v’è dubbio che anche quest’ultima concezione del primario è riduttiva, tuttavia consente un’apertura dialettica, in quanto porta a rovesciare dialetticamente l’attività teorica separata in una pratica separata.
Il permanere della separatezza non può consentire la ricostituzione dell’unità, ma l’essere separatezza pratica e non più teorica, mantiene una tensione dialettica verso l’unità che non può essere sottovalutata».
Per Del Guercio la proposta di deculturazione dell’immagine avanzata da Celant (ché di questo si tratterebbe, più che di recupero del primario), oltre a non essere riscontrabile nelle opere esposte, cade nell’illusione che sia possibile stabilire un rapporto diretto tra arte e vita, eliminando appunto le mediazioni culturali.
Tale atteggiamento ricorrente ciclicamente nell’esperienza dell’arte contemporanea è anch’esso una tipica mediazione culturale. «Questa contraddizione, comunque si manifesti, appare organica all’assunto di risolvere una volta per sempre (oppure adesso per il futuro — idealisticamente prefigurato — della società) il problema dell’unità arte-vita». All’ipotesi di immagini minimali Del Guercio oppone quella di «immagini massimali».
«Tra le caratteristiche decisive del mondo nel quale viviamo, oltre alla separatezza oggettivamente data, c’è anche l’estrema insopportabilità della separatezza stessa e la lotta pratica per porvi fine; oltre alla ricchezza del sistema (e quindi al suo storicismo giustificazionista) c’è la ricchezza dei fattori storici che accumulano le ragioni rivoluzionarie: a questa luce, ogni programma minimale si pone in ultima analisi come rassegnata accettazione di un saccheggio che ogni giorno viene perpetrato sotto i nostri occhi… Se saccheggio deve essere, sia un altro saccheggio: l’annessione critica dei ricchi patrimoni specialistici (originati dalla separatezza, ma sfociati in una serie di specificità insostituibili) accumulati durante il lungo regno delle società proprietarie.
Il cui transito è un processo articolato, che si compie anche al particolare livello della specificità artistica». Più radicale nella sua posizione di dissenso è l’intervento di Arcangeli, il quale ridimensiona molti temi basilari di ogni «programmata rivoluzione degli intellettuali» e l’idea stessa di una società affrancata da ogni forma di repressione, in cui arte e vita celebrino la loro finale conciliazione.
«Sono tuttora convinto che l’uomo, se vorrà veramente convivere in un mondo di democrazia così terribilmente inflazionata, dovrà pure stabilire una percentuale variabile, a seconda dei luoghi e dei tempi, di «autorepressione»… Le forme attuali che vanno dal living theatre all’environment, dall’happening alle ibridazioni (già acutamente indicate da Renato Barilli) dell’“arte povera” di Celant testimoniano un’ansia, un’illusione, una vivacità di ingegno innegabili.
Ma, partendo da quel debordamento rispetto agli antichi limiti che ha avuto nel new dada americano il catalizzatore più potente ed attivo per la sorte del nostro decennio di arte visuale, mi par di constatare che tutte queste forme segnano, a livello più o meno alto, una confusione tra arte e vita da richiamare direttamente, queste sì, il vitalismo estetico di D’Annunzio, o, se si vuole, di Wagner (quale globalità più “environmentista” del “Wort-Ton-Drama” wagneriano?)».
Accennando all’importanza dei «quadri» di Pollock, Arcangeli afferma che questi «modificò la vita per quel tanto che l’arte, finché vivrà, potrà modificarla: come azione indiretta cioè… Perché l’arte ancora confessa e promuove la condizione umana; anche se ci illude di un’azione diretta, di una impassibilità operativa, di un libero intervento nei contesti tecnologici… Ma finché si spara a canna continua… contro la «separatezza» senza approfondire il problema della specificità dell’arte, tutto e niente è possibile per l’artista… Io resto, da reazionario, ancora per l’insopprimibile rivolta contro la programmata rivoluzione; ma per la rivolta anzitutto delle nostre menti, per un interno rovesciamento della praxis che alluda almeno, che tenda, al recupero di qualche lontano germe d’un perduto equilibrio. Perché, quando il mondo si capovolge, non avvertirne angoscia mi pare il segno più profondo della malattia».
Non riporteremo gli altri interventi al dibattito, alcuni dei quali di indubbio valore, perché nell’economia del presente articolo quelli già citati giustificano largamente le considerazioni che intendiamo svolgere.
Dobbiamo dire anzitutto che le motivazioni che sono al fondo dell’arte povera prima e dell’azione povera poi ci appaiono largamente condividibili; d’altra parte esse si ritrovano al fondo di molti episodi ed esperienze della cultura contemporanea.
Tali motivazioni, più evidenti nel testo conclusivo del dibattito, che tiene in parte conto delle obiezioni al recupero del primario mosse da Bonfiglioli e Boarini, si identificano sostanzialmente con la coscienza del limite d’intervento dell’artista nell’attuale società e nel desiderio di trovare nuovi modi di azione che sottraggono l’arte all’utilizzazione da parte del sistema o — aggiungeremmo — all’indifferenza.
La coscienza del limite costituisce un tratto dominante dell’arte di oggi, da quando essa ha rinunciato a porsi come essenza o rivelazione del tutto. Ma che da questa coscienza, oltre a generarsi uno stato di inquieta tensione, derivi poi la necessità per l’arte di un superamento del limite, onde trasformarsi in azione politica o attuare in un prossimo futuro la sua effettiva e compiuta universalità, nell’identificazione finale con la stessa vita, è affermazione che riposa o sull’interpretazione provvidenziale della dialettica (più hegeliana che marxiana) o può essere considerata quale espressione di una volontà d’azione, e come tale va giudicata per la sua intenzionalità pragmatica, se non esclusivamente per gli effetti che produce.
Il programma dell’azione povera, che vuole sostituire alle opere un intervento diverso dell’artista nella realtà, con «fatti e azioni» — si pensi ad un happening politicizzato o al «teatro d’intervento» —, non proietta nel futuro l’identificazione di arte e vita, ma la riporta sul terreno del presente.
Avendo però escluso in partenza che il problema possa porsi nei termini di una scelta tra arte e azione politica, si proclama la felice conversione dell’arte in azione politica; ma intanto si continua a fare arte, dando vita a manifestazioni che hanno fin troppo chiaramente i connotati dell’artisticità e che si collocano anzi, come ha osservato Arcangeli, sotto il segno dell’estetismo.
Infatti, se alcune opere riunite sotto l’etichetta dell’arte povera erano niente altro che elementari esercitazioni formalistiche, certe «occasioni recitative», fornite recentemente ad Amalfi, più che interventi eversivi nel contesto socio-politico, sono classificabili tra i tentativi di allargare il campo d’azione dell’arte, di coinvolgere, nell’evento artistico una fetta più larga della realtà.
Il punto di partenza è sì quello di negare la separatezza dell’arte, ma le caratteristiche con cui viene pensato e attuato l’intervento nella «processualità in corso» sono tipicamente estetiche; anzi è la vita stessa, la totalità del contesto sociale che vengono preliminarmente riportati sub specie artis e assimilati al teatro. «La vita diventa un continuo tableau vivant — scrive Celant — il contesto quotidiano s’è trasformato in scena… l’unica possibilità di vita sembra risultare il teatro».
Intanto quella identificazione è possibile, in quanto già prima la realtà è stata ridotta, come s’è detto, ad esteticità; così, a ben vedere, non è l’arte a sacrificare le proprie ragioni, ma la vita o, diciamo meglio, l’azione politica. Sicché davvero le situazioni estreme e le tendenze eversive appaiono, nel quadro complessivo dell’ideologia all’azione povera, mediate, svuotate e l’idea stessa di rivoluzione risulta, per così dire, esorcizzata. In conclusione, non si tratta dell’arte che nega se stessa o si libera della sua separatezza, bensì dell’arte che pretende di ridurre a suo modo l’intera realtà; che è appunto il vizio fondamentale dell’estetismo, di ieri e di oggi.
Quando si accusa la «cultura» di mediare gli estremi, di neutralizzare ogni situazione eversiva, adattandola al sistema, non si tien conto abbastanza del fatto che proprio l’operazione con la quale si pretende di dissolvere l’arte nella vita, trasformando l’attività artistica in azione, è un’operazione mediatrice, poiché né si rovescia veramente l’arte in prassi rivoluzionaria, né si scarta la prima per la seconda, ma si tenta di fare qualcosa che sia insieme arte e rivoluzione, sovrapponendo alla realtà di una società divisa e di un’arte separata la pretesa conciliazione di arte e vita.
Col passaggio dall’arte povera all’azione povera si finisce nelle secche dell’estetismo e, nell’illusione di sottrarre l’arte (col rifiuto del prodotto finito) all’utilizzazione da parte del sistema, le si conferiscono le caratteristiche più superficiali ed alienanti dello spettacolo e delle tecniche pubblicitarie, disponendola, così, di fatto ad una mercificazione ancor più radicale di quella cui andavano incontro le opere dell’arte povera; la quale aveva almeno il merito, come s’è visto, di insistere sul problema del primario, inteso come proposta di recupero di una condizione originaria dell’uomo, repressa dalle società organizzate sul principio di prestazione e sul dominio dell’uomo e della natura.
Una proposta desunta dalla tesi marcusiana (a sua volta largamente tributaria del pensiero schilleriano) che nell’arte si manifesti la memoria di un’unità originaria, precedente alla separazione di fantasia e ragione, di natura e spirito e che, quindi, l’arte, per quanto essa stessa prodotto della divisione operata dal principio di realtà, si apparta sì, ma custodisce in sé, come memoria e progetto, l’aspirazione dell’unità.
Ammessa questa dimensione mitica del primario nell’arte, resta da chiedersi se essa sia capace di sottrarre l’arte dalla sua condizione storica di separatezza. Bonfìglioli e Boarini sembrano, a ragione, non crederlo, attribuendo all’idea del primario solo una funzione critica per così dire, di disturbo del sistema, ma incapace di ricostituire, fuori del capovolgimento della teoria in prassi rivoluzionaria, l’unità di arte e vita.
Ma a noi pare, che al di qua dell’alternativa di fondo (costituita dalla prassi rivoluzionaria, la quale non può certo valersi degli incerti surrogati dell’azione povera, ma dovrebbe semmai passare, per quel che riguarda direttamente gli artisti, attraverso un momento organizzativo — dentro o fuori i partiti tradizionali non importa che dire — rivolto ad incidere in qualche modo sull’attuale struttura del potere), all’arte sia dato di svolgere, pur nell’ambito della sua cosiddetta separatezza teorica, un ruolo che va ben oltre quello di «regressione critica» proposto attraverso il recupero del primario.
Non si tratta però di capovolgere, con un’operazione più verbale che effettiva, la teoreticità dell’arte in prassi, bensì di sviluppare al massimo le possibilità inerenti alla sua teoreticità, come è stato del resto più volte indicato nel corso dello stesso dibattito. Ciò non vuol dire neppure ribaltare d’un colpo il mito della libertà originaria, repressa e contestata dall’attuale società, nell’utopia di un futuro felice, nel quale si celebri non pure la conciliazione dell’intera umanità ma di questa con la natura, riprendendo il sogno che fu già dell’avanguardia storica.
Si tratta, rimanendo sul terreno del presente — un presente che si riconosce nel suo spessore storico e perciò non riducibile all’immediatezza di una situazione esistenziale — di compiere anzitutto una più soddisfacente ricognizione dei rapporti che legano, o possono legare, l’arte alla vita.
D’altra parte, va detto che il problema arte-vita, per l’estrema complessità dei suoi momenti, è di quelli che non possono essere affrontati in un contesto di discorso eccessivamente indeterminato, quale è quasi sempre e non senza ragione quello della critica; e neppure può essere ricondotto direttamente ad una definizione filosofica dei due termini.
I presupposti concettuali e le implicazioni di vario genere che la formulazione stessa di quel problema comporta avrebbero richiesto, da parte nostra, un lavoro di «esplicitazioni» inopportuno in questa sede eppure necessario, quando si voglia ritornare sulla questione, per evitare non solo le confusioni terminologiche e le soluzioni puramente verbalistiche, ma anche il sovrapporsi di piani diversi di discorso e di indagine.
Ci pare, infatti, che il problema potrà essere affrontato correttamente solo se riportato nell’ambito di particolari ipotesi di interpretazione del fenomeno artistico, nel senso che solo attraverso di queste si potrà tentare di cogliere e diramare in prima approssimazione la complessità reale del problema.
tratto dal numero 14