Editoriale

«Op cit» compie cinquant’anni, una sorta di record date le condizioni difficili della pubblicistica sull’arte, l’architettura e il design; ai fini di ricordare e di continuare possibilmente il percorso del periodico, è utile riprendere alcuni punti dell’editoriale che scrivemmo nel primo numero uscito nel settembre del 1964. In esso si leggeva:
«Il programma di questa rivista è di offrire una selezione della critica d’arte figurativa contemporanea. Intendiamo per selezione non una scelta esaustiva di tutto quanto si pubblica intorno alle arti visive – cómpito per il quale non siamo sufficientemente attrezzati – ma una esposizione dell’attività critica, soprattutto metodologica, ottenuta mediante l’esame di alcuni temi di maggiore interesse attuale.

Ogni tema verrà svolto come una composizione di parti selezionate da saggi di estetica, di critica, di poetiche che, citate testualmente (donde il titolo del periodico), verranno unificate in un discorso e corredate del maggior numero di annotazioni e indicazioni bibliografiche. Riteniamo con questa formula di fornire uno strumento utilizzabile sia in senso divulgativo, sia al livello della ricerca specialistica.
Ma la selezione operata attraverso un certo numero di temi non risolve soltanto una difficoltà tecnica, qual è quella di limitare l’intera produzione critica entro pochi argomenti; oltre a ciò, l’elaborazione di ciascun tema, già scelto per un suo peculiare carattere, consente una esposizione che, per quanto composita, referenziale e informativa, non può, a sua volta, non essere critica.
[…] Per definire in senso unitario le diverse posizioni ideologiche di quanti finora hanno collaborato a questa iniziativa e di quelli che invitiamo a parteciparvi, possiamo affermare senza ignorarne l’indeterminazione – che la nostra visuale, sicuramente antiaccademica, tende ad essere il più possibile inclusiva; non nel senso di una totale e neutrale accettazione, ma in quello di ritenere tutto considerabile e discutibile.
[…] Qualcosa va detto sulla cittadinanza napoletana della rivista, argomento a noi sgradito e sul quale eviteremo di tornare in quanto, a torto o a ragione, esso implica il concetto o preconcetto di «diverso», che decisamente respingiamo. Tuttavia non confondiamo le nostre aspirazioni con i reali disagi del nostro ambiente; tenteremo soltanto di trarre dalle nostre difficoltà qualche vantaggio: le condizioni per una più calma riflessione, ad esempio, o l’indipendenza dai gruppi di potere, fattori evidentemente favorevoli allo svolgimento del nostro programma, confidando per il resto nell’accorciamento delle distanze.
In sostanza, accantonando le glorie tradizionali unitamente alle attuali carenze, tendiamo a proporre la nostra opera per quella che vale come contributo di persone».
Rileggendo oggi questo iniziale programma va sottolineato che, quasi paradossalmente, nulla è cambiato: la veste grafica è la stessa; così come la «povertà» dell’operazione economica; la puntualità nelle date di uscita; il carattere sintetico e riduttivo nelle argomentazioni, ecc.
Rispetto a queste caratteristiche costanti di «forma», i contenuti tematici e critici sono stati tra i più vari e spesso inediti: siamo stati tra i primi in Italia ad occuparci di semiologia architettonica e di design; ad associare queste discipline al fenomeno dei mass media; a proporre una politica ispirata alla«riduzione» culturale; ad avvicinare storicismo a strutturalismo; a raccogliere il pensiero della «critica discorde»; ad indicare i principi-base, i Grundbegriffe, delle tre arti sopra citate; a presentare i vari «ismi» che venivano intanto producendosi; a rivedere quelli che già alimentavano il dibattito critico, comunque sempre distinguendo le teorie e poetiche che avevano un senso da quelle legate alle effimere mode.
Ma, al di là delle poche costanti di forma e alle molte variabili di contenuti, continua a meravigliare noi stessi la costanza della principale caratteristica di «Op. cit.»: una rivista d’arte visiva composta solo di testi scritti e quasi senza alcuna immagine – «riducendo» così ogni argomento da immagine a concetto; come non pensare, si parva licet, alla «storia dell’arte senza nomi» di cui parlava Wölfflin? E come non riconoscere, ad esempio, che l’«ismo» passeggero dell’arte concettuale si è trasformato nelle nostre pagine in una costante critica concettuale?
Quanto alle previsioni attuate si pongono le alternative, o eravamo dei giovani dotati di straordinario senso nell’azione del tempo – cosa che escludiamo per realistico buon senso – ovvero baciati da un colpo di fortuna per non usare un’espressione più colorita.
Per la sua maggiore diffusione, dal gennaio 2015, «Op. cit.» figurerà anche on line con le stesse caratteristiche persino grafiche delle precedenti edizioni in cartaceo.
In particolare, il presente fascicolo 151, che segna l’anniversario della pubblicazione, contiene una scelta dei saggi ritenuti migliori apparsi nell’arco dei passati cinquant’anni. Non potevamo pubblicare per intero questa «raccolta dei selezionati», sarebbe stato necessario un libro e non un normale numero del periodico. Ci siamo limitati così a pubblicare solo la prima pagina di ciascuno dei vecchi articoli che, marcato da un segno grafico speciale, rimanderà al completamento, ritrovabile in internet, del saggio corrispondente al citato segno.
RENATO DE FUSCO