Per un’architettura normale

PASQUALE BELFIORE
L’editoriale di Francesco Dal Co sul n. 764 di «Casabella» (marzo 2008) dal titolo Architettura normale in un Paese normale merita d’essere ripreso, sia per la rilevanza critica degli argomenti trattati, sia per i tanti motivi di concordanza con le tesi espresse ma anche per i pochi ma importanti punti sui quali le perplessità sembrano motivate. D’obbligo tuttavia un preliminare e sintetico ragguaglio sul contenuto dell’articolo.

Gli argomenti affrontati sono molti ma in pratica riconducibili a cinque ordini di problemi: la crisi degli Uffici Tecnici periferici e centrali dell’amministrazione pubblica che nel passato hanno realizzato la spina dorsale delle infrastrutture e dei servizi del Paese (Quest’opera di smantellamento, intrapresa per miopia politica e insipienza amministrativa, era apparentemente giustificata dall’intento strumentalmente condiviso di favorire la liberalizzazione dei mercati e la crescita delle capacità imprenditoriali);
il ruolo di tangentopoli nella riscrittura delle leggi e delle procedure regolanti appalti e concorsi che restano comunque farraginose e non trasparenti (Nell’Amministrazione pubblica italiana si sono diffuse procedure che consentono di surrogare l’assunzione di responsabilità con l’interpretazione della norma);
il rapporto dell’architettura con il mondo dell’informazione e il fenomeno delle “archistar” (i media italiani si occupano di architettura unicamente quando dal mondo dell’architettura o da quanto intorno ad esso accade giungono “notizie” assimilabili ai generi “spettacolo” e “scandalo” di cui sono soliti occuparsi. Degli architetti ci si interessa quasi unicamente quando è possibile parlarne alla stregua di una stella del cinema o di un celebre cantante);
la condizione professionale arretrata e disagiata nella quale operano gli architetti italiani (Gli studi sono piccoli, scarsamente attrezzati, per lo più inadeguati ad affrontare la competizione con le formazioni professionali straniere);
la necessità d’una architettura “normale” ( In questo fascicolo di «Casabella» presentiamo alcune opere “normali”, costruite per “normali” committenti, evitando di occuparci di progetti “spettacolari” o “scandalosi”).
Argomenti, come appare evidente, in parte non consueti sulle pagine di una rivista come «Casabella», ospitati peraltro in un editoriale e dunque con una spiccata valenza politico- culturale. Se si aggiunge che tutti i progetti presentati e la rubrica libri & riviste insistono in vario modo sullo stesso problema, questo fascicolo finisce per divenire quasi monografico sul tema dell’architettura “normale”.
Anzi, si ha la sensazione che voglia essere qualcosa di più della semplice riflessione critica su un tema di comune interesse, che abbia ambizioni di natura più programmatica, che sia un manifesto contro l’architettura “spettacolare e scandalosa”, ancor prima che un manifesto a favore d’una architettura “normale”.
Totalmente d’accordo con la tesi centrale di «Casabella», ma ad alcune condizioni. Di queste, ancora dello scritto di Dal Co e di altre questioni collaterali si discuterà qui di seguito nei tre paragrafi che seguono, titolati con alcune parole-chiave dell’editoriale. “Architettura normale” si chiama sia l’articolo che il primo paragrafo perché è l’argomento centrale proposto dalla rivista e qui ripreso.
Per un’architettura normale
Chiunque abbia idee non stravaganti sull’architettura, non può che sottoscrivere questo appello, non può che convenire sulla necessità che si imponga una pratica “normale” del mestiere dell’architetto.
Che però è cosa diversa dalla prospettiva d’un regime della normalità basato su opere normali, costruite per normali committenti in un Paese normale. All’interno di questa triade della normalità, infatti, nel mentre è possibile individuare committenti normali e Paesi normali, più arduo risulta designare come “opere normali” architetture che per loro intrinseca natura hanno sempre e comunque qualcosa di “eccezionale” legato non solo alla ineliminabile componente artistica del fare architettonico ma anche agli infiniti altri fattori che si associano alla progettazione e realizzazione di un’opera.
Sono cose fin troppo ovvie per dilungarsi ancora e Dal Co le conosce più e meglio di tanti altri.
La normalità qui invocata, dunque, va ricercata in un’altra direzione, in quella che emerge dal complesso dei nove progetti pubblicati in questo fascicolo: due edifici ‘storici’ di Oscar Niemeyer-Riccardo Morandi (Sede della FATA a Pianezza-Torino del 1976-79 commentata da Marzia Marandola) e Franco Albini (Villa Pestarini a Milano del 1937-38,1949 commentata da Federico Bucci) e sette progetti contemporanei di David Chipperfield (Ampliamento al Cimitero di San Michele in Isola a Venezia, Daniele Pisani), Paolo Zermani (Chiesa di San Giovanni a Perugia, Federico Bucci), Diener & Diener (Edificio commerciale a Ferrara, Giovanna Crespi), Gabriella e Massimo Carmassi (Scuola materna ad Arcore, Enrico Molteni), Alberto Campo Baeza (Asilo a Ponzano Veneto, Nicola Braghieri), Andrea Milani (Nuovo porto turistico a Rosignano Marittimo, Marco Mulazzani), Richard Meier (Residenze al Lido di Jesolo, Enrico Molteni).
La selezione proposta contiene edifici tutti di buona-ottima qualità compositiva e figurativa, con la sola, sorprendente eccezione di Albini. La Villa è la prima opera individuale costruita dopo gli allestimenti e progetti in collaborazione, ma non convince del tutto. Giuseppe Pagano ne era entusiasta ma Giò Ponti ne scrisse, più giustamente, in modo severo.
Di natura diversa la sorpresa che viene da Niemeyer che appena tre anni dopo la classica compostezza di Segrate-Mondadori (1968-75) si prende la libertà di irridere alla firmitas e alla tettonica con piedritti che si interrompono prima di toccare terra e lo possono fare per il talento e l’acribia strutturale di Morandi. Conferme, rassicuranti conferme, vengono invece dai sette autori contemporanei per i quali tutta la gamma dei sinonimi di classico-razionale può ben rappresentare il versante linguistico dei progetti. Opere normali di architettura? Non si direbbe.
La mano leggera di Chipperfield sa andare verso la levità dell’architettura veneziana, Zermani sa cogliere come pochi altri il senso e i caratteri dei luoghi, i Carmassi, qui come altrove, costruiscono “sulla base di principi e non di effetti”, il recinto circolare e le forme primarie di Campo Baeza sono pervase da un’aura “non appariscente”, Milani lavora egregiamente tra radicamenti al suolo e volumi aerei, Meier infine, senza l’impaccio di luoghi e temi ammonitori, ritrova a Jesolo la sua vena migliore.
Tratto comune a tutte le opere presentate è l’assenza di forme spettacolari, di particolari bizzarri, di materiali cromaticamente chiassosi, di drammatizzazione dell’immagine, dell’esasperazione della dissonanza con il contesto, ma anche di ardite interpretazioni del rapporto forma-funzione.
Insomma, ciò che accomuna queste opere normali sembra essere la loro impronta classico-razionale, anche in quelle poche espressioni che declinano al limite questo linguaggio (ed è il caso di Niemeyer) o rinunziano alla dittatura dell’angolo retto (ed è il caso di Diener & Diener). Questo per le opere.
Quanto ai loro autori, tratto comune è il profilo professionale lontano da comportamenti da archistar, l’uso parsimonioso dei mezzi di comunicazione e di iniziative di autopromozione.
La rassegna che si apre con Niemeyer e si chiude con Albini ci dice in modo inequivocabile quale sia il concetto di opera normale di architettura presso «Casabella». Nessun esempio invece viene fornito per quelle opere definite spettacolari e scandalose.
Occorre andare alla rubrica libri & riviste e alla recensione di Maurizio Gargano dell’ultimo saggio di Benevolo, L’architettura del nuovo millennio, per intuire in quale direzione queste ultime opere vadano ricercate.
Naturalmente, tra Dal Co, Gargano e l’antologia dei progetti non v’è alcun riferimento dichiarato, nessun rimando, ma la relazione, la concordanza critica c’è e va segnalata perché tout se tien tra editoriale, selezione delle opere e contenuto del testo recensito.
Leonardo Benevolo infatti, non è autore estraneo al senso e alla direzione di quanto finora detto. Anzi, a partire dalla sua Storia del 1960 è diventato l’esponente più autorevole di una storiografia del Movimento Moderno che si potrebbe definire “normale”, a fronte di quella epica e fortemente orientata che era stata proposta nel 1950 da Bruno Zevi o di quella ideologica di Manfredo Tafuri o ancora di quella semiotico-strutturale di Renato De Fusco, che sarebbero poi uscite nel decennio successivo.
In più di mezzo secolo di militanza storiografica Benevolo non ha mai derogato da questo suo riconoscibile stile di scrittura né ha mai abbandonato quella che Gargano chiama la sua “filosofia architettonica”, una costanza di pensiero che lo ha reso per certi versi prevedibile nelle posizioni che avrebbe preso sui temi e sugli accadimenti della più flagrante contemporaneità.
Non meraviglia dunque che in quest’ultimo saggio non siano citati i rappresentanti più noti dell’architettura digitale, che non si parli di ciberspazio e che invece si ritrovino (è Gargano che cita Benevolo) pungenti osservazioni critiche che non risparmiano alcune “archistar”, “colpevoli” di aver appunto raggiunto una “gloria mediatica” internazionale spesso a scapito delle ragioni “dell’intelligenza dei luoghi” o della “tradizione moderna dell’architettura europea”.
Le pungenti osservazioni sono tra l’altro riservate a Frank O.Gehry per il quale conta “la meraviglia per le forme inconsuete”, a Rem Koolhaas, a Santiago Calatrava che accanto a indubbie capacità mostra “la megalomania, la preferenza per gli effetti vistosi, l’eclettismo strutturale”, a Zaha Hadid, con un supplemento di leggera perfidia perché, sebbene il suo lavoro sia per ora confinato nel “mondo dell’intrattenimento… dalla sua intraprendenza potrebbero arrivare risultati nuovi”.
Di converso, i “grandi” architetti europei sono distinti in due categorie. Da un lato, gli “eredi della tradizione moderna” con Gregotti, De Carlo, Moneo, Siza, Souto de Moura; dall’altro, gli “innovatori dell’architettura europea” con Foster, Rogers, Piano, Nouvel cui Benevolo attribuisce “il gusto dell’invenzione pura” partendo “da un forte interesse tecnologico”; dall’altro ancora, infine, un gruppo di “apprendisti pazienti” che potranno diventare i protagonisti del futuro, gli olandesi prima di tutti gli altri.
In pratica e in sintesi, sulla questione progetti “normali” vs progetti “spettacolari/scandalosi”, Benevolo è stato totalmente esplicito laddove Dal Co è stato chiaro nei contenuti ma garbatamente omissivo nei dettagli.
Vi sono informazioni e ragione sufficienti a questo punto per trarre la conclusione che per «Casabella», se non proprio “scandalosi”, di certo “spettacolari” sono i progetti dei Gehry, Hadid, Koolhaas, Calatrava e altre “archistar” che occupano la scena internazionale dell’architettura; all’opposto, sono sicuramente “normali” (tra gli infiniti altri) i progetti di Neimeyer, Albini, Chipperfield, Zermani, Diener & Diener, Carmassi, Campo Baeza, Milani e Meier, nonché, con discrete/buone probabilità di appartenere a questa categoria, i progetti di Gregotti, De Carlo, Moneo, Siza, Souto de Moura, Foster, Rogers, Piano, Nouvel. D’accordo con questa tesi, ripetiamo, ma con alcune doverose condizioni.
Intanto, sotto le insegne dell’architettura “normale” non si deve configurare alcunché di linguistico o di figurativo, una sorta di ennesimo quanto improbabile ismo figurativo – peraltro linguisticamente scorrevole: “normalismo”, tanto per continuare con il paradosso – da aggiungere ai numerosi altri che compongono il panorama della contemporaneità architettonica.
In secondo luogo, la legittima richiesta d’una architettura “normale” non deve essere una conventio ad excludendum che lasci fuori, bandisca dal novero della rappresentatività i progetti e le proposte che, per dirla con l’antico lessico zeviano, siano basati sulla deroga più che sulla norma, sul codice anticlassico.
Ancora: che non discrimini le opere “spettacolari e scandalose”, se questi due termini fanno riferimento al versante della sperimentazione seria e motivata sull’immagine dell’architettura e non a prodotti aventi il solo obiettivo di cogliere con malizia e con immeritato profitto una tendenza alla moda; che non discrimini neppure quelli che Benevolo chiama “gli scopritori impazienti” di nuove risorse tecniche, morfologiche e teoriche, “che hanno avuto successo prima di imparare a utilizzarle correttamente”.
Infine, l’appello per una architettura “normale” va accolto perché l’aggettivo sembra possedere qualcosa di eticamente pregnante, legato com’è a una ricerca paziente per trovare la soluzione più adatta, adeguata, normale appunto, riferita a un lavoro, a un impegno per gli altri, a un tempo nel quale le “archistar” si chiamavano maestri.
La lunga notte dell’architettura italiana
Nel paragrafo precedente è stato trattato uno solo dei cinque problemi che abbiamo individuato nell’editoriale di Dal Co. Gli altri quattro problemi sinteticamente anticipati in premessa sono per certi versi ancora più importanti del primo sul piano politico e operativo perché toccano alcune situazioni di crisi del sistema che ruota intorno al mondo delle costruzioni.
Il progressivo aggravamento di queste situazioni ha determinato la lunga notte dell’architettura italiana le cui cause Dal Co individua e descrive con chiarezza.
«Impossibile lavorare in Italia!». « Com’è difficile costruire nel vostro Paese!». «Come fanno i vostri colleghi italiani a superare vincoli, lentezze, rinvii che ostacolano la strada a ogni appalto?». «Possibile che in Italia i concorsi producano soltanto ricorsi?».
Quante volte parlando con un architetto straniero abbiamo ascoltato esclamazioni e domande di questo genere. Eppure… sono numerosi gli architetti stranieri che lavorano in Italia… anche se rimane da dimostrare che ciò costituisca, anche dal punto di vista meramente quantitativo, una anomalia rispetto a quanto accade in altri Paesi.
Un grafico ospitato nell’editoriale fornisce con immediatezza la mappa, ovviamente non completa ma molto rappresentativa, della presenza degli architetti stranieri in Italia e della loro collocazione geografica. Cinquanta nomi in ordine alfabetico a partire da Francisco e Manuel Aires Mateus, Ando, Baldeweg, Bofil e fino a Siza, Soutinho, Souto de Mura, Tange, Un studio, West 8 dislocati su quarantuno città italiane ordinate per latitudine, da Udine, Riva del Garda, Treviso a Messina, Reggio, Palermo.
Limitarsi però a prendere in considerazione l’aspetto quantitativo della questione è fuorviante. Vi sono scelte politiche sbagliate fatte in passato (il decentramento amministrativo che ha frammentato il quadro normativo di riferimento, le deleghe a regioni e province non onorate per incapacità organizzativa), leggi attese e non promulgate (sulla regolamentazione di appalti e concorsi), leggi varate ma fallimentari negli esiti (la serie delle Merloni).
Una committenza dagli evidenti limiti culturali, operatori economici con scarsa propensione a valutare le implicazioni etiche delle proprie decisioni, un apparato burocratico deresponsabilizzato, un sistema di valutazione premiante per le “società di ingegneria”, per i fatturati più alti, per le sospette “competenze specifiche”, cioè opere analoghe a quella messa a gara, hanno determinato una situazione di crisi che non favorisce gli architetti in generale, li rende deboli nella competizione internazionale, penalizza i più giovani, inibisce la diffusione dei concorsi.
Nelle diverse nazioni europee il numero dei concorsi banditi è da 10 a 25 volte superiore a quello che si registra in Italia.
Dal Co fornisce alcuni dati ma il rapporto più completo su questi argomenti è contenuto in una ricerca CRESME, Il mercato della progettazione architettonica in Italia, curata da Lorenzo Bellicini, commissionata dal Consiglio Nazionale degli Architetti Italiani e pubblicata dalle edizione de Il Sole 24 ore nel gennaio del 2008.
Un riferimento a questo testo è importante perché esso rappresenta un’ affidabile “banca dati” del sistema progettazione-costruzione italiano e come tale fornisce le coordinate numeriche e statistico-comparative per ogni successiva riflessione di politica culturale per l’architettura, com’è quella condotta nell’editoriale di «Casabella».
In solo quattro dati sono racchiuse le ragioni strutturali della mancanza di competitività degli architetti italiani, del numero di architetti stranieri che vengono a lavorare in Italia, del livello medio-basso di reddito prodotto dalla professione dell’architetto: 360.000 occupati nelle attività degli studi di architettura, ingegneria e altri studi tecnici, secondi solo alla Germania; oltre 250.000 “imprese” operanti, due volte e mezzo la Spagna, il triplo della Germania e della Francia, quattro volte l’Inghilterra; 1,4 il rapporto occupati/impresa, il più basso, con la Grecia, dei 27 Paesi della Comunità Europea; 75,7 il rapporto fatturato/occupato espresso in migliaia di euro, all’ultimo posto dei maggiori paesi europei e prima solo di Grecia, Portogallo e dei Paesi dell’est europeo.
Eppure, il ciclo edilizio italiano ha avuto nell’ultimo decennio 1997-2007 una espansione che mai aveva avuto dal dopoguerra, neppure negli anni della ricostruzione. Tre miliardi di metri cubi realizzati è la dimensione numerica straordinaria del settore. In otto anni inoltre, dicono le statistiche, è stato compravenduto con operazioni di scambio e di intermediazione poco meno del 30% del patrimonio residenziale esistente, ma il tutto è avvenuto con una qualità complessiva molto bassa sia per le nuove costruzioni che per le procedure di compravendita.
Poca innovazione, poca eco-compatibilità, poca ingegnerizzazione dei processi, nessuna attenzione per i temi della gestione dell’immobile, del ciclo di vita dei componenti del prodotto edilizio, della manutenzione programmata, dei servizi integrati. Ma, al di là delle logiche economiche e gestionali, conclude il rapporto “il problema principale delle costruzioni italiane è quello di un salto di scala, un upgrading del livello di conoscenza tecnica che investe gli attori della filiera. E’ un problema di sapere”.
Dunque di formazione. Il tema è solo accennato in questo editoriale ma viene correttamente riposizionato in zona alta e centrale con l’iniziativa Insegnare architettura che «Casabella» ha preso a partire dal numero di maggio 2008. Ma per garantire il rinnovamento della professione non è neppure sufficiente una effettiva riforma del quadro istituzionale in cui viene esercitata.
Ancor prima che della professione, infatti, bisognerebbe occuparsi della formazione e della educazione universitaria che nel nostro Paese ha subito un degrado forse irreversibile. Impietosamente questo degrado è fotografato dalla crescita esponenziale del numero delle Facoltà dove viene impartito l’insegnamento dell’architettura (o affini), cui fa riscontro il decremento drammatico del numero degli studenti stranieri che le frequentano.
D’accordo, ancora una volta, ma il discorso sulla nuova Università e sulle Facoltà di Architettura uscite dalla riforma degli anni Novanta attende ancora una impostazione più “normale”, è il caso di dire, una riflessione che non appunti tutto il male possibile sul famigerato 3+2 o sulla proliferazione delle Università e delle Facoltà.
A parte il “caso” dei 130.000 architetti e dei 70.000 studenti di Architettura in Italia, per il resto il nostro rapporto popolazione residente attiva/laureati continua ad essere tra i più bassi in Europa. Certo, se si afferma il principio che l’aumento del numero di studenti e delle Facoltà comporti inevitabilmente un abbassamento della qualità della formazione, la diagnosi di Dal Co è giusta. Se tale principio invece va valutato caso per caso, la discussione è aperta.
Del resto, a voler dar credito alle classifiche di merito delle Facoltà di Architettura, molte di quelle di nuova istituzione sono ai primi posti mentre storiche Facoltà – ma non è il caso dello IUAV – sono relegate agli ultimi posti. In ogni caso, siamo tutti convinti che la fine della lunga notte dell’architettura italiana non potrà mai arrivare se permangono queste gravi difficoltà sul tema della formazione.
L’architetto, l’acrobata, il pagliaccio.
La conclusione dell’editoriale, icastica quanto amara, è affidata – forse per contrappunto – a un maestro che poco o nulla aveva in comune con la normalità, Le Corbusier. La riportiamo per intero e testualmente perché efficace nella scrittura e totalmente condivisibile nel contenuto.
Nel corso di una generazione la professione architettonica ha smesso di evolvere e di progredire, tra l’indifferenza della committenza e della pubblica opinione.
Per uscire da questa situazione le riforme legislative, normative e amministrative sono altrettanto necessarie di quelle che dovrebbero portare a un cambiamento del sistema di formazione e della mentalità condivise.
Se ciò non accadrà le necessità finiranno per prevalere sulla ragione, i compromessi scandiranno il passo delle decisioni come ora accade e le emergenze complici dei soprusi renderanno vana qualsiasi petizione in favore della normalità.
Sul terreno non resteranno che “spettacoli” e “scandali” e poiché, come sosteneva Le Corbusier, nella natura dell’architetto la vocazione dell’acrobata convive con quella del pagliaccio, soltanto chi saprà indossare il costume più sgargiante di Pierrot avrà una chance di lunga vita.
tratto dal numero 133