Architettura tra esperienze e aspettative

ROSA LOSITO
Che la storia abbia sempre a che vedere con il tempo, è un’affermazione ovvia. Ma ci è voluto molto tempo prima che fosse esplicitamente tematizzato qualcosa come il tempo storico.

Ne cercherei la scoperta nell’età dell’Illuminismo. Precedentemente troviamo articolazioni del corso storico secondo categorie mitiche o teologiche, che definiscono un inizio, una metà e una fine.
Le osservazioni sulla nascita di una coscienza temporale specificamente storica da parte di Reinhart Koselleck, storico tedesco docente ad Heidelberg e a Bielefeld dal 1973, e la sua definizione di tempo storico, nell’ambito, come vedremo, di una semantica concettuale, costituiscono lo spunto per alcune considerazioni di carattere analogo sulle possibilità metodologiche di lettura dell’architettura contemporanea.
Solo a partire dal XVIII secolo si comincia a indagare la storia in base a criteri immanenti alla storia stessa, per cui come ebbe a dire Kant: finora la storia si è modellata sulla cronologia; ora si tratta di far sì che la cronologia si modelli sulla storia. Questo [è] il programma dell’Illuminismo: ordinare il tempo storico in base a criteri che potessero venir derivati dalla conoscenza della storia stessa.
Con l’affermazione del concetto di «età moderna» – che sorge dal presente, [e] a sua volta indica un futuro ancora aperto – diversa da quelle precedenti, in quanto viene conosciuta non ex post, ma direttamente, nel suo farsi, e di una nuova categoria temporale, il «progresso» – che riconduce a un unico concetto la differenza tra il tempo finora passato e il futuro che deve ancora venire – legato alla volontà degli uomini e alla loro pianificazione, diventa necessario sviluppare metodi peculiari che consentano di riconoscere l’identità delle differenti dimensioni temporali.
La storia in quanto disciplina moderna sorge là dove la frattura della tradizione ha disgiunto qualitativamente passato e futuro. […] Da questo momento è possibile che la verità della storia si trasformi con il trasformarsi del tempo o, più esattamente, che la verità storica possa essere di volta
in volta superata.

Da questo momento è compito del metodo storico definire un punto di vista dal quale possono essere espressi giudizi. Da questo momento il testimone oculare non è più il testimone autentico di un avvenimento, ma deve viceversa essere interrogato in base alla prospettiva via via più avanzata in cui è immerso il passato.
Aspetti diversi del tempo storico sono gli «eventi», caratterizzati dalla successione di un prima e di un poi, e le «strutture» di lunga durata (intese soprattutto come forme istituzionali, forze produttive, sistemi politici o giuridici), la cui caratteristica temporale è la ripetizione.
Eventi e strutture hanno dunque, nel corso del movimento storico, diverse estensioni temporali, che devono essere indagate separatamente dalla scienza storica. Normalmente l’esposizione di strutture si avvicina di più alla descrizione, quella degli eventi alla narrazione. Ma sarebbe istituire false preferenze se si volesse fissare la storia all’uno o all’altro di questi modi di esposizione.
Nella ricerca di strumenti pertinenti l’indagine storica, Koselleck denuncia il superamento definitivo dell’alternativa tra «linearità» e «circolarità» per la classificazione dei tempi storici, nonché degli stessi concetti di «età moderna» e di «progresso», insufficiente, quest’ultimo, a spiegare le strutture che perdurano e si ripetono nel tempo.
L’esigenza di indagare la storia attraverso criteri che, sebbene di differente natura, attingano ad essa, rappresenta un problema tuttora irrisolto per l’architettura. In un campo dominato ormai dal progressivo ampliamento delle possibilità tecnologiche e dal sovrapporsi di interferenze burocratiche, politiche, sociali, il dibattito disciplinare e la sua storiografia hanno assunto un orientamento del tutto diverso da quello indicato dalla tradizione.
Già nel 1960 Benevolo avverte l’esigenza di un adeguamento dell’attività storiografica al proprio oggetto di studio: Quando si ragiona sull’architettura moderna, si deve tener conto ch’essa comporta non solo un nuovo repertorio di forme, ma un nuovo modo di pensare, di cui ancora non sono state calcolate tutte le conseguenze.
È probabile che le nostre abitudini mentali e la nostra terminologia siano più antiquate dell’oggetto di cui si parla. Sembra consigliabile, dunque, non sforzarsi di far rientrare l’argomento negli schemi metodologici correnti, ma cercare di adattare la metodologia all’argomento, e tentar di cogliere nel movimento moderno stesso le indicazioni storiografiche che virtualmente contiene. I rischi di questo tentativo sembrano compensati dalla probabilità di penetrare meglio il senso degli avvenimenti.
In realtà, tuttora accade molto raramente, in campo disciplinare, che la «metodologia si adatti all’argomento» in maniera analoga a come la cronologia avrebbe dovuto fare con la storia, o che i principi di «selezione» storiografica siano guidati prevalentemente dall’intento di «penetrare meglio il senso dell’evento architettonico». Troppi interessi sono coinvolti.
Il consumo di massa, estrema conseguenza del processo di industrializzazione e di evoluzione tecnologica, ha imposto la quantità architettonica come oggetto di studio, prima ancora della qualità.
Da una parte, l’intera problematica architettonica è stata ipostatizzata e relegata in un ambito elitario che ha prodotto il cosiddetto star-system, dall’altra è stata talmente banalizzata da determinare inevitabili effetti di omologazione e appiattimento fino alla più bieca speculazione.
Tutto ciò ha provocato una totale anarchia dei criteri di indagine della storia dell’architettura contemporanea, che è ancora, come ha sostenuto Carlo Olmo, alla fine di questo secolo, una storia di exempla e di testimonianze, una storia di architetture che si vorrebbero sottratte alla produzione di massa ed insieme si propongono come modelli da imitare.
La rapida diffusione e la riproducibilità di immagini tratte da modelli e a loro volta traducibili in altri modelli per diventare simboli consentono quella sovrapposizione dell’evento architettonico con le relative «strutture» che risulta irrealizzabile nel campo storico-storiografico. Infatti, sottolinea Koselleck, gli eventi non possono mai essere spiegati in misura sufficiente mediante le strutture che presuppongono, così come le strutture non possono essere illustrate soltanto attraverso gli eventi.
Tra i due livelli c’è un’aporia gnoseologica, cosicché non è mai possibile ricondurre l’uno all’altro. Tuttavia, anche in architettura, la dicotomia non è sintetizzabile, in quanto la struttura, intesa come codice linguistico, non esaurisce certo e soprattutto non identifica l’unicità dell’evento, del singolo manufatto.
E ancora, si potrebbe aggiungere: la tipologia, che propone una serie di caratteri invarianti – strutturali appunto – ricorrenti e deducibili dall’esperienza storica, non può cogliere l’individualità e la specificità della morfologia, intesa come successione di avvenimenti espressi in un concreto storico volta a volta definito.
Una critica che debba esprimersi su pratiche progettuali obbligate ad interagire prevalentemente con il mercato, il consumo, la serie, è certo meno legata di un tempo ad obblighi etico-ideologici imposti da orientamenti o tendenze, e, coinvolta maggiormente nel proprio ruolo massmediologico, oscilla tra atteggiamenti di coinvolgimento e denunzia, di contaminazione e disillusione.
La legittimazione di un’opera, nel corso del processo realizzativo a partire dalla fase di progetto, diventa spesso un’operazione pubblicitaria soggetta alle regole della comunicazione di massa e del mercato internazionale di diffusione delle immagini. Esempio eclatante di tale fenomeno è l’effetto di risonanza propagatosi intorno al museo Guggenheim di Gehry a Bilbao, che ha attirato turisti e “curiosi” nella città prima ancora di essere ultimato, a prescindere dai suoi stessi contenuti.
Dunque, l’impostazione della ricerca storiografica è un problema aperto e ben lontano dall’essere risolto. Il rapporto tra il progetto architettonico e la sua destinazione d’uso, quello tra la produzione dell’immagine e la sua fruizione, il valore economico del manufatto, determinato da altri fattori politici e sociali che ne sanciscono anche la «durata», il coinvolgimento di molte altre figure professionali che concorrono in anonimato alla paternità architettonica, sono alcuni tra i nodi storiografici che si ripresentano oggi in tutta la loro complessità.
In alternativa alla funzione «commerciale» che ha progressivamente assunto negli ultimi decenni, propagandando questo o quell’edificio, utilizzando prevalentemente criteri di legittimazione dei vari mercati, estranei alla disciplina, la critica dovrebbe concentrare la lettura dell’architettura sul suo specifico – lo spazio – pur considerando nel processo interpretativo le condizioni al contorno – le interferenze di varia natura, la presenza di personaggi minori ed «anonimi» rispetto ai primi attori – che contribuiscono alla realizzazione del prodotto architettonico.
La necessità di interdisciplinarietà, di uno scambio con le altre storiografie non implica tuttavia che quella dell’architettura diventi di volta in volta una storia parallela diversa, priva di una propria identità. In tal modo essa può essere giudicata per i suoi criteri di interpretazione e per la sua capacità di lettura della complessità delle diverse realtà architettoniche, e non in base al soggetto che l’ha determinata.
L’esigenza di un diretto rapporto tra metodologia storiografica e architettura ci riporta alla tesi di Koselleck, che indica come modalità di interpretazione del tempo storico e del suo sviluppo due «categorie antropologiche» e metastoriche – l’ambito di esperienza e l’orizzonte di aspettativa – osservando che non si compie nessuna azione storica che non sia fondata sull’esperienza e sull’aspettativa di chi agisce. In questa maniera viene proposta una coppia di categorie con cui viene posta una condizione fondamentale della storia possibile.
[…] Passato e futuro si intrecciano nella presenzialità di esperienza e di aspettativa, caratterizzate, tuttavia, da una dicotomia sostanziale analoga a quella che si instaura tra il ricordo e la speranza, tra la fissità di quanto è già avvenuto in passato e la superabilità di quanto presumibilmente ed eventualmente potrà accadere in futuro; ed è proprio tale differenza che impedisce il ripetersi sempre uguale del processo storico.
Incontrandosi nel presente, esperienza ed aspettativa determinano una soluzione di continuità: nell’esperienza si immagazzina il sapere storico, che non può essere trasposto nell’aspettativa senza una cesura.
Ma, se le due categorie elaborano, rispettivamente, le dimensioni temporali del passato e del futuro, intrecciandoli comunque da posizioni staticamente non riferibili l’una all’altra, e se, soprattutto, il loro unico punto di incontro rappresenta – nell’oggi – anche l’origine della loro differenza e del loro distacco, allora in quest’ottica il presente non ha una propria identità riconoscibile temporalmente e riveste di volta in volta un significato «gregario», di supporto, ora per il passato ora per il futuro.
Infatti, l’esperienza è il passato presente (Gegenwärtige Vergangeheit) di cui gli avvenimenti sono stati incorporati (einverleibt) e possono essere stati restituiti al ricordo. E, d’altra parte, l’attesa relativa al futuro è inclusa nel presente; è il futuro-reso-presente (Vergegenwärtigte Zukunft) rivolto verso il non-ancora.
Di fatto Koselleck riduce a due i tempi della storia a scapito del terzo, di quel tempo presente da cui guardiamo al passato con esperienza e al futuro con speranza. Scisso dallo spazio di esperienza e dall’orizzonte di attesa, il presente non solo è indecifrabile, ma appare privo di contenuto semantico.
Il confronto con la storia, nel suo duplice aspetto temporale «passato-futuro», rappresenta indubbiamente un carattere costante della cultura architettonica – ora combattuto e controverso, ora conciliante e condiscendente, quando addirittura non diventa un’operazione strumentale di collage di pezzi eterogenei – e, nello stesso tempo, ne costituisce una delle principali chiavi di lettura.
L’«uso» dell’esperienza storica esprime un giudizio e indica una posizione da parte dell’architetto che la individua come patrimonio da interpretare o come metodo per progettare.
È appena il caso di ricordare qui le oscillazioni ricorrenti nelle diverse posizioni assunte dai protagonisti dell’architettura moderna e contemporanea rispetto all’«ambito dell’esperienza», dalla rielaborazione formale del passato e dalla sublimazione degli «stili» dell’Art Nouveau, all’intenzione programmatica dei razionalisti e dei futuristi, in realtà non verificabile, di una frattura tra i codici tradizionali e quelli nuovi, fino alle ambiguità espressioniste tra suggestioni primordiali e romantiche e intenzioni utopistiche; dall’astoricismo dell’high-tech all’eclettismo revivalistico del post-modern.
Quel che ci interessa, invece, è puntare l’attenzione proprio sulla possibilità di compresenza – o, al contrario, di totale distacco – tra «esperienza» e «aspettativa» nella cultura architettonica.
Al riguardo, appare significativa la ricca e contraddittoria vicenda degli anni Cinquanta-Sessanta, quando in Europa si avvia la ricostruzione post-bellica attraverso lo sviluppo indiscriminato, nelle aree periferiche, di una produzione architettonica meramente quantitativa guidata dall’economia di profitto e si verificano i primi irreversibili danni contro interi ambienti urbani e paesistici.
Crollano, di fronte all’impossibilità di realizzarsi, i principi-base del «Movimento moderno», quali l’integrazione tra architettura e urbanistica, la zonizzazione, l’aspirazione a un criterio unitario di metodologia progettuale, la convinzione che da sola l’architettura avrebbe riformato radicalmente la società.
Nella dichiarata volontà di operare una frattura con il proprio tempo, la cultura architettonica più qualificata parte da quello che viene definito, appunto, come slogan del momento, «il presente contestato», per ispirarsi da un lato al recupero del passato, con il polemico intento di superare il presunto astoricismo o antistoricismo del Movimento moderno, dall’altro all’anticipazione del futuro, con ottimistica fiducia nelle nuove tecnologie.
Tale binomio [storia-utopia], ispirato alla paradossale coesistenza in uno stesso periodo di una spinta retrospettiva e di un’altra futuribile, non si tradusse in un codice unitario perché le esperienze architettoniche furono individuali, settoriali, mai istituzionalizzate né a livello sociale, né a quello dei manifesti e programmi dell’avanguardia storica, ed è pertanto stato definito da De Fusco codice virtuale.
Tuttavia, pur non concretizzandosi in un orientamento omogeneo per le ragioni suddette, l’intenzionalità legata all’utopia e la memoria, come elaborazione personale della storia, sono elementi compresenti in molti progetti di questi anni, in particolare, ad esempio, in quelli di Louis Kahn – forse l’unico architetto capace di incarnare entrambi gli atteggiamenti – dalla City Hall di Philadelphia ai Richards Laboratories in Pennsylvania, dai disegni per silos automobilistici sempre a Philadelphia all’Istituto Salk in California, fino al Parlamento di Dacca in Bangladesh.
Peraltro come la storia cui guardano gli architetti è sempre qualcosa da utilizzare per la progettualità, così l’utopia progettata ha sempre una sua tradizione storica. E siamo dunque nuovamente a quella dialettica koselleckiana che non conosce sintesi.
Cosicché, accanto al ritorno di moti e accenti tradizionali e regionali cari al cosiddetto New Empirism scandinavo, e all’interesse per la tradizione della storia dell’età moderna e per quella «del nuovo», riscontrabile nell’Englishness, ma anche nella cultura italiana neorealista e neoliberty degli stessi anni, in cui la componente storica prevale su quella utopica, l’avvento della produzione e della cultura di massa vedono svilupparsi una progettazione a livello intermedio tra architettura e urbanistica, espressione di una poetica della grande dimensione che, resa sotto forma di macrostruttura o town-design, privilegia il dato tecnologico, il richiamo a nuovi simboli e miti, la dimensione utopistica.
Questa, tuttavia, non esclude nemmeno qui quella storica, come dimostra un disegno di Arata Isozaki, collaboratore di Tange per il piano di Tokio progettato in sistemi «midollari», in cui alcuni midolli – pilotis giganti contenenti ascensori, condutture e impianti e sostenenti edifici da dieci a venti piani – sono sostituiti da imponenti colonne doriche.
La posizione estrema è quella del gruppo inglese Archigram che, ironizzando sulla contemporanea macchinolatria, nella ricerca di un’equivalenza tra i mezzi tecnici per l’architettura e per la conquista del cosmo, supera addirittura la linea utopica per porsi su quella fantascientifica.
Il progetto di Plug-in City disegnato da Peter Cook, nella previsione di una durata temporanea delle strutture abitative e dei servizi urbani, rievoca l’effimero del manifesto di Sant’Elia da una parte, e si inserisce nel consumismo della moderna produzione industriale dall’altra.
In questi progetti la fede nella scienza e nella tecnica prevale rispetto a quella nell’architettura, per cui, ad esempio, nella città spaziale o insediamento tridimensionale di Yona Friedman, concepita sulla base di architetture «mobili», idonee a seguire le trasformazioni strutturali della società, è chiaro che l’architetto sarà eliminato e che nell’urbanistica dell’avvenire egli non avrà più posto.
Il solo compito che gli resta attualmente è di sviluppare le tecniche interinali di costruzione, che serviranno da ponte fra le costruzioni classiche (che sono immobili, e che “lasciano delle tracce”) ed i sistemi del futuro, tendenti alle scienze astratte.
Il pericolo di certi atteggiamenti tecnolatrici e di una fiducia illimitata nelle potenzialità della tecnologia [che] va fianco a fianco con un grado sorprendente di insincerità circa il futuro dell’uomo, viene denunciato comunque già alla fine degli anni Sessanta da Claude Schnaidt che così critica gli esiti dell’avanguardia «alternativa»: visioni come queste blandiscono molti architetti: rinvigoriti da tanta tecnologia, da una simile fiducia nel futuro, essi si sentono rassicurati e giustificati nella loro abdicazione politica e sociale.
Ed è parimenti assai scettico il giudizio – espresso nello stesso periodo – di Aldo van Eyck, incentrato proprio su quella dilatazione tra passato e futuro che ha annullato il presente: mi sembra che passato, presente e futuro debbano agire nella mente come un continuum; se ciò non avviene, la nostra produzione sarà priva di profondità temporale o di prospettiva associativa […] Al giorno d’oggi gli architetti sono dediti in modo patologico ai cambiamenti, considerandoli come qualcosa che o si ostacola, o si rincorre, o di cui, nel migliore dei casi, si è all’altezza.
Questo, secondo me, avviene perché essi tendono a separare il passato dal futuro, col risultato che il presente è reso emotivamente inaccessibile, senza dimensione temporale.
Non mi piace un atteggiamento sentimentale, da antiquario verso il passato, come non mi piace un atteggiamento sentimentale, da tecnocrate, verso il futuro. Entrambi si fondano su una nozione del tempo (che antiquari e tecnocrati hanno in comune) statica, da orologio: partiamo dunque dal passato per cambiare.
Negli anni successivi, fino ad oggi, il binomio storia-utopia, pur conservando un ruolo rilevante nella pratica architettonica, si è frantumato irreparabilmente: da una parte, infatti, l’interesse per la storia si è prima pietrificato nella pesantezza retorica e monumentale dello storicismo del post-modern, per poi rifugiarsi nel sentimentalismo vernacolare di alcune manifestazioni regionaliste più conservatrici; dall’altra l’utopia, privilegiando l’aspetto fantastico e più facilmente pubblicizzabile, ha puntato all’autoaffermazione attraverso i mass-media, evitando di scontrarsi con la concretezza dei problemi della realtà architettonico-urbanistica.
Tradizionalismo-avanguardismo, regionalismo-internazionalismo, passatismo-futurismo, rappresentano le facce opposte di una problematica che rimane insoluta. Esperienza e aspettativa sembrano condannate, come nella tesi di Koselleck, a intrecciarsi, prevalendo l’una sull’altra a turno, senza mai costituire una sintesi.
È come se l’architettura, più o meno consapevolmente, avesse bisogno di rifugiarsi in una o nell’altra dimensione, per fuggire quella del presente, che dovrebbe esserle propria e che invece appare irrimediabilmente povera di contenuti.
Il divario crescente fra il contenuto dell’esperienza che si va progressivamente restringendo e l’orizzonte di attesa che tende ad allontanarsi rappresenta, secondo Koselleck, la caratteristica principale della nostra epoca; tale scarto accentua la dilatazione del presente come lacerazione, come momento di crisi inteso, secondo Paul Ricoeur, nel duplice senso di tempo di giudizio e di tempo di decisione.
[…] Il presente è tutt’intero in crisi quando l’attesa si rifugia nell’utopia e quando la tradizione diviene un deposito morto.
Di fronte a questa minaccia di frantumazione del presente storico, il compito è quello di […] di fare in modo che la tensione tra i due poli del pensiero della storia non degeneri in scisma: quindi, da un lato avvicinare al presente le attese puramente utopiche mediante una azione strategica preoccupata dei primi passi da fare in direzione del desiderabile e del ragionevole; dall’altro, resistere al restringimento dello spazio di esperienza, liberando le potenzialità inutilizzate del passato.
In un momento in cui la cultura architettonica dimostra di non essere in grado di trarre sufficiente esperienza dalla storia né di prospettare delle credibili aspettative, i dati più concreti e reali con cui il progetto architettonico deve confrontarsi restano comunque, più che mai, il «luogo» e il «tempo».
È la storia, la memoria che la città ha di se stessa che dà unità alle sue varie parti. […] Lo spazio entro il quale vivremo i prossimi decenni è in gran parte già costruito. Il tema è ora quello di dare senso e futuro attraverso continue modificazioni alla città, al territorio, ai materiali esistenti.
L’architetto dovrebbe operare nella vita reale conservando il senso dei possibile, prima ancora di quello del futuribile. Il futuro infatti non è staccato rispetto a noi, non arriva da solo, improvvisamente, ma, come abbiamo visto, si sviluppa in rapporto a ciò che lo precede, attraverso una stratificazione di esperienze.
Se si considera l’architettura come processo continuo nel quale tesi e antitesi si integrano dialetticamente, ovvero come processo nel quale la storia è strettamente coinvolta come anticipazione della storia, nel quale il passato abbia lo stesso peso di uno sguardo al futuro, allora il processo di trasformazione non è il solo strumento del progetto, ma è proprio l’oggetto del progetto.
tratto dal numero 102