Una tassonomia per il design

ANTONIO D’AURIA – RENATO DE FUSCO
A differenza di altri testi dedicati alla didattica di una disciplina, avente per oggetto un unico prodotto, si pensi al manuale dell’architetto, un libro diretto all’insegnamento del design dovrebbe considerare tutti gli oggetti prodotti industrialmente e che affollano il nostro ambiente quotidiano.

Tuttavia, ad elencarli per esteso non si andrebbe oltre un catalogo merceologico, peraltro continuamente da aggiornare, di poca o nulla utilità per l’insegnamento progettuale del design.
Come rendere il nostro testo inclusivo e in pari tempo caratterizzante i prodotti da esaminare? come ritrovare la circolarità fra il tutto merceologico e le parti proprie di ogni settore? e, in definitiva, come conciliare le opposte concezioni monistica e pluralistica del design?
La classificazione
Si evita l’elencazione passiva e al tempo stesso si esamina il maggior numero possibile di prodotti ricorrendo ad un’operazione tipicamente strutturalista che, ricordiamolo, rende semplice ciò che è complesso e ricerca le invarianti in sistemi di oggetti e oggetti singoli differenti fra loro.
Bisogna pertanto, prima di iniziare qualunque didattica pratica di design (ma tale pratica doveva essere preceduta da un’articolata impostazione teorica), preordinare una struttura, una sistematica, una tassonomia, una classificazione che, composta dal minor numero possibile di categorie contenga il maggior numero possibile di prodotti.
Evidentemente il principio strutturalista suddetto si associa o addirittura si identifica con un altro tipicamente riduzionistico: sono infatti le invarianti riscontrabili nei prodotti a far sì che essi si possano ridurre in poche categorie.
In base a quali criteri può costruirsi questa struttura-classificazione? Certamente, sia pure in una diversa misura, utilizzandone alcuni già noti di tipo merceologico, tecnologico, funzionale, ecc. Ma questo genere di criteri si rivela necessario ma non sufficiente alla didattica del design.
Quanto alla merceologia, essa dà luogo ad una classificazione più commerciale che operativa o progettuale; quanto alla tecnologia, dal momento che i prodotti più diversi possono essere realizzati con la stessa tecnica e viceversa, essa non risulta molto utile alla nostra classificazione; quanto al funzionalismo, esso ci sarà di indubbia utilità tassonomica, ma, visto e considerato che, specie con le tecniche più sofisticate, non sempre esiste un rapporto diretto fra funzione e forma, anch’esso non riesce ad essere un criterio basilare per la nostra classificazione.
Né la conoscenza empirica dei vari prodotti (che certo non sarà trascurata, al pari delle altre appena menzionate) risponde al nostro scopo in quanto, affidandosi ad essa, si trovano spesso gli stessi oggetti e le stesse tipologie di prodotti classificati in diverse categorie, con un risultato chiaramente opposto a quello che cerchiamo.
Il che dimostra, al fine, è bene ripetere, di ridurre, a poche categorie il maggior numero di prodotti, la preminente importanza non tanto delle proprietà intrinseche degli oggetti quanto dell’ottica donde sono stati osservati, dell’idea che informa il sistema delle categorie ed ognuna di queste.
Si ripropone, dopo l’esclusione o la limitazione di alcuni criteri tradizionali, la domanda: su quali e quante idee si fonda un’attendibile classificazione dei molteplici prodotti del design?
Sulla premessa di un fondamento antropometrico, gli altri criteri classificatori saranno in generale di tipo semiotico: il parametro prossemico, quello fondato sul binomio discrezione-continuità, l’altro sulla dicotomia invaso-involucro, salvo a far emergere valenze particolari nella ulteriore definizione di questi parametri e criteri: valenze ottico-percettive, funzionali, morfologiche, ergonomiche, di fruibilità, ecc.
Il fondamento antropocentrico
Il nostro libro, che vuole essere un testo per la teoria e la pratica progettuale senza la pretesa di far rientrare in queste l’intera gamma dei manufatti industriali, prende in esame solo quegli oggetti che si riferiscono alla percezione dell’uomo.
Come s’è detto, non ignoriamo gli aspetti funzionali, tecnici, simboli delle cose, ma privilegiamo il loro lato visivo; anzi, ricorrendo al vecchio binomio della critica d’arte, la visione «tattile» o vicina e quella «ottica» o a distanza, lo utilizzeremo quale principale componente del fondamento antropocentrico, inclusivo ovviamente delle proprietà antropometriche.
La maggioranza degli oggetti si vede e si tocca, presenta valori ottici e tattili (con la gradualità che diremo, costituente un altro criterio per articolare la nostra sistematica), ma vi sono oggetti che si vedono soltanto. Quest’ultimi sono quelli cui in generale si rivolge la nostra attenzione, ad essi dedicheremo inoltre una particolare categoria, la quale peraltro ci consentirà di includere molti aspetti del «visual design» nel design tout court.
Il criterio di limitare il nostro campo d’indagine a quello della percezione, oltre a costituire un parametro riduttivo facilmente comprensibile ed esplicitamente dichiarabile, rispondente peraltro ad antichi precetti — «l’uomo è la misura di tutte le cose», «non c’è nulla nell’intelletto che non sia passato per i sensi», ecc. — ci consente di effettuare altre pratiche riduzioni.
Sono infatti esclusi dalla nostra indagine i meccanismi interni di tanti prodotti che usiamo quotidianamente, come pure quelle macchine che producono altre macchine e, per estensione, quei prodotti coi quali entriamo raramente in contatto. In altre parole, il parametro percettivo ci consente di escludere dalla nostra classificazione tutto quanto non si vede e/o non si tocca degli oggetti quotidiani e quegli altri coi quali non abbiamo una grande familiarità.
Notiamo di sfuggita che la limitazione percettiva non è solo un «artificio» riduttivo per costruire con una materia tanto varia e complessa una classificazione semplice e funzionale, ma trova illustri precedenti nella storia del design; basta ricordarne uno.
Il compito che l’AEG assegnò a Behrens all’atto della sua assunzione fu quello della «riorganizzazione del visibile» di tutti i prodotti dell’azienda; e si può dire che solo operando la distinzione tra la conformazione e il meccanismo dei manufatti fu possibile curare il loro aspetto visibile, che altrimenti sarebbe stato dominato dalla tecnologia a quel tempo tra le più avanzate.
Il parametro prossemico
Diretta conseguenza dell’antropocentrismo e della riduzione percettiva è un altro parametro che possiamo definire prossemico. Com’è noto, la prossemica è una nuova disciplina, derivata dalla semiotica e proposta alla metà degli anni ‘60 da Edward T. Hall, che studia il «significato» delle distanze poste dall’uomo fra sé e i suoi simili e/o fra sé e gli oggetti di cui si circonda nella vita quotidiana.
Ponendo l’accento sul significato della distanza spaziale, dal rapporto erotico all’urbanistica, tale disciplina s’interessa prevalentemente degli aspetti comunicativi, semantici, semiotici, linguistici e per essi sociali del problema, tant’è che la classificazione adottata dall’autore americano si fonda su quattro tipi di distanza: quella intima, quella personale, quella sociale e quella pubblica.
Nella nostra classificazione possiamo solo parzialmente seguire la linea di Hall. Anzitutto perché non è tanto il problema del significato della distanza fra l’uomo e gli oggetti che ci interessa, quanto quello della forma che quest’ultimi assumono in relazione alla distanza con l’uomo.
Si tratta in sostanza, accantonando temi comportamentistici e sociali, di accogliere il suggerimento della distanza e di trasferirlo dal campo della significazione a quello della conformazione. Ma per effettuare questo passaggio è necessaria un’altra distinzione fra i nostri e i criteri di Hall.
Nella prossemica vera e propria si dà per nota e definita sia l’entità del soggetto che quella dell’oggetto, la distanza significando il loro rapporto. Nel nostro caso, mentre si dà per nota la struttura del soggetto-uomo (anzi sulla sua capacità percettiva si fonda gran parte del nostro ragionamento), non si dà affatto per scontata quella degli oggetti.
Conosciamo o possiamo acquisire sì le loro valenze estetiche, funzionali e tecniche, ma abbiamo visto che esse sono necessarie ma non sufficienti per dar luogo ad una classificazione.
Pertanto i tipi di manufatti da includere in ciascuna categoria vanno, per così dire, «costruiti» mentalmente in base ad un principio conformativo. Questo — cui si richiede, da un lato, di essere «concettuale» al fine di superare l’empiria dei criteri tradizionali e, dall’altro, di non essere un preconcetto astratto ma una pre-cognizione adeguata — può in prima istanza, riconoscersi proprio dalla nozione di «distanza» dal fruitore.
Tuttavia, poiché, come s’è detto, vogliamo ricavare da tale distanza non un significato ma una conformazione, gli oggetti non vanno solo pensati per la loro distanza dal soggetto, ma per la forma determinata dal rapporto con l’uomo e in definitiva dalla loro distanza-funzione con chi li adopera.
In tal modo riteniamo, per un verso, di accantonare il problema della comunicazione del significato in quanto non pertinente il nostro argomento e, per un altro, di superare il mero funzionalismo in quanto, grazie alla distanza-funzione, attribuiamo a ciascun oggetto o gruppo di oggetti un principio conformativo antropologico-spaziale; una sedia, ad esempio, non va classificata per la sua specifica utilità (un oggetto che serve per), ma per la sua forma-contatto col corpo umano, in una classificazione più ampia, quella di tutti gli oggetti che «sostengono» tale corpo.
È necessario a questo punto una precisazione.
Sia chiaro che le considerazioni che andiamo svolgendo, miranti a «costruire» una sistematica classificatoria, una tassonomia con nuovi criteri, devono trovare il loro posto nella più generale teoria della progettazione spiegata nel primo capitolo del nostro libro.
La ricerca di tali criteri, pur ispirata da altri assunti, non è estranea alla logica ermeneutica espressa in precedenza. In altre parole, fra la teoria generale della progettazione e la «teoria», volta ad individuare i principi idonei alla formulazione di una classificazione dei prodotti del design, non c’è contraddizione, né discontinuità.
Infatti, l’antropomorfismo, il vincolo percettivo, la nozione prossemica di distanza-funzione e gli ulteriori parametri che incontreremo altro non sono che pre-concetti, pre-cognizioni tendenti a diventare concetti e cognizioni quando, interagendo con altri parametri, si riveleranno adeguati a «costruire» la nostra classificazione.
In sintesi, se la teoria generale della progettazione si fonda sull’interazione dei quattro momenti — i dati, l’intuizione, la rappresentazione e la critica operativa — nonché sul passaggio dalla precognizione alla cognizione, anche la classificazione dovrà essere una sistematica e fondarsi sul passaggio dai pre-concetti, funzionali alla sua costituzione, e i concetti che realmente serviranno a descrivere un quadro abbastanza esauriente dei prodotti del design.
Discrezione-continuità
Il quadro appena nominato conserva quel carattere di eterogeneità che si riscontra sia fra le componenti del progetto, sia nelle categorie di prodotti e conseguentemente nei criteri stessi per la loro definizione.
Vogliamo dire che, mentre alcuni criteri sono validi per tutte le categorie, altri sono necessari ma non sufficienti a descriverle, altri ancora non assolvono questo compito, donde l’esigenza di formulare nuovi criteri.
Di indubbia validità generale è il fondamento antropologico, non a caso posto alla base dell’intera costruzione. Il binomio ottico-tattile si riscontra in ogni classe che indicheremo, anzi ci consentirà di definire più categorie di oggetti.
La nozione, di matrice prossemica, che abbiamo chiamato distanza-funzione sarà anch’essa sempre presente e utile a formulare più categorie in ordine alla diversa distanza dal fruitore. Ed è appena il caso di sottolineare che quasi sempre ogni gruppo di oggetti può leggersi in più d’una chiave di quelle indicate. Tuttavia vi sono dei prodotti la cui identificazione si avvale poco o nulla dei parametri suddetti.
Tra i nuovi criteri da chiamare in causa è quello, anch’esso di matrice linguistico-semiotica, del binomio discrezione-continuità. Diciamo «discreto» un prodotto composto da parti nettamente distinte, ciascuna delle quali non ulteriormente divisibili (si pensi ai fonemi della lingua); «continuo» è invece un prodotto le cui parti tendono a fondersi in una forma unitaria. La dicotomia, almeno nei settori di nostra competenza, designa degli aspetti relativi e non assoluti dei manufatti più o meno accentuati, poniamo, in ordine ai vari stili.
L’architettura greca, ad esempio, è contrassegnata dalla discrezione, ossia da grandezze discontinue in quanto composte da elementi dati. Altrettanto discontinue sono le cattedrali del Medioevo, sebbene composte con elementi discreti di diversa intenzionalità simbolica e figurativa; lo stesso dicasi, e ancora una volta con nuovi accenti, della discontinuità delle fabbriche rinascimentali.
Per trovare degli edifici che rendono l’idea della continuità, bisogna attendere l’affermazione del gusto barocco; come pure sono continue le opere dell’Art Nouveau, almeno di quella corrente di esso fondata sulla concavità-convessità delle superfici e delle linee. Con l’architettura razionalista ritorna come caratteristica principale la discrezione, successivamente smentita dall’architettura organica, ecc.
Insomma, in varie fasi della storia del gusto, si verifica quel passaggio che, tra Rinascimento e Barocco, Wölfflin aveva notato con le sue famose cinque coppie di concetti, tutte o quasi rapportabili alla dicotomia discrezione-continuità, che si dimostra problema storico e non ontologico.
Cosa ci dice tale dicotomia una volta applicata al campo del design? Essa non è tanto utile ad indicare categorie di oggetti, ovvero al principale compito che ci stiamo prefiggendo, quanto a svolgere alcune considerazioni sulla morfologia ed altre sul rapporto progetto-realizzazione che, come vedremo, è sempre riconducibile al binomio discrezione-continuità.
Per la questione morfologica, muoviamo da alcuni esempi: le prime automobili, i primi treni, i primi aeroplani erano caratterizzati dalla discrezione perché le loro parti erano chiaramente distinte e magari ognuna indicativa della propria funzione. Viceversa, gli stessi prodotti di più recente fabbricazione, a cominciare dalla tecnica e dalla moda del-l’aerodinamismo, sono caratterizzati dalla continuità: le loro parti tendono ad essere indistinte a confermare addirittura una unità.
Nella vita delle forme il fenomeno non è nuovo: tra le cinque coppie di Wölfflin sopra ricordate ce n’è una, quella del passaggio dalla molteplicità (rinascimentale) all’unità (barocca), che incarna e con gli stessi termini la trasformazione dalla molteplicità stereometrica all’unità, per così dire, dinamica. Quest’ultima va segnalata in quanto tende a prevalere nettamente sull’altra.
Se pensiamo a due casi emblematici, espressivi della dicotomia in parola, le forme di Mondrian come punto massimo della discrezione e quelle di Arp come massimo della continuità, ci rendiamo conto che sono state nettamente le seconde a prevalere nella morfologia dell’industrial design.
E ciò sia per motivi di gusto: lo Styling, lo streamlining l’aerodinamismo, assurto a simbolo della modernità; sia per ragioni tecniche: l’uso della galleria del vento, la lavorazione a stampo rivelatasi la più adatta a conformare le materie plastiche, la maggiore facilità di eseguire le rifiniture, ecc.
E tuttavia la linea dell’unitario o del continuo non ha debellato quella del molteplice o del discreto; primo, perché la logica dei «pezzi» distinti ed angolati a 90° s’è rivelata indispensabile per alcuni tipi di prodotti (i containers, altri sistemi di imballaggio, molti mobili, i componenti dell’architettura prefabbricata, ecc.); secondo perché il continuo è sempre riducibile al discreto.
Interviene qui l’aspetto progettuale della dicotomia in esame. È stato osservato che anche il linguaggio verbale, nella sua manifestazione fonica, è continuo e non discreto, ma si tratta di «una continuità che si presta (forse anche attraverso la mediazione, o l’occasione, della scrittura) a una formalizzazione discreta, cioè ad una rigorosa analisi tecnica in termini di discrezione».
L’indicazione è utile per la relazione fra l’oggetto effettivamente realizzato e il suo progetto. Infatti, posto che ogni prodotto, sia esso composto da pezzi o caratterizzato dall’unità, può sempre considerarsi un «continuo», al pari della lingua, dell’architettura, della musica o di qualunque sistema organizzato di segni, il luogo della sua riduzione al discreto è quello del progetto.
Qui troviamo infatti tratti verticali, orizzontali, obliqui e curvilinei, in quanto tali commensurabili e distinti, costanti e pertinenti l’opera da realizzare, nonché rappresentabili e riproducibili in questa o in quella scala metrica o antropometrica. È proprio grazie a queste proprietà degli elementi discreti che la conformazione di un simulacro grafico dell’oggetto diventa gradualmente, passando attraverso fasi e scale via via crescenti, vero e proprio artefatto di design.
Si può obiettare che, ammesso per vero il procedimento dal discreto al continuo e riconosciuto anche il prevalente carattere di continuità in un’opera realizzata, il procedimento rimane irreversibile.
Replichiamo che ciò non è vero. Infatti, a parte la possibilità di percepire nella continuità dell’oggetto reale i reali elementi discreti (il becco, il manico di una teiera), basta il fatto che quell’oggetto si possa ridisegnare, così com’era allo stato di progetto, attraverso il cosiddetto rilievo, per ridurre la continuità del prodotto in elementi discreti.
Concludendo, riteniamo che il design, come l’architettura e la lingua, contenga tanto un momento continuo (quella appartenente all’opera-messaggio), quanto un momento discreto (quello appartenente al sistema-codice).
Ciò che ci preme sottolineare è il fatto di poter dire, per quanto concerne il binomio continuità/discrezione, che la lingua nella sua manifestazione fonica sta al vero e proprio sistema di oggetti del design, come la scrittura sta al progetto, con la differenza che la lingua può precedere la scrittura, mentre il design è sempre preceduto dal progetto.
Involucro-invaso
Abbiamo già incontrato questa dicotomia nel capitolo sul design visto in chiave semiologica e identificato tale binomio con le componenti del segno. Si tratta ora di considerarlo in rapporto esclusivo alle proprietà di alcune categorie di oggetti, anzi di utilizzarlo per identificare quest’ultime quali componenti della classificazione che stiamo elaborando.
Avendo riconosciuto sin dagli inizi che eterogenea è sia la fenomenologia del design, sia gli oggetti che lo compongono, sia la loro progettazione, non deve meravigliare che anche i criteri adottati per classificare le categorie di prodotti abbiano una natura eterogenea.
Infatti, se il fondamento antropocentrico, il binomio ottico-tattile, il parametro prossemico possono considerarsi dei veri e propri criteri che danno la possibilità di riconoscere alcune proprietà di gruppi d’oggetti, il binomio involucro-invaso (che certamente risente del citato approccio semiotico) non è tanto un criterio, bensì appunto una proprietà conformativa di oggetti reali qui utilizzata a mo’ di criterio.
Siamo, se si vuole, nel caso degli altri parametri, in presenza di un procedimento deduttivo, mentre nel caso della dicotomia di cui ci occupiamo, in presenza di un procedimento induttivo: osserviamo cioè le proprietà di alcuni oggetti particolari e ne ricaviamo dei parametri generali atti a raggrupparli in apposite categorie. Nell’uno come nell’altro caso, quello che conta è la riduzione in «parametri» di concetti e/o proprietà nonostante il loro originario carattere eterogeneo.
La liceità e la coerenza del nostro procedimento è ancora una volta assicurata dalla circolarità e dall’interazione dei valori chiamati in causa. Così, se i prodotti contrassegnati dalla struttura involucro-invaso possono formare una o più categorie a sé stanti, al tempo stesso non si sottraggono ai criteri antropologici e antropometrici, né a quelli ottico-tattili, né a quelli della distanza dal fruitore, né infine al principio della continuità/discrezione.
Ma veniamo a descrivere le specifiche proprietà degli oggetti composti da un invaso e da un involucro.
La loro funzione primaria è quella di contenere (persone, animali, cose asportabili, cose fisse, meccanismi, ecc.), donde la possibilità di formare più gruppi o categorie di prodotti. Più che la loro funzione, che in taluni casi è così caratterizzante da andare oltre la classe che stiamo studiando per dar luogo ad altre categorie (l’architettura mobile, le auto, i treni, gli aerei, ecc.), ci interessa qui parlare della loro forma.
S’è detto nel capitolo semiologico che involucro ed invaso stanno in rapporto dialettico: non si dà l’uno senza l’altro, non si può modificare il primo senza alterare il secondo. Il che non ci impedisce di analizzarli partitamente.
L’invaso è uno spazio che può essere completamente vuoto (il cassone, il baule); scompartito in vuoti minori (la cassettiera); predisposto ad accogliere oggetti dalla forma definita (scatole per riporvi oggetti di precisione, servizi di posate, ecc.), ovvero occupato da un meccanismo.
In sintesi, il nostro invaso non è quello dell’architettura, né quello delle suddette architetture mobili, costituenti una classe a parte, possiamo anticipare che i restanti prodotti di design contrassegnati dal binomio di cui ci occupiamo possono ridursi a due grandi categorie: quella dei contenitori cavi e quella dei contenitori pieni, ognuna delle quali con una numerosa serie di articolazioni. E ciò risponde puntualmente al nostro programma classificatorio.
L’involucro presenta una morfologia più complessa. Intanto è esso che materializza l’invaso, caratterizzandone quasi ogni aspetto. Inoltre, l’involucro è un elemento a due facce, l’interna (che altrove definimmo «fodera» dell’invaso) e l’esterna: l’una differente dall’altra per forma, funzione e materiale.
La faccia interna dipende dalle cose contenute dall’invaso: sarà semplicemente di legno se gli oggetti contenuti saranno biancheria, fogli di carta, materiale di cancelleria e quant’altro si conserva ad esempio in un cassetto; sarà invece rivestita di un materiale morbido (panno, velluto, seta) se nell’invaso si ripongono oggetti delicati, di precisione o preziosi.
Molto spesso la faccia interna di involucro è a sua volta modellata a conformare altri contenitori minori: si pensi alle sacche interne di una valigia e agli scomparti praticati nel portello di un frigorifero.
La faccia esterna dell’involucro dipende ancora da un maggior numero di condizioni: dagli agenti atmosferici se il contenitore dovrà riporsi all’aperto; dalle caratteristiche del locale dove solitamente è tenuto; dal fatto di essere facilmente rimosso; di essere addirittura mobile e trasportabile, ecc.
In quest’ultimi casi l’esterno dell’involucro sarà corredato di maniglie, cinghie, rotelle, ecc. In generale, l’esterno dell’involucro è costruito o rivestito da un materiale più resistente di quello che riveste la sua faccia interna. Caratteristiche a parte presentano le due facce di un contenitore pieno. Pensiamo in particolare al carter che riveste, protegge un macchinario occupante lo spazio dell’invaso proteggendo al tempo stesso chi adopera quella macchina.
È significativo per il nostro discorso che sin dal 1891 entrarono in vigore in Germania le norme che imponevano di coprire con una scocca i meccanismi delle macchine utensili e quindi degli oggetti che contenevano un motore, al fine di evitare incidenti, sia sul lavoro sia nell’uso dei prodotti. Cosicché la nascita della carrozzeria, prima che come fatto estetico, si deve a criteri di sicurezza legati alla nuova tecnologia produttiva.
Tuttavia la componente estetica, quando l’involucro si trasforma in un carter, gioca un ruolo notevole: proprio la scissione tra una faccia interna, tutta funzionale e coerente a ciò che riempie l’invaso, e una esterna, tutta in relazione al fatto di agevolare i comandi e di maneggiare la macchina in modo gradevole e facile, fa sì che l’attenzione progettuale, almeno in ordine alle componenti del piacere e del gusto, sia tutta concentrata sulla faccia esterna dell’involucro; donde il riferimento alla scultura, ai criteri ergonomici, all’uso dei materiali più pregiati e resi tali da una perfetta finitura, da una gradevolezza tattile e ottica, ecc.
A proposito dell’estetica dei prodotti meccanici, Behrens ricorda una significativa raccomandazione di Paul Jordan, espressa in occasione del suo ingresso come consulente artistico all’AEG: «Non pensi che un ingegnere quando acquista un motore si metta a smontarlo per controllarne le parti. Anche il tecnico compera secondo l’impressione che ne riceve. Un motore deve essere bello come un regalo per il compleanno».
Le categorie
Entrando nel vivo della nostra classificazione che, è bene ripeterlo, per individuare un corpus del design, si compone del minor numero possibile di categorie contenenti il maggior numero possibile di prodotti, dopo aver esposto i criteri per formarla, è necessario articolarla concretamente appunto in categorie.
La loro definizione discende ovviamente dai criteri utilizzati per la generale classificazione, ma c’è un passaggio che richiede qualche ulteriore cenno esplicativo.
Infatti, se non è difficile comprendere come, muovendo dall’assunto-base dell’antropocentrismo, siamo passati al parametro-criterio ottico-tattile, da questo a quello prossemico della distanza-funzione e successivamente, associando, per così dire, il polo del soggetto a quello dell’oggetto, dall’uomo cioè alle sue cose, e chiamato in causa le proprietà di quest’ultime, alla doppia dicotomia continuità-discrezione ed invaso-involucro, resta da spiegare come da tali criteri e proprietà si sia passati alla definizione delle categorie.
Tale definizione, oltre che esprimere un concetto, richiedeva anche un nome ed un nome che omologasse ogni categoria in un sistema coerente e della maggiore uniformità. A tal fine, non bastava il fondamento antropocentrico e nemmeno quello antropometrico perché evidentemente questi aggettivi possono riferirsi a numerose altre esperienze umane non necessariamente pertinenti il campo del design.
Lo stesso dicasi per il binomio ottico-tattile, non a caso prelevato dal linguaggio della critica d’arte. Già il parametro distanza-funzione, anch’esso riferibile ad altre esperienze, ci avvicina di più alle caratteristiche di alcuni prodotti; finché, parlando di discrezione-continuità e di invaso-involucro, si sono accantonati parzialmente dei concetti per porre l’accento su proprietà oggettuali, peraltro molto pertinenti i prodotti del design.
Insomma, per la nomenclatura delle categorie, era necessario rimuovere quella eterogeneità, che pure non è stata mai negata nel corso dell’intero nostro ragionamento.
Alla soluzione del nostro problema tutt’altro che semplice come può apparire, è intervenuto il concetto di funzione, non solo e non tanto inteso nel senso funzionale, utile a, ma in quello più complesso conferito dai criteri e dalle proprietà di cui s’è detto sopra.
Cosicché, non potendo rinunziare per ciascuna categoria di prodotti all’idea e al termine di «oggetti» tal dei tali e in pari tempo non volendo nominare ciascun gruppo con questa costante parola, la si è data per implicita e la si è sostituita con l’aggettivo denotante appunto le funzioni e le proprietà degli oggetti stessi.
In definitiva siamo giunti ad utilizzare, per il nome di tutte le categorie, una sequenza uniforme di aggettivi sostantivati: sostitutori,lavoratori, sostenitori, contenitori cavi, contenitori pieni, trasportatori e visualizzatori.
Come si vede, in solo otto categorie si possono classificare tutti (o la maggioranza dei) prodotti del design.
tratto dal numero 85