LUCIANA BERTI, BRUNELLA VELARDI
Cinquant’anni fa «Op. cit.» pubblicava l’ormai nota inchiesta dal titolo La critica discorde, nella quale si raccoglievano interventi di critica all’arte contemporanea di alcuni tra i più illustri pensatori tra Otto e Novecento1. Di recente alcuni studi sono tornati su quel fascicolo numero 4 del 1965, riprendendone i temi principali alla luce di nuove riflessioni2.
L’allontanamento dalla natura e dalla sua rappresentazione mimetica, il conseguente disinteresse per l’uomo e per la religione, la caduta dell’arte nella tecnica erano gli aspetti presi in esame dalla prima generazione di critici in relazione all’Impressionismo prima, e ai movimenti d’avanguardia poi, a partire da una destrutturazione della figuratività del referente già riscontrabile nell’Espressionismo e nel Cubismo e portata a compimento con l’approdo all’elemento performativo e all’effimero, introdotti dal Futurismo, dal Dadaismo e dal Surrealismo.
Prese poi in esame le posizioni di una seconda generazione di critici che si muovevano sulla falsariga precedente, ne è emerso il rischio di un disinteresse reciproco tra artisti e pubblico e dunque di una frattura tra società e arte contemporanea che rende inevitabile fornire risposte alle domande che sempre più frequentemente si levano da un pubblico spesso incredulo e diffidente, quando non sprezzante. Eppure, molti sono i dispositivi di cui buona parte degli artisti di oggi si avvale proprio per ricucire quella “ferita” che, dalle avanguardie in poi, è sembrata finora insanabile.
D’altra parte, se il modernismo ha avuto come necessario corollario il postmodernismo, oggi la ricerca artistica è tutta tesa a definire la società attuale e a delinearne possibili futuri. Talvolta a tentoni, talaltra cogliendone l’essenza più profonda, l’artista contemporaneo cerca di rintracciare il senso dell’esistenza in sé e in quanto relazione col mondo.
La rimeditazione estetica sulle manipolazioni del corpo, sull’ibridazione uomo-macchina e uomo-natura vanno appunto in questa direzione e se da un lato segnano un drastico distacco dalla religione tradizionalmente intesa, dall’altro rintracciano nuove frontiere di una spiritualità che non ha più nulla di metafisico ma, il più delle volte, si concretizza appunto in una riflessione su una fisica aristotelicamente intesa, che ne diviene il nuovo referente.
L’innegabile, radicale trasformazione, che coinvolge la struttura stessa dell’arte, non può tuttavia non essere definita in relazione ai profondi mutamenti che il mondo ha subito (o provocato) a partire dal XX secolo. Accanto ai nuovi orizzonti tecnologici, all’ipercomunicazione e alla moltitudine di scambi che annullano o riducono drasticamente le barriere geografiche e culturali, si assiste a una sorta di ipertrofia di linguaggi, che se in parte rischiano di reiterarsi al punto da scadere nella sterilità3, per altra parte si rivelano in grado di formulare soluzioni nuove e perfino accattivanti per il pubblico, che nella ridefinizione dei ruoli e delle responsabilità prende ormai parte al processo di attivazione dell’opera.
Sebbene abbia sempre avuto un ruolo attivo nella decodificazione dell’oggetto estetico, oggi lo spettatore sembra occupare una posizione prioritaria. Infatti, avvertiva Eco, il fruitore interviene a colmare i vuoti semantici, a ridurre la molteplicità dei sensi, a scegliere i propri percorsi di lettura, a considerarne molti a un tempo – anche se mutuamente incompatibili – e a rileggere lo stesso testo più volte, ogni volta controllando presupposizioni contraddittorie4.
Benché sembri essersi stabilito un interesse inedito per il fruitore come parte necessaria nella presentazione dell’opera, non di rado tuttavia si riscontra nel pubblico una sensazione di frustrazione nell’aggirasi tra le opere d’arte contemporanea a causa di un lessico settoriale e di una frammentazione dei valori di riferimento che, invece, la televisione riesce a sintetizzare, accordando gusti, stili e interessi del pubblico di massa.
Nonostante gli sforzi degli artisti e dei mediatori – dal curatore al critico, dall’operatore didattico alla guida – il cortocircuito è innegabile. L’artista ha cominciato a impiegare le sue forze per incontrare il pubblico, non riuscendo a trovare un lessico condiviso5. L’opera, infatti, risulta respingente poiché in essa è attiva una dialettica di accettazione e ripudio dei codici dell’emittente e di proposta e controllo dei codici del destinatario6.
Una negoziazione non semplice, suscettibile di adattamenti continui e riformulazioni complicate anche dalla grande quantit à di opere prodotte per le quali – similmente a quanto accadeva, in passato, alle copie di bottega qualitativamente inferiori, di cui sono rimaste scarse tracce – la selezione è operata dalla fortuna e dalla storia; in entrambi i casi, il ruolo del critico, del divulgatore, del mercato e delle istituzioni si rivela determinante. L’opera non catalizza più i desideri del pubblico, benché essi siano centrali e soddisfatti attraverso altri sistemi, tra tutti, il cinema che, con la sua vocazione spettacolare e popolare, supera teatro, arte e letteratura.
Recuperando il referente, il dato sensibile, rintracciando la ricezione nella distrazione7, il cinema si avvale di una densa stratificazione di messaggi e della commistione di molte arti e tecniche, appagando e gratificando lo spettatore, poiché l’atteggiamento critico e quello del piacere del pubblico coincidono8.
Nonostante ciò, l’arte rappresenta ancora uno dei riti più radicati, sebbene non sempre esperiti con consapevolezza:Il fatto che l’arte possa recuperare una dimensione rituale, aperta all’altro, può diventare un modo per rompere l’autoreferenzialità e per contrastare questo senso di impotenza diffusa, mascherata spesso da finta libertà, da involucro di simboli che ricopre in realtà un vuoto di principi, di metodi e di relazioni, ma anche grazie a una capacità d’interpretazione e di intuizione dell’artista che coinvolge la dimensione sensibile, emotiva e spirituale9.
Inoltre, non va dimenticato che il problema della partecipazione del pubblico ai fatti dell’arte non è affatto antico,ma nasce in seguito ai processi di democratizzazione che investirono le istituzioni museali tra gli anni ’60 e ’70, i quali se da un lato hanno aperto i battenti a fasce più larghe di visitatori, al contempo hanno imposto una riflessione, ad oggi tutt’altro che chiusa, relativa all’accesso delle masse all’arte e dunque alle sue possibilità (o impossibilità) di comprensione. Ciò implica l’estensione del problema all’arte in generale e non, come più spesso si afferma sulla scia del «senso comune», specificamente all’arte contemporanea.
Contro una nostalgica visione che vuole il pubblico del passato maggiormente consapevole e coinvolto, vale la pena rileggere le parole di William Morris datate 1883: Non c’è oggi nel pubblico alcuna reale conoscenza dell’arte, né un po’ d’amore per essa. Niente, eccetto, nel migliore dei casi, certi vaghi pregiudizi […]. Perciò gli artisti sono obbligati a esprimersi, per così dire, in una lingua non compresa dal popolo10.
Proprio sul tema dell’accessibilità, Enrico Crispolti mette in chiaro alcuni degli equivoci più diffusi sulla fruizione dell’arte del nostro tempo, che, se presenta notevoli difficoltà di orientamento fra vicende disparate e spesso contraddittorie dello svolgimento multiforme della ricerca (al contrario dunque dell’arte del XIX secolo), può tuttavia offrire di fondo un’agevolazione di corretta disponibilità a un primo approccio, rispetto al confrontarsi con l’arte del passato. Sembrerebbero in effetti contraddirlo
difficoltà pregiudiziali apparentemente banali, ad esempio la convinzione che si possa capire facilmente l’arte del passato, contrariamente a quella del nostro tempo, che apparirebbe al confronto del tutto ermetica.
In realtà l’arte del passato risulta, molto spesso, strutturalmente assai più complessa in termini ideologici che quella del presente. Nella sua sostanza l’arte del passato si fonda infatti su una trasmissione, a volte quasi culturalmente iniziatica, di valori ideologici codificati, ai quali fa costantemente esplicito o implicito riferimento, e a prescindere dunque dalla ricostruzione e apprendimento dei quali risulta di fatto incomprensibile nella sua reale consistenza storica al di là della banale soddisfazione di una riconoscibilità elementare di «figure». […] L’arte contemporanea sostanzialmente dialoga invece, e in misura assai più ipotetica, con strutture antropologiche elementari, basiche, sostanzialmente psichiche, piuttosto che con strutture elitarie di pensiero11.
Una tale affermazione assume tutta la sua concretezza se si pensa al percorso di inclusione del fruitore intrapresa dal Minimalismo, fondato sul presupposto che l’opera non preesiste alla sua esperienza da parte del pubblico, e che molte delle ricerche successive hanno proseguito nel senso di un coinvolgimento sempre più totalizzante, secondo quel processo di trasferimento di senso dall’oggetto artistico, alla sua epidermide, all’ambiente in cui è inserito, fino a concretizzarsi nella coscienza di chi lo esperisce, come delineato da Rosalind Krauss12.
L’artista, ormai lontano dall’amara disillusione novecentesca, è dunque quanto mai prima d’ora interessato all’esperienza estetica del suo pubblico, annoverabile come nuovo referente: l’arte […] in Europa poggia sul rimando a criteri sempre più generali che coinvolgono non solo i livelli della creatività individuale, ma specialmente la sua collocazione nel contesto sociale. Ne risulta un impegno ideologico […]. L’artista europeo parte da questo stato di consapevolezza, accettando di operare attraverso il linguaggio specifico dell’arte, ma tentando di ribaltare tale specificità in progetto di trasformazione della realtà, assumendo l’arte come modello di comportamento alternativo13.
Non possiamo, quindi, lamentare una reale disattenzione verso l’arte, non solo perché gli artisti si fanno carico di una nuova responsabilità verso il fruitore, ma anche per la maggiore forza con cui le istituzioni propongono opere contemporanee come elementi capaci di catalizzare l’attenzione degli spettatori. Più che un divorzio, ne emerge una sostanziale indifferenza verso l’opera, tenendo conto, però, della grande varietà dei possibili destinatari ai quali l’artista conta di rivolgersi.
A contrastare l’indifferenza del pubblico troviamo in prima linea non tanto i critici, quanto gli artisti, che tentano – come si diceva – di guidare lo spettatore nella lettura dell’opera, con più o meno discrezione, sollecitando riflessioni e interrogativi. Dopo una fase di aperto contrasto con l’intero sistema dell’arte, gli stessi autori hanno compreso – che sia per opportunismo, per il peso dell’opinione pubblica e dei mass-media, oppure per il bisogno sincero di aprire un dialogo – l’urgenza di chiarire alcuni tratti della propria poetica.
Tale vocazione è palese non solo in quelle opere denominate «relazionali», che per vocazione e statuto sono ideate e prodotte con il dichiarato intento di interagire con lo spettatore, ma anche in quelle rispondenti a canoni tradizionali e non dichiaratamente «aperte»14. In esse il referente è più che mai la realtà, intesa non come oggetto main quanto parte attiva nella concretizzazione dell’oggetto d’arte.
Nell’opera contemporanea si ritrovano tutti quei rapporti parziali e contingenti che le persone quotidianamente individuano con gli oggetti, con gli altri individui, con il sistema. Quale forma questo dialogo arrivi ad assumere non è importante: infatti, come ricorda Angela Vettese, proprio perché i linguaggi artistici hanno subito un’apertura senza precedenti, l’idea iniziale richiede una realizzazione formale impeccabile, attentamente pianificata a priori e adeguata allo scopo e al luogo prescelti15.
A un rinnovato e inclusivo processo creativo si accompagna anche una riformulazione del ruolo dell’artista, del suo rapporto con il contesto e con altri autori: Si trasforma la figura dell’artista singolo, unico artefice del processo artistico, alfa e omega del valore dell’opera, unico depositario dei percorsi di senso. Nasce l’autore come individualità collegata, espansa, neurone che riceve, attiva, traduce, interpreta e ritrasmette informazione in continua connessione con altre entità. È l’elemento propulsore del processo artistico-comunicativo, che si definisce nella continua interazione tra co-autori, discipline, tecnologie e fruitori16.
Una situazione simile ha rappresentato, dagli anni ’90 in poi, una delle possibili vie percorribili, avendo chiari gli intenti comunicativi e preventivando la necessità di stabilire una relazione attraverso il raggiunto accordo su un idioma condiviso. In tal modo, la frammentazione indotta dalla specificità dei linguaggi si ricompone attraverso la simultaneità di codici diversi e di specialismi, che originano prospettive mai percorse.
La ricerca di Studio Azzurro è esemplare e rappresenta una realtà tutt’altro che marginale: il gruppo è stato scelto per la prima prova del Padiglione della Santa Sede alla 55ª edizione della Biennale di Venezia e le molte mostre che, da anni, si susseguono confermano il successo riscontrato dalla loro ricerca estetica, tra tecnologia e relazione. L’opera contemporanea, però, si dimostra ancora, il più delle volte, muta e ottusa. Ciò è dovuto a un preciso processo storico: Da quando l’arte si proclamò eccelsa, il suo isolamento si è fatto progressivo. Se la glorificazione a cui ogni opera aspira resta quella del Museo – elevazione dalla cronaca alla Storia – è necessario che intorno ad essa si crei un intervallo sacrale, un vuoto che solo apposite liturgie consentono di superare17.
Olga Scotto Di Vettimo propone di rintracciare nella non-autorialità una delle vie percorribili per una revisione della percezione del ruolo dell’artista e del suo fare in relazione al contesto: È qui, in questa sempre presente e dilatata contemporaneità, che una nuova ricerca estetica si muove, affrancandosi da antiche questioni che riguardano l’idea del «genere» e della «forma» e sostituendo ad esse modalità alternative di costruzione di un diverso logos, che prevedono la mescolanza e l’ibridazione, il mash-up e il remix anche nell’arte.
Il primo a cadere (o a escludersi spontaneamente) è il concetto autoriale e con esso tutto il sistema fideistico che lo sostiene. Si assottiglia, fino a scomparire, la distinzione tra autore e fruitore perché ciascuno contribuisce ad alimentare il processo, mettendo tra parentesi l’idea della firma, con l’ambizione di costruire, infine, un «immenso piano semiotico deterritorializzato», per dirla alla Lévy, in cui predominano dispositivi e processi18.
L’opera trova, così, un nuovo terreno sul quale incontrare il suo pubblico, non più confinata nei luoghi deputati e con le modalita&grave convenzionali ma negli spazi di condivisione. Ciò avviene tanto innescando una partecipazione estetica a tutto tondo, vale a dire una vera e propria esperienza corporea che precede immediatamente quella intellettuale, quanto una partecipazione di tipo sociologico, che chiama in causa le responsabilità dell’individuo nel sistema globale. In sostanza, se il fondamento della dinamica dell’immaginario collettivo è d’implicazione partecipativa, va tenuto presente che una tale misura s’insinua nella fenomenologia stessa dell’operatività artistica “contemporanea”, che spesso alla stessa implicazione esplicitamente aspira. […] E l’inerenza sociologica si puntualizza in una nuova attenzione da parte dell’artista alla ricettività dello spettatore, e dunque alla possibilità di una sua implicazione19.
Nel primo caso gli artisti si avvalgono di espedienti come la scala ambientale e la multimedialità innescando meccanismi assai diretti e di immediato impatto fisico ed emotivo. La via minimalista fu in qualche modo proseguita perfino da un artista già largamente affermato come Henry Moore, se dalla fine degli anni ’50 iniziò a volgere i suoi interessi verso la scala monumentale, riconoscendovi una maggior capacità di relazione con il corpo umano20.
Di questo filone fa parte Leviathan, lavoro di Anish Kapoor presentato al Grand Palais di Parigi in occasione di Monumenta 2011. Si tratta di un oggetto dalle dimensioni colossali, formato da tre sfere interconnesse in PVC rosso e fruibile in due modi: come scultura, camminandoci attorno, passando sotto le sue parti rialzate, osservandola a distanza dai ballatoi della grande veranda, oppure come ambiente, abitandola, entrandovi all’interno e inoltrandosi nelle sue concavità per scoprirne il cuore. Allorché ci si addentra nel ventre accogliente del mostro, le associazioni con la dimensione corporea sorgono spontaneamente, riportando suggestivamente lo spettatore nell’utero materno.
D’altra parte, dice Kapoor, il Leviatano è anche uno stato mentale. Esplorarne la concavità coincide con l’aprirsi al diverso (il mostro), esperire il sublime affrontandone il vuoto, per poi scoprire di essersi aperti a se stessi, aver vinto il terrore del buio e aver superato la paura della misura delle cose. Con esiti assai diversi, anche il concettualismo di Daniel Buren sembra aver ceduto il posto a una ricerca di tipo estetico-esperienziale con Come un gioco da bambini, opera in situ inaugurata nell’aprile 2015 al museo Madre.
All’interno della grande sala al piano terra il visitatore è invitato a inoltrarsi tra grandi sculture composte dalle riproduzioni a scala ambientale dei moduli geometrici delle costruzioni per bambini. Man mano che procede, un’esplosione di colori prende il posto dell’algida monocromia iniziale e, alla rievocazione della purezza infantile attraverso il recupero delle più recondite memorie, si sostituisce un presente incui le forme prendono vita grazie al colore, facendosi esperienza reale e non più immaginaria.
L’ironico concettualismo di Buren si tramuta qui in un discorso sull’arte come gioco di riscoperta mediante la dimensione ludica grazie alla quale il bambino, come lo spettatore dinanzi all’opera, impara a conoscere il mondo.
Anche i nuovi media e le recenti scoperte dell’informatica entrano efficacemente a far parte dei linguaggi dell’arte ampliandone l’orizzonte delle tecniche. Così, sostiene Maldonado, è indubbio che il rapporto arte-virtualità è un fatto di estremo interesse. […] Costituisce, a ben guardare, uno sbocco assai promettente al ricco ventaglio delle tendenze (e intuizioni) che si sono manifestate nel panorama dell’arte degli ultimi cinquant’anni21.
Nell’ottica dell’utilizzo delle nuove tecnologie nell’arte in senso multimediale si muove il già citato Studio Azzurro, il cui lavoro unisce indissolubilmente l’opera e i suoi dispositivi di fruizione, cosicché le loro ricerche risultano efficaci in modo molto originale, anche nell’inventiva messa in atto negli allestimenti museali, che divengono essi stessi prodotti artistici.
Nel secondo caso, la strada scelta è quella di una sorta di performatività collettiva che, attraverso l’invito a compiere gesti semplici, talvolta banali, riporta l’attenzione e la sensibilità del fruitore su temi di stringente attualità. Adrian Piper, vincitrice del Leone D’Oro alla 56ª Biennale di Venezia, ha proposto The Probable Trust Registry, opera nella quale il pubblico, dopo aver scelto una frase che rappresenta una dichiarazione di intenti tra le tre affisse al di sopra di seriose reception, (“I will mean everything I say”; “I will do everything I say I will do”; “I will always be too expensive to buy”), riceve un attestato che testimonia un impegno preso con se stessi.
Sullo stesso binario si muove il lavoro, anch’esso presentato all’ultima Biennale, di Rirkrit Tiravanija che ha proposto Untitled 2015 (14,086), opera che prevede la vendita dei 14.086 mattoni, ognuno al costo di 10 euro, fabbricati nei giorni di apertura della kermesse. Il ricavato sarà devoluto ad un’associazione non profit attiva per i diritti dei lavoratori cinesi. Tiravanija espone un lavoro seriale, al quale attribuisce immediatamente un prezzo, inconsistente quanto basta per suscitare interrogativi sulla validità dell’operazione, estremamente paradossale per i desideri che riesce a provocare nel pubblico che si trova nella condizione di essere l’immediato acquirente, condividendo questo status con altre 14.085 persone. Il movente sociale e politico è, poi, esattamente calibrato per destare nel fruitore un senso di empatia e partecipazione nel momento dell’acquisto del mattone, elemento basilare per la costruzione di una casa.
Conclusa, quindi, la stagione dello «sciopero dell’artista», si è innanzi a un rinnovamento del ruolo dell’artista nella società, consapevole della sua responsabilità nel definire il rapporto del pubblico con l’arte contemporanea. La critica, invece, sembra ancora arroccata in sistemi piuttosto chiusi, incapace, per indisponibilità o timore, di avventurarsi lungo strade impervie e di riformulare i suoi linguaggi. Chiamata a rintracciare lucidamente nuove traiettoriepossibili, la critica ha la necessità di tornare ad essere punto di riferimento per gli artisti e per il pubblico22.
Entrano allora in gioco, accanto ad arte e critica, nuove componenti, tra cui la tanto avversata quanto imprescindibile «comunicazione», dalle istituzioni verso la comunità e al loro interno e sottoforma di quella che oggi viene più comunemente chiamata «didattica dell’arte». È ancora Crispolti, riprendendo il discorso sopra riportato, a porre nitidamente i termini della questione: In certa misura dunque l’approccio all’arte dovrebbe risultare relativamente più agevole rispetto a quello dell’arte del passato.
Naturalmente molte delle difficoltà in realtà dipendono dalle spesso ancora limitate possibilità di un’esperienza effettiva di opere, intenzioni, problemi dell’arte contemporanea. Giacché se l’offerta di tali informazioni fosse maggiore, sia attraverso l’esistenza adeguata di musei specifici con una loro organizzazione didattica, sia attraverso l’educazione scolastica, il risultato sarebbe indubbiamente diverso23.
2. R. De Fusco, R. R. Rusciano, Tre domande. Questa è arte? Che significa? Non saprei farla anch’io? Un riesame, Altralinea-Intersezioni, Firenze 2014.
3.Cfr. R. Barilli, Prima e dopo il 2000, Feltrinelli, Milano 2006, p. 10.
4. U. Eco, Trattato di semiotica generale, Studi Bompiani, Milano 1975, p. 343.
5. Ivi, p. 329.
6.Ivi, pp. 341-342.
7. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pp. 44-46.
8.Ibidem.
9.A. Balzola, P. Rosa, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli, Milano 2011, p. 160.
10. W. Morris, Architettura e socialismo, Laterza, Bari 1963, p. 71.
11. E. Crispolti, Come studiare l’arte contemporanea, Donzelli, Roma 2005, pp. 30-31.
12. Cfr. R. Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art, Bruno Mondadori, Milano 2006.
13.A. Bonito Oliva, L’arte oltre il Duemila, Sansoni, Firenze 2002 pp. 311-313.
14. U. Eco, Opera aperta, (1962), Bompiani, Milano 2009, pp. 62-63.
15.A. Vettese, L’arte contemporanea, Il Mulino, Bologna 2012, p. 99.
16. Materiali per un Manifesto dell’arte e della comunicazione nell’era virtuale, 1992-1999, in A. Balzola, P. Rosa, L’arte fuori disé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli, Milano 2011, p. 50.
17. M. Vitta, Il rifiuto degli dei, Einaudi, Torino 2012, p. 127.
18. O. Scotto di Vettimo, Weltanschauung 2.0 e la nuova fenomenologia della creatività: l’Ipermoderno, in “Zeusi. Linguaggi contemporanei di sempre”, n. 0, 2014.
19.E. Crispolti, op. cit., p. 130.
20.Cfr. Henry Moore. Late large forms, catalogo della mostra tenuta a Londra, Gagosian Gallery, 31 maggio – 18 agosto 2012.
21.T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 77-78.
22.A proposito delle responsabilità del critico e del suo rapportocon l’artista, Crispolti scrive: «l’intervento di sollecitazione riflessiva, di discussione, da parte del critico, se realmente questi sia partecipe a quel fare, può contribuire a trasformare tale inconsapevolezza relativa in più specifica consapevolezza, operativa, quanto ideale, insinuando nel lavoro dell’artista una dimensione di maggiore oggettivazione culturale, e quindi di maggiore collegamento e senso di orientamento», op. cit., p. 165.
23. E. Crispolti, op. cit., p. 32.