La post-avanguardia

MARIANTONIETTA PICONE PETRUSA
Dai tempi di Hegel la formula della «morte dell’arte» ha avuto una straordinaria fortuna, accompagnando fino ad oggi le sorti dell’avanguardia. Questa, anzi, si è nutrita di ciò, contrapponendosi ad ogni forma di arte ufficiale e celebrando la corrosione sistematica di tutti gli stereotipi artistici fino all’abolizione dello stesso oggetto d’arte.
L’avanguardia tende alla «morte dell’arte» — scrive Fortini — distruggendo la comunicazione (pseudo-afasie, linguaggi criptici) o identificandola con qualsiasi atto pratico; sostituendo il comportamento all’opera: esaltando i prodotti culturali di massa o il kitsch. Anzi secondo Pedullà, le avanguardie tendono al suicidio. E in realtà è da più di un secolo che l’avanguardia interpreta la parte della moribonda, e di questo vive.
Tuttavia la morte dell’arte nel sistema filosofico di Hegel doveva avvenire con la confluenza di questa nella filosofia e dunque nella speculazione dell’Idea Assoluta con la cessazione della bellezza come forma sensibile dell’Idea. I vari filoni dell’avanguardia — pur facendo le debite differenze — si sono adoperati a dare credibilità a questo assunto ereditando proprio dalla filosofia idealistica l’attitudine a spostare il discorso dal suo specifico «sensibile» appunto all’Idea.
È il fenomeno — già rilevato ampiamente a livello di teoria dell’arte — che Argan ha in varie occasioni sottolineato come passaggio dall’artistico all’estetico. Il rifiuto della «materialità» dell’arte (o la sua trasfigurazione simbolica) derivava dalla stessa mentalità antipositivistica (che allora era tutt’uno con antiborghese) che aveva fatto proprio il concetto di morte dell’arte. Campione esemplare di questa situazione è Marcel Duchamp.
La sua eredità non bisogna valutarla oggi dalla qualità degli oggetti — del tutto vanificata — quanto rispetto al procedimento critico che vi è dietro. Rendere inagibili le categorie artistiche fino al punto di fare un’opera che non sia un’opera d’arte: questo è lo scopo principale delle sue ricerche.
E se dall’impressionismo, al postimpressionismo, ai fauves, al cubismo si era scardinato il sistema visivo di basi prospettiche, rimanendo però su un piano rigorosamente pittorico,
Duchamp fa un balzo in avanti, spostando il discorso su un piano prevalentemente mentalistico. Sono note le sue ricorrenti affermazioni contro la pittura retinica, a favore, invece, di un’arte mentale.
L’arte dunque, sposando le sorti dell’avanguardia, decreta la sua morte, rinuncia al suo statuto consolidatosi nei secoli, abolisce tutti i tipi di tabù e barriere, dilata la prospettiva estetica sconfinando in tutti i campi del reale, mentre paradossalmente è proprio dal reale che divorzia definitivamente.
A parte pochi e limitati episodi novecenteschi, l’intellettuale «organico» è finito con le barricate della Comune. Da allora in forme diverse l’intellettuale è stato «disorganico», «disgregato» (o se vogliamo «laterale» e «obliquo»), un figlio scomodo e fastidioso della borghesia che alla scomposizione in segmenti intercambiabili dei processi di divisione sociale del lavoro e all’organica marginalizzazione dell’artista, in quanto figura esemplare di lavoratore improduttivo,… reagisce attribuendo all’arte il compito specifico di una percezione integrale della realtà.
L’artista costituisce così la cattiva coscienza della borghesia. Ma nel momento in cui si assume questo ruolo ratifica la propria improduttività e condizione superflua (eccezion fatta per la linea razionalistica che emerge in architettura e nel disegno Continua a leggere